di Luca Cangianti
Sandokan, Sean Mallory, Goldrake. Ogni generazione di rivoluzionari combatte con un eroe immaginario nel cuore.
Le memorie dattiloscritte del partigiano Giovanni Pepe s’intitolano I tigrotti di Bandiera Rossa. I resistenti eretici romani s’ispiravano alla furia del personaggio salgariano. Gli imperialisti britannici avevano sterminato la famiglia di Sandokan così come i nazifascisti avevano massacrato per anni il proletariato europeo scatenando il flagello della guerra. La scimitarra del pirata nelle mani dei partigiani diventava un mitra.
I rivoluzionari degli anni settanta nei cortei serravano i cordoni e intonavano la colonna sonora di Giù la testa, il capolavoro spaghetti-western di Sergio Leone in cui il peone Juan Miranda e l’irlandese Sean Mallory attraversano le vicende della rivoluzione messicana. Negli anni settanta il sogno di un mondo migliore fu represso con stragi, torture e incarcerazioni di massa, fino al grande reset postfordista.
Le sorelle e i fratelli minori di quella generazione erano appena adolescenti negli anni ottanta: davanti alle scuole, in un clima di crescente indifferenza, distribuivano volantini contro i missili a Comiso, la dittatura in Cile e la riforma regressiva della scuola secondaria. Sapevano che prima di loro era accaduto qualcosa di affascinante e terribile cui non avevano potuto partecipare.
Avremmo dato non so cosa per poter esser lì e ci maceravamo nella rabbia al pensiero che mentre si occupano le fabbriche, le università e le scuole, mentre ci si accalcava nelle assemblee e non si conosceva la solitudine, noi non avevamo ancora raggiunto il metro e mezzo d’altezza. Le nostre voci erano squittii e non avremmo avuto la forza di impugnare i pesanti megafoni del tempo. Eravamo solo bambini nel 1978, stavamo davanti al televisore, vedevamo Goldrake. Ci immedesimavamo nel suo pilota, Actarus: i veghiani avevano distrutto il suo pianeta, sterminato i suoi cari. Qualcosa di simile stava accadendo anche a noi: quanti nostri fratelli maggiori cadevano vittime dell’eroina? Quanti annichiliti dalla militarizzazione del conflitto sociale, dal riflusso, dal tradimento? In qualche modo anche il nostro pianeta era andato distrutto. E Actarus combatteva con il suo robot i mostri che avevano perpetrato questo crimine.
Goldrake U, il reboot in onda su Rai 2 lo scorso gennaio, ha scatenato sui social una guerra proustiana di madeleine. A cinquant’anni dalla serie originale, le immagini di guerra sono più cupe, la ferita dell’eroe più profonda, il robot più inquietante e misterioso. La trama allude a un inconscio collettivo numinoso che scorre sotto le vicende storiche e personali.
L’immaginario non è una mera sovrastruttura, ma innerva i modi di produzione. La sua potenza creativa è al tempo stesso strumento di dominio e grimaldello di liberazione. Mi spiego così quei cortei studenteschi che gridavano: «Contro il sindacato concertante, doppio maglio perforante». Era 1992, i confederali avevano siglato un accordo trilaterale che prevedeva l’abolizione della scala mobile e nel paese si sviluppò un vasto movimento di contestazione operaia.
Provo a immaginare una metaforica «ora x» in cui ci libereremo dei mostri che deturpano la natura delle nostre valli; che ci obbligano a fuggire dalle nostre terre devastate dalle guerre e dal riscaldamento climatico; che ci torturano nei lager libici, ci fanno affogare in mare, ci rubano la vita e la dignità. Ci provo, e ancora una volta vedo Goldrake. È molto più torvo di quello della nostra infanzia e in effetti assomiglia a quello del recente reboot. È indecifrabile, molto diverso da una semplice macchina, ha colori più cupi, freme di una energia a lungo repressa, ma continua a urlare il nome delle sue armi: disintegratori paralleli, tuono spaziale, raggio antigravità. Lo vedo incassare colpi, subire ferite mortali, resistere oltre l’impossibile, fino al catartico grido finale: «Alabarda spaziale!». Cioè rivoluzione.