di Franco Pezzini
Gerardo Spirito, Madreselva, pp. 432, € 18, Moscabianca, Roma 2025.
Lucrezia Pei e Ornella Soncini, Nella verde gola delle lupe, illustrazioni di Marco Calvi, pp. 112, € 12, Moscabianca, Roma 2024.
In Italia come in altre parti del mondo, per secoli e anzi millenni il bosco – o la foresta, magari – è stato una realtà concreta e un polo simbolico di confronto continuo con l’uomo, solo o stretto in villaggi. Oggi continua a esserlo per chi viva all’esterno di grandi città specie in prossimità delle montagne: in Italia Alpi e Appennini conservano situazioni antiche, e la letteratura è pronta a valorizzarle non solo in un amarcord silvopastorale caro ai vecchi, ma scavando nelle ricchezze di un certo orizzonte immaginale.
Dal ricco catalogo di un piccolo editore di pregio come Moscabianca sarà interessante dunque recuperare due titoli che a un simile contesto ci conducono: a partire dall’appena uscito Madreselva di Gerardo Spirito. Già autore de Il libro nero della fame (Moscabianca, 2022) e fondatore della rivista “Calvario”, l’autore offre qui una prova narrativa molto interessante, nel segno di un fantastico inteso (non tanto come contenuto specifico, ma piuttosto) come modo di sentire e narrare.
Diciamolo subito, il titolo gioca su un paradosso: per la gente che vaga alla deriva nei boschi descritti – le storie sono legate a comunità di un’Italia appenninica in un vago meridione (viene da pensare a certi Abruzzi estremi di racconti dannunziani) – o sopravvive in borghi più o meno abbrutiti – ne viene descritto soprattutto uno – più che madre la selva è spinosa matrigna. Come la montagna descritta, sorta di divinità assorta e spietata di un orizzonte selvatico mitico-magico in cui mistica cristiana e pagana si mescidano continuamente: c’è molta religio – in tutto il ventaglio dei significati etimologici, dalle preghiere assorte alle superstizioni, dalla vendita ambulante di testi sacri alla “storia popolare del mondo” da Bibbia dei poveri di Carlo Lapucci – ma sembra sciabordare in dimensioni a tratti persino più primitive di quelle analizzate da de Martino. Il tranquillizzante pragmatismo magico che in tante comunità arcaiche rende possibile il confronto quotidiano con le istanze estreme della natura qui è ridotto al minimo: le ossessioni del singolo (un padre che venera la pietra tombale di un figlio morto troppo presto, un altro morente che vuol farsi tumulare presso un albero sacro) prevalgono su “regole” comunitarie intoccate per millenni a tutela degli umani, come a iniettare nelle letargie di un mondo immobile la variabile impazzita della certezza sciamanica o della degradazione patologica – e guaritrici e santedonne fan quel che possono. Catabasi in caverne, carbonaie, alberi cavi e romitaggi, transumanze sacre, benevolenze limitate e conclamate brutalità scandiscono le vite di figure anomale persino in simili contesti estremi: una povera ragazza di aspetto sgradevole umiliata e linciata, un bambino perduto – come in fondo già tutti i suoi affetti –, persone alla deriva di malattie misteriose, preti smarriti…
Quasi stranianti risultano dunque le miti preghiere di mattino, sera e notte di “Ma’ Cristiana, anziana vergine romita”, a incorniciare l’insieme come un pietoso officio religioso: anzi volutamente stranianti, perché nonostante il nostro istinto ad applicare a quanto pare assurdo criteri e valutazioni moderne, brutalità e atrocità descritte restano antropologicamente altre.
Il contesto narrativo pare modulato oralmente, con tutte le necessità d’inchiodare un ascoltatore (idealmente accanto al fuoco) all’inesorabilità di convinzioni e all’etica crudele di un mondo remoto e miserrimo, tra vertigini ctonie e indifferenza cosmica, rutti sghignazzi imprecazioni: e la struttura stessa evidenziata dall’indice finale ma scandita di continui richiami interni rende difficile definire formalmente l’opera come “Raccolta di racconti” come sul sito – semmai di storie diverse, all’interno di una originalissima narrazione unitaria dove tutto si tiene. Il registro estremo che porge l’insieme non sversa però mai in un eccesso grottesco, i dialoghi sono gestiti con mano salda, la voce narrante si mantiene sapientemente asciutta e la stessa scelta di rifiutare mimesi dialettali – come Spirito poteva essere tentato di fare – a favore di un italiano sobrio risponde a una consapevolezza autorale apprezzabile.
Boschi del tutto diversi e voce differente troviamo nello scintillante romanzo breve dell’anno scorso Nella verde gola delle lupe dell’affiatato duo Lucrezia Pei e Ornella Soncini (a volte, non qui, reso con l’attribuzione unitaria Sonpei), attive su vari fronti dell’editoria e autrici di narrazioni – spesso brevi – di carattere più o meno fantastico, dove (riporto dalla nota bio) “esplorano l’universo femminile, le questioni di genere e il rapporto col mondo naturale”. Sostenuta dalle meravigliose tavole d’illustrazione di Marco Calvi, la storia distopica, amara ma temperata di grazia si ambienta in un Cinquecento alternativo; e narra della piccola Ana, ragazzina ribelle e curiosissima e della comunità matriarcale cui appartiene – mamme, nonne, ave, zie, ragazze, bambine – isolatasi in un mondo riparato, a celebrare il culto di Nostradonna. Il bosco nuovamente demarca, vela, oscura: mai superare un certo tiglio, pena l’incontro con gli esseribestia. Ma il fragile equilibrio con cui la comunità ha tentato di smarcarsi da un patriarcato divorante, e che vede intessere complesse strategie di rapporti con l’altro sesso attraverso pratiche ritualizzate di accoppiamento e riproduzione sul confine tra i due mondi, dovrà confrontarsi con una drammatica crisi. Di più sarebbe peccato anticipare: ma almeno due note chiave vanno sottolineate.
La prima sui contenuti. Alla base della storia comunitaria si rammemora la storia di una giovane santa che nel profondo della foresta ha domato un enorme lupo nero, aggiogandolo poi con la cintura. Chi frequenti un po’ l’immaginario arcaico nota le ibridazioni (Francesco e il lupo, Marta e la Tarasque…), il gioco di archetipi (in particolare il lupo, la cui ombra si declina qui in tante forme diverse e con mille echi, al femminile e al maschile), le dimensioni di iniziazione tribale, reinventati e giocati con estrema fluidità e intelligenza nel testo. La cui storia è senz’altro originale ma ne allude e ne richiama sapientemente mille altre come in un gioco di ombre, a circonfondere il tutto di un’aura mitica. E di estremo interesse è la dinamica generazionale evocata, con le sue crisi, i giudizi, le ribellioni, le violenze: la vicenda non presenta semplificazioni o scorciatoie, postula la complessità come chiave di analisi in una Storia dove poi è giusto schiararsi.
La seconda riguarda la forma. Nel testo troviamo una scrittura elegante, di passo letterario e lievemente anticata, che non si esaurisce mai nel registro “di servizio” tanto diffuso per esempio in certo fantasy popolare di buoni sentimenti (mentre qui una certa complessità allusiva e talora ellittica costringe a leggere con attenzione), con una resa a tocchi sobri quanto efficaci delle psicologie di figure di diversa età e un’ottima qualità di affresco collettivo. Anche la soluzione di concentrare nel tempo di un anno la storia interessa la sua struttura formale e insieme echeggia il senso delle stagioni sotteso ai tempi propri delle donne coinvolte (l’anzianità, il momento degli accoppiamenti, le gravidanze…). Ma forse in questo tempo esemplare, quest’anno critico dei giorni nostri, ci troviamo tutti: e in questi boschi, esterni ai rapporti tessuti nelle nostre vite, luoghi dell’Altrove e del nascondimento, dei limiti e dei confini ultimi di ciò che siamo, andiamo brancolando anche noi.