di Cesare Battisti

Il materasso ridotto a una sfoglia sopporta male l’umorismo di Tchekhov, chiudo il libro e mi rimetto a pensare al vuoto. Alle carceri lottate in permanenza, non si sa dove mettere tutti questi corpi accantonati. È il pieno addizionale, eppure è qui dove più impera il vuoto. Siamo ombre, lo spazio non lo occupiamo, lo oscuriamo appena. Ognuno a modo suo cerca di annullare ciò che di lui rimane sotto trecento gocce di valium, nel sorso di metadone rigurgitato da altre dieci bocche. O, come ha fatto ieri Hasnawi, quando con la lametta ha tagliato il cerotto di Fentanil con un po’ di pelle attaccata appartenente al suo compagno di cella che dormiva. Questo è carcere, la parentesi, ci ostiniamo a voler credere, mentre sarebbe più appropriato dire che le vere parentesi sono quelle ogni volta più brevi che la maggior parte di noi trascorre a piede libero.

Hasnawi è un bravo ragazzo, ha subito una stomia intestinale perché dicono che ha mangiato una ventina di batterie e queste gli hanno bucherellato l’intestino. Fa mille volte al giorno il corridoio alla ricerca di pastiglie e quant’altro di sballante gli è possibile ingoiare. Da me viene in cerca di zucchero per la prossima sfornata di grappa. Devo avergli detto un centinaio di volte che non uso zucchero, ma lui se lo dimentica e torna a chiedere.

«Com’è andata la storia del cerotto?» gli chiedo tanto per non lasciarlo a becco asciutto.

Hasnawi s’illumina, l’operazione è stata ampiamente commentata e anche con certa ammirazione.

«Bè, lui dormiva di brutto, il cerotto ce l’aveva sulla spalla, in bella vista. Ho provato a tirarlo piano piano ma non veniva, allora ho usato la lametta.»

«Ma hanno dovuto medicarlo, sanguinava.»

«Bè sì, mi è partita un po’ la mano ma lui non se n’è neanche accorto, si vede che del cerotto non ne aveva più bisogno. Ma tu, piuttosto, come fai a stare senza zucchero?»

Se ne va un po’ gasato. Mentre, dal libro abbandonato sul materasso, mi sembra di sentire Tchekhov mormorare: “È da così tanto tempo che non bevo champagne”. E mi sembra di vederlo mentre si porta la coppa alle labbra e beve. Qualche istante dopo la sua Olga gli prende la coppa vuota e la posa sul comodino. Lui si gira sul fianco, chiude gli occhi, e sospira. L’istante successivo, ha cessato di respirare. Frizzante fino all’ultimo; ma chissà se Tchekhov se ne volesse veramente andare?

Io resto ancora un po’ a guardare questa giornata fatta come altre cento tutte uguali. Così lunghe da passare una ad una, ma a ripensarle tutte insieme non fanno un solo giorno. Gli scherzi del tempo, dopo tanti calendari al chiuso dovrei averci fatto l’abitudine. Invece, ad ogni cambio di lenzuola mi faccio sorprendere, è passata un’altra settimana, oddio, ma è stato ieri!

Anche con i giornale mi confondo, succede che mi consegnino d’un colpo gli arretrati. Li stendo tutti sul letto e poi li ordino per data decrescente; voglio sfogliare il tempo con le mani. Le date in cima alla pagina non mentono, ma le notizie sono tutte uguali. È deprimente. Inverto l’ordine, li mischio, ne apro uno caso e leggo un titolo di guerra. È un’altra guerra, ma le vittime sono le stesse di ieri e di domani. Solo i nomi cambiano, ed è per sentire lo scorrere del tempo che mi devo leggere gli annunci mortuari. O le pagine che ho scritto ieri, che oggi mi sembrano insensate.

“Beato te che ti piace scrivere”, me lo sento dire qualche volta, da un’anima che cerca un po’ di pace. Non me la sento di deluderlo, mettendomi a parlare dello struggimento per mettere in fila due pensieri. Dell’abbattimento, o dell’impotenza atroce al ritrovarmi davanti al PC fracassato durante una perquisizione. Alle pagine da rifare e al tempo che regredisce. Non lo posso dire a chi mi sta guardando con occhi speranzosi di mendicante bambino, e a chi tremano le mani. Anche se qui non è ciò che uno dice che conta, ma sì dire qualsiasi cosa per riempire il vuoto.

Intanto il mondo gira e sforna nefandezze. Nel momento stesso in cui accadono i fatti di oggi sono già notizia. Perfino nel chiuso di una cella crediamo di essere costantemente collegati, anche se crederlo non è precisamente lo stesso che stare al  mondo. La nostra vita dietro le sbarre scorre a parte, mentre la TV ci bombarda di notizie devastanti, che noi assorbiamo come gente libera e normale e talvolta commentiamo pure, con sincera passione. Scottati dalle fiamme che lo stanno divorando, ci palleggiamo il mondo che va male e ci crogioliamo nella responsabilità civile,  finché l’oblio torbido della prigionia non  viene a dirci che niente di tutto quanto succede ci riguarda veramente.

Per lo spirito in catene, non c’è disgrazia tanto grande che lo possa distrarre dall’angoscia della libertà negata. Eppure, vista da un angolo diverso, la nostra condizione potrebbe addirittura essere vantaggiosa per vederci chiaro: messi fuori dal mondo, cioè alla distanza che ci prescrive il carcere, dovremmo avere una vista privilegiata sulla complessità globale. Fuori dal flusso ininterrotto della vita, dovremmo poter seguire le linee tracciate dagli avvicendamenti. E avendo dalla nostra il tempo, il quale solo la prigione è in grado di fermare, dovrebbe essere nostro ogni istante in cui le cose accadono per sapere da dove queste vengono e dove vanno. Ma siamo prigionieri, di un’idea di libertà che, seppur vaga e datata, non ci lascia vedere e né sentire perché essa stessa ci completa. Ci fornisce la ragione per continuare a dirci, la sera prima di crollare, che di concreto nel nostro mondo c’è solo la prigione da scontare.

 

 

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