di Emanuela Monti

“Un lavoro temporaneo come standista”.
“Dove?”
“Alla mostra per l’“Incoronazione della Vergine” di Botticelli. Agli Uffizi, per una quindicina di giorni. Ti interessa?”, mi chiese un amico che si occupava dell’organizzazione di eventi.
“Certo che mi interessa, ho bisogno di soldi e poi agli Uffizi, scherzi?”
Accettai subito il lavoro e non me ne pentii. Come avevo immaginato, mi rendeva felice entrare in Piazza della Signoria prima delle otto del mattino, percorrere il selciato di pietra serena fino alla Loggia dei Lanzi, svoltare l’angolo e trovarmi di fronte le simmetrie rinascimentali degli edifici progettati dal Vasari. Firenze, la città in cui avevo scelto di vivere, che avevo voluto con determinazione, mi appariva in tutto il suo splendore. E mi sentivo un’eletta quando facevo il mio ingresso agli Uffizi, percorrevo l’atrio e la teoria di sale fino a quella che era stata allestita per celebrare il restauro del quadro di Botticelli.
Fuori faceva caldo, ma all’interno le mura cinquecentesche garantivano una gradevole sensazione di fresco. Ovunque girassi lo sguardo coglievo un tripudio di bellezza.
I visitatori si concentravano in alcune ore del giorno; prendevano d’assalto il bancone, chiedendomi informazioni, sfogliando monografie e cataloghi e arraffando cartoline, non solo quella dell’“Incoronazione della Vergine” di Botticelli, che era stata riprodotta in innumerevoli copie, ma anche quelle dei capolavori degli altri artisti che si potevano ammirare agli Uffizi. Nelle ore morte leggevo o mi lasciavo andare al flusso dei pensieri, mentre mi godevo il silenzio ovattato della sala. Inevitabilmente tornavo a pensare alla proposta che aveva ventilato qualche tempo prima il mio professore: un dottorato in Letteratura comparata negli Stati Uniti.
Peccato che poi non si fosse più fatto vivo. Erano passate parecchie settimane da quando mi aveva prospettato quella possibilità e io mi ero ben guardata dall’importunarlo.
Ora però cominciavo a sentire che avrei dovuto fare qualcosa. Non appartenevo a quella schiera di studenti che sgomitavano per accaparrarsi privilegi o anche solo per farsi notare dai professori; non ero mai stata capace di arruffianarmi e detestavo chiedere e ancor più piatire. Tuttavia, per quanto amassi Firenze, avevo voglia di esplorare nuove realtà, orizzonti più ampi, soprattutto all’estero e poi un dottorato in Letteratura comparata, ovvero la possibilità di lavorare nell’ambito della letteratura, la passione della mia vita, rappresentava più di quanto avessi mai osato sperare.
Un dottorato in Letteratura comparata negli stati Uniti, un’occasione che non mi sarebbe probabilmente mai più capitata, come potevo farmela sfuggire? Eppure non riuscivo a immaginare un modo per rammentare al professore quella promessa senza sentirmi a disagio. I giorni passavano e mi dibattevo tra il desiderio che quell’idea si concretizzasse e il timore di apparire petulante.
Finché una turista americana fece incetta della cartolina dell’“Annunciazione” di Leonardo da Vinci.
Ne prese una ventina, svuotando il reparto dell’espositore, quindi, con aria afflitta mi chiese: “Don’t you have any other postcards like this?”
“No, I’m sorry. Tomorrow maybe. Tomorrow they should bring more postcards”
“Tomorrow I am leaving very early. What a pity! It is my favourite painting!”
Avevo visto e ammirato più volte l’“Annunciazione” di Leonardo, quel giorno però fui contagiata dall’entusiasmo della turista americana e durante la pausa pranzo tornai a guardarlo con un’attenzione particolare. Rimasi incantata a osservare i dettagli botanici del prato, lo sfondo sfumato al di là degli eleganti cipressi, la delicatezza dei tratti dell’angelo e della Vergine, il panneggio delle vesti, l’armonia del colore, della luce e delle ombre. Il quadro mi emozionò così tanto che il giorno dopo, quando rifornirono l’espositore che si trovava in un angolo del bancone, pur senza eguagliare gli eccessi della turista americana, mi accaparrai diverse cartoline con l’immagine leonardesca.
Una l’avrei fatta incorniciare a giorno e l’avrei attaccata alla parete dell’ingresso, sopra alla consolle. Le altre le avrei spedite ai vari amici sparsi per il mondo, magari quando avessi avuto qualcosa di bello da annunciare. Sì, sarebbe stato un modo perfetto per annunciare una bella notizia. Magari la mia partenza per il dottorato in Letteratura comparata negli Stati Uniti, quel dottorato cui agognavo, ma che rischiava di restare confinato tra i sogni non realizzati, alla mercé del capriccio di un professore troppo occupato e della mia ostinata riluttanza a chiedere.
Ma proprio allora mi balenò l’idea di usare quell’immagine per contattare il professore. Sarebbe stato un modo non troppo invadente e allo stesso tempo inusuale per ricordargli la promessa. Così, d’impulso, sul retro della cartolina vergai queste parole: “Un saluto dagli Uffizi e dall’Annunciazione di Leonardo. P. S. Purtroppo non ho nulla da annunciarle. Magari lei invece sì.”
L’espediente funzionò. Il professore mi rispose a stretto giro posta chiedendomi di andare a trovarlo per definire i dettagli del progetto di studio all’estero.
Ci incontrammo poco tempo dopo e il professore si mostrò molto disponibile e organizzato. Mi scrisse una lettera di referenze, mi raccomandò di procuramene altre e mi spiegò a chi avrei dovuto inviare la mia application, che tuttavia sarebbe stato un atto formale, poiché in pratica era già cosa fatta. Il dottorato si sarebbe svolto a Tucson e il mio relatore sarebbe stato il prof. Anthony Rastrello, il quale, per una fortunata combinazione, sarebbe venuto a Firenze qualche giorno dopo per una breve vacanza.
Nell’attesa di incontrare il professore americano continuai a lavorare come standista alla mostra dell’ “Incoronazione della Vergine” del Botticelli, a elargire informazioni e consigli ai visitatori, a vendere libri e cartoline. Chi chiedeva L’“Annunciazione” di Leonardo mi strappava sistematicamente un sorriso, perché provavo una subitanea complicità con l’acquirente, e dovevo reprimere la tentazione di dirgli che quel quadro aveva dato una svolta alla mia vita. Era grazie all’“Annunciazione” di Leonardo se ora avevo davvero qualcosa di bello, anzi, di fantastico, da annunciare agli amici e al mondo intero.
Era grazie a quel quadro se presto sarei partita per gli Stati Uniti e avrei intrapreso una carriera universitaria di tutto rispetto. Certo, Tucson non era proprio la destinazione che avrei preferito. Una città in mezzo al deserto dell’Arizona, meta privilegiata di ricchi pensionati, non poteva certo competere con le vibranti metropoli degli Stati Uniti, come New York o Los Angeles, in cui avevo soggiornato nel mio viaggio dopo la laurea.
Ma l’importante era partire, iniziare una nuova avventura e soprattutto muovere i primi passi nella carriera universitaria, in un ambito, quello della letteratura comparata, che da sempre aveva suscitato il mio interesse. Almanaccavo sul mio futuro accademico ed esistenziale; in un lampo dell’immaginazione mi vidi perfino scendere una scalinata neoclassica con un vestito di chiffon color tea e un improbabile cappello a tese larghe, come la Daisy del Grande Gatsby interpretata da Mia Farrow, una donna di mezza età bella ed elegante, ma una Daisy colta, una Daisy col cervello, che non avrebbe avuto alcun bisogno dei soldi degli uomini per sentirsi realizzata e felice.
La mostra dell’“Incoronazione della Vergine” si concluse e lasciai quell’occupazione agli Uffizi a malincuore. Era stata una parentesi, un’attività così diversa rispetto a quelle tra cui mi barcamenavo per riuscire a mantenermi, che aveva avuto il sapore di una vacanza. Restare immersa nella bellezza per giorni interi mi aveva fatto bene. E poi mi aveva regalato quella splendida opportunità. Mi aveva donato l’“annunciazione” di una nuova vita. E io ero pronta ad accoglierla; di più, ero bramosa di afferrarla.
Avevo già appeso la cartolina incorniciata a giorno nell’ingresso e ogni volta che rincasavo e vedevo la riproduzione in miniatura del quadro di Leonardo mi sentivo invadere da un’ondata di positività. La bellezza di quel quadro mi suscitava ogni volta un rinnovato stupore, mi riempiva di meraviglia e aveva il potere di infondere al mio futuro la luce soffusa della speranza.
Finalmente arrivò il giorno dell’appuntamento con il professor Anthony Rastrello.
Mi accolse in un’ampia sala semivuota del Dipartimento, in cui si perdeva una cattedra degli anni Quaranta, dietro alla quale si scorgevano le spalliere di due sedie massicce. Alle finestre erano appese delle veneziane sudicie e sbilenche. Una era anzi decisamente rotta e i listelli pendevano obliqui su un solo lato della finestra. Il sole filtrava attraverso le veneziane mettendo in evidenza il pulviscolo che aleggiava nell’aria stantia. In un angolo della stanza c’era un cestino che traboccava di carta straccia e che nessuno si era preso la briga di svuotare.
Il professore doveva avere una sessantina d’anni, era tarchiato, aveva i capelli radi e un inguardabile riporto sulla chierica. Indossava un vestito grigio dal taglio impreciso e dal tessuto scadente. Aveva tutta l’aria dell’italo-americano di terza o quarta generazione, i cui antenati fossero emigrati in qualche sperduta provincia degli Stati Uniti, dove i canoni dell’eleganza, i dettami della moda e la perizia sartoriale non erano mai approdati. Mi invitò ad accomodarmi con fare mellifluo, quindi si sedette a fianco a me e poiché lo spazio sotto alla cattedra, tra una cassettiera e l’altra, era piuttosto angusto, infilò a fatica le gambe corte all’interno del vano, attaccando il ginocchio al mio.
Ritrassi subito il ginocchio, ma non c’era spazio nel vano sotto alla cattedra ed era impossibile evitare il contatto. Il professore iniziò a spiegarmi il sistema che vigeva nell’università di Tucson. Parlava molto in fretta, mischiando l’inglese a un italiano dal forte accento americano, quasi che con quel flusso inarrestabile di parole cercasse di confondermi o almeno di deviare la mia attenzione da quella pressione che nel frattempo esercitava con sempre più intensità sul mio ginocchio.
Avrei potuto spostare la sedia più indietro e liberarmi da quel contatto sgradevole, ma se l’avessi fatto avrei dovuto assumere una posizione innaturale, troppo distante dalla cattedra e dai documenti che il professore mi mostrava. Soprattutto, il mio spostamento non sarebbe passato inosservato. Sarebbe stato come dichiarare che la vicinanza del professore mi infastidiva e, cosa ancor più grave, sarebbe equivalso ad accusarlo di spingere intenzionalmente il suo ginocchio contro al mio. Avrebbe provato la mia consapevolezza del teatrino che stava inscenando, del fatto che, al di là di quella raffica di parole, di quella spiegazione dettagliata su argomenti accademici, del tutto in linea con il suo ruolo professionale, in realtà mirasse soltanto a soddisfare le sue voglie di vecchio porco. E se invece non ci fosse stata alcuna intenzione? Se il professore non si fosse reso conto di spingere con forza sproporzionata il suo ginocchio contro il mio, preso com’era dal suo discorso torrenziale? Che figura avrei fatto? Si sarebbe senz’altro offeso. E chissà come avrebbe reagito l’altro professore, che avrei messo in una situazione di estremo imbarazzo! Pensieri contrastanti si affastellavano nella mia mente, mentre mi sforzavo di seguire quello che diceva il professore, perché una parte di me voleva credere a quella possibilità, si attaccava alla speranza in una vita fatta su misura, si rifiutava di ammettere che tutti i sogni dell’ultimo periodo potessero infrangersi così, d’un tratto – prima ancora che avessi potuto assaporarli concretamente – in una desolata stanza della facoltà, per via di un ginocchio tozzo che continuava a premere con prepotenza sul mio. Eppure il mio istinto aveva già fatto centro. Rimasi immobile fino all’ultimo, fingendo che non stesse succedendo proprio nulla, senza mostrare alcun turbamento. Ascoltai con fatica crescente le frasi del professore, che mi arrivavano sempre più smozzicate, mentre una vena di tristezza si insinuava dentro di me, per poi dilagare. Nel congedarmi, il professor Anthony Rastrello mi invitò a cena e, mentre mi stringeva la mano, dalla sua sentii emanare inequivocabilmente il calore dell’eccitazione. Ebbi la prontezza di trovare una scusa; gli dissi che proprio la sera stessa dovevo partire per una vacanza. “Accetterò molto volentieri l’invito quando sarò a Tucson”, gli risposi. Negli occhi del professore luccicò un bagliore libidinoso. Lo lasciai pregustare il piacere dei sensi per quell’incontro che non ci sarebbe mai stato. Mentre lo salutavo, avevo già deciso. Non sarei mai partita per Tucson. Non ci sarebbe stato alcun dottorato in Letteratura comparata, non avrei mai intrapreso una carriera universitaria e tanto meno avrei indossato un vestito di chiffon color tea, scendendo una scalinata neoclassica.
Quando rincasai, nonostante il profondo sconforto, l’“Annunciazione” di Leonardo mi accolse anche quella sera come una promessa di gioia. Sapevo che avrei dovuto continuare a fare i salti mortali tra i lavori più disparati e ben poco gratificanti per sopravvivere. Sentivo che la strada sarebbe stata lunga. Niente era mai stato e sarebbe mai stato facile, per me. Ma la bellezza esisteva. La speranza anche. Le avrei trovate altrove, un giorno. Il quadro di Leonardo sarebbe rimasto lì a ricordarmelo.