di Luca Baiada
Anno 1926. Ci sono già le «leggi fascistissime», la dittatura è salda. Il 31 ottobre, per strada a Bologna, si attenta alla vita di Mussolini, con una pistola. Anteo Zamboni è catturato, i fascisti lo linciano immediatamente. A fermare Zamboni, dopo lo sparo, è un ufficiale di cavalleria; il suo nome di battesimo parla di nazionalismo e monarchia: si chiama Carlo Alberto Pasolini. È sposato, ha un figlio di quattro anni e uno di un anno. Anteo Zamboni, invece, è un quindicenne. Questo ragazzino paga il suo amore per la libertà, e forse l’esser stato coinvolto in qualcosa di più grande di lui.
Il secondogenito di Carlo Alberto l’ufficiale, Guido, con l’occupazione dell’Italia nel 1943, già a settembre cercherà di rubare armi ai tedeschi; entrerà nella Resistenza, diventerà comunista e poi azionista. Si arruolerà in una brigata Osoppo e combatterà con una tenacia sorprendente.
Febbraio 1945, ottant’anni fa. A Porzûs, in Friuli, Guido Pasolini e altri partigiani della Osoppo sono assassinati da partigiani comunisti, in una vicenda scottante. La sua morte è la più convulsa: ferito, fuggiasco, accolto e rifocillato, poi ritrovato e catturato, infine crivellato e sepolto nella tomba che è stato costretto a scavarsi.
Il primogenito di Carlo Alberto, invece, Pier Paolo, sarà arruolato ma poi riuscirà a sottrarsi alla Rsi. Restando disertore, non parteciperà alla Resistenza e si dedicherà soprattutto allo studio e alla scrittura. Nel 1945, saputo della morte del fratello, aderirà al Partito d’azione. In seguito si iscriverà al Pci, che lo allontanerà quando il suo orientamento sessuale diventerà di dominio pubblico. Continuerà a dirsi marxista e a mantenere un rapporto contraddittorio con la sinistra e con la religione.
1975, cinquant’anni fa, ma a novembre. Pier Paolo cade in una trappola: percosso, bastonato, infine sopraffatto, tramortito e schiacciato sotto la sua automobile sino a fargli scoppiare il cuore. Le letture più odiose vedranno una zuffa tra un pervertito e un prostituto, quelle più comode un incidente in una vita agitata. Le interpretazioni più avanzate riusciranno a capire qualcosa, più per metodo obliquo che per altro – il forte «io so» pasoliniano entrerà nel discorso politico e culturale. Acuto, Antonio Tabucchi, quando ricorda che quel sapere ha precedenti antichi, fra cui un frammento di Anassimandro, e nota: «Questo “sapere” di Pasolini non appartiene dunque alla logica di Wittgenstein, ma a una conoscenza congetturale e creativa»[1].
La necessità di eliminare un intellettuale in presa diretta sulla realtà, nel 1975, porterà a un delitto. Si vorrà far tacere una voce scomoda e dare un segnale al mondo della cultura, allora decisamente a sinistra. Quasi tutti ubbidiranno, e solo dopo si comincerà a cercare la verità, collegandola anche al romanzo che la vittima non ha fatto in tempo a pubblicare. L’uomo di cui Pasolini stava scrivendo in Petrolio, l’uomo che si stava impadronendo del paese, estendendosi senza alzarsi, è Eugenio Cefis, già partigiano conservatore durante la Resistenza, poi vissuto in Italia e all’estero.
Le morti dei due Pasolini sono agli estremi. Una è ai margini d’Italia, sul confine, aggrappata ai monti insieme alle malghe. L’altra è al centro di tutto, in un crocevia storico, umano, estetico, fra le pieghe disadorne di un luogo incantato: alla foce del Tevere, negli anni Settanta ridotta a confusa edilizia e polverose baracche. Quella foce è da sempre magnetica; «dove l’acqua di Tevero s’insala»: là, secondo Dante, si adunano le anime per raggiungere il Purgatorio traghettate da un angelo.
Poliedrico, il nesso tra fatti e cultura. Franco e pulito, quello di Guido, che parte per la Resistenza portando con sé un libro di Montale con una pistola dentro. In certi momenti, l’unica cosa seria da fare con un libro è ritagliarsi fra le pagine uno spazio per qualcos’altro.
Raffinato e pericoloso, quello di Pier Paolo, che dal mondo contadino e dialettale arriva al realismo narrativo e cinematografico, poi attinge a una creatività vulcanica, lisergica e materialista, denunciando la violenza consumistica, industriale, ma anche politica e stragista. Il cortocircuito pasoliniano passa attraverso lo sviluppo e l’estrattivismo, ma anche attraverso il sangue che scorre sotto il lavoro intellettuale, perché Cefis all’Eni assume il potere di Enrico Mattei, anche lui proveniente dalla Resistenza e assassinato nel 1962, e perché al film sulla morte, Il caso Mattei di Francesco Rosi, lavora per gli approfondimenti il giornalista Mauro De Mauro, ex fascista repubblichino, che durante la realizzazione cinematografica è a sua volta eliminato, nel 1970.
Si potrebbe continuare, in questo cortocircuito, perché fra le spiegazioni correnti del delitto Pasolini del 1975 – si vorrebbe farne la sola causa – c’è il furto delle pellicole di Salò, un film sul fascismo nell’Italia sotto occupazione tedesca; e la pagina storica della Rsi è una fogna di doppiogiochismi, sadismi, putredine mentale, falsa coscienza. E si potrebbe continuare ancora, perché non solo De Mauro è stato repubblichino nella Roma occupata, persino durante le Fosse Ardeatine, ma suo fratello Tullio è fra i massimi linguisti italiani. In questa storia inchiostro e sangue non vogliono né separarsi né fondersi, proseguono come correnti di fiumi, con colori diversi ma direzione comune, sino a un mare nebbioso dove navigare non è permesso; perciò è un dovere avventurarsi, in quelle acque, se si ama la libertà. Si spalanca proprio sul mare, la foce del Tevere, luogo da cui si salpa per sanare le piaghe o farne stigmate.
Solcare acque oscure serve a capire le sorgenti, perché nel fascismo, e poi nei doppiogiochismi fra il 1943 e il 1945, è l’origine di tanta parte della storia italiana. In quel magma hanno radici Cefis e Gelli, la partita futura sull’Eni e la P2, mentre Andreotti è in Vaticano e Mattei è con la Resistenza al Nord. Fili intrecciati, correnti profonde.
Poliedrico anche il rapporto fra coscienza e storia. Pasolini, in La resistenza e la sua luce, edita nel 1961, insieme alla morte di Guido scolpisce la lotta di Liberazione:
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce…
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile…
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce[2].
Sono versi che pubblica. Ma prima, a maggio 1945, già consapevole della morte di Guido, scrive per sé un testo in seconda persona rivolto al fratello:
Gloriosa morte perché voluta da te stesso, in nome di un’idea qualunque (bella, tuttavia: la libertà) e ti sei sacrificato col gratuito entusiasmo dei diciannove anni; è stata la sorte del tuo corpo entusiasta che ti ha ucciso; non potevi sopravvivere al tuo entusiasmo. […] Se io paragono la mia imprudenza nello scrivere versi di quell’età, con la tua, vedo che sono la stessa cosa[3].
Guido ha voluto morire, Pier Paolo ha la stessa imprudenza: l’emulazione è già cominciata.
Sempre in privato, in una lettera a Luciano Serra del 21 agosto 1945, Pasolini scrive che il secondogenito gli ha insegnato la strada. Così, la morte è diventata attingibile:
Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene, a cui credeva troppo. Per questo posso dirti, Luciano, ch’egli si è scelto la morte, l’ha voluta; e fin dal primo giorno della nostra schiavitù[4].
L’inconcepibile ha preso qualcosa di vicino. Per questo, forse, Guido nel 1954 diventa visibile, quando il poeta si imbatte in un raduno del Msi, a Roma, e scrive Comizio:
Per la prima volta, dall’inverno
in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,
nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere
con vera dignità, con furia indenne
d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne…
Egli chiede pietà, con quel suo modesto,
tremendo sguardo, non per il suo destino,
ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto,
il troppo puro, che deve andare a capo chino?[5].
Ora che, nel 2025, a ottant’anni dalla Liberazione, c’è «un tempo morto che torna / inaspettato, odioso», ricordiamo cosa scrive Pasolini, nella stessa poesia, a proposito della fiamma tricolore del Msi sulle loro usurpate bandiere: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[6].
Però. Mentre scrive a Serra nel 1945, Pier Paolo ha ventitré anni e Guido è morto da pochi mesi. C’è da chiedersi se molti anni dopo – è stato scritto che Pasolini, come altri poeti, ha progettato la sua fine, l’ha costruita – la ricerca instancabile della verità, la più scomoda e indicibile, sull’Italia del dopoguerra e sui compromessi del centrosinistra, sui suoi enigmi, sui tessuti di potere, sulle trame affaristiche e neofasciste, con sottili connivenze, serva a Pier Paolo per prendere lo slancio verso quella dimensione inconcepibile. C’è da chiedersi se proprio lui metta in mano agli assassini ciò che gli permette di colmare la mancata partecipazione alla Resistenza, di riscattare l’essersi appartato mentre si sparava e si moriva, di essere pari a Guido nella fine eroica. La fine accettata allora da Guido, tornato a Porzûs benché avvertito del pericolo, perché, come scrive Pasolini nel 1945:
La libertà, l’Italia
e sa Dio qual destino disperato
ti volevano,
dopo tanto vivere e patire,
in questo silenzio[7].
Per rifletterci sarebbe utile Il Vangelo secondo Gesù di Saramago, romanzo eretico, percorso dal senso di colpa del figlio di Maria e Giuseppe, scampato alla strage degli innocenti. Erode, cioè la ragion di Stato abbarbicata al potere, non fabbrica solo cadaveri, ma anche superstiti carichi di scrupoli. Saramago: «Viene da lontano e promette di non aver fine la guerra tra padri e figli, l’eredità delle colpe, il rifiuto del sangue, il sacrificio dell’innocenza»[8]. Sono ombre che i poeti afferrano al volo, come si impugnano fiori spinosi, magari per metterli sulla propria tomba.
Se è così. La morte di Pasolini, come quella del fratello, è voluta «fin dal primo giorno», perché prima di quel novembre 1975, dall’adolescenza e dalla giovinezza, contro Pier Paolo è pronta una schiavitù fatta di conformismo, di cristianesimo prostituito nelle sacrestie, di marxismo reso miope dalle burocrazie, di Costituzione prigioniera del centrismo, di modernità immersa nello sviluppismo corrotto, nel consumismo, nella devastazione del linguaggio, nella dispersione delle culture popolari, nel massacro del paesaggio e del territorio.
Comunque. Questa storia è un sunto urticante del Novecento italiano. Nel 1926 un padre rispettabile contribuisce – involontariamente, voglio pensare, ma di fatto – al linciaggio di un ragazzino. Vent’anni dopo, partigiani comunisti uccidono il suo secondogenito, inizialmente comunista e poi convinto azionista. Carlo Alberto consumerà gli anni che gli restano, lasciando una vedova e un figlio dalla sessualità difficile da accettare. Nel 1975 anche il primogenito, che è stato prima azionista e poi comunista critico, sarà ucciso, e anche stavolta non saranno i fascisti, o almeno il mandante non sarà di quelli dichiarati. Poche cose esprimono così il suicidio di una certa Italia, in un arco di tempo che comincia nel 1926 con un assassinio nella disciplinata città dei glossatori, e che nel 1975, con un assassinio nell’agglomerato abusivo di Ostia, finisce.
Accostandomi a questo mi domando perché, malgrado la vicenda possa essere sia un buon boccone per il revisionismo fascista, sia un terreno per il lavoro culturale di sinistra, entrambi si tengano alla larga da un sunto, da uno sguardo ampio. Meglio congetture sul delitto del 1975, controversie su Porzûs, rare occhiate all’attentato Zamboni, senza saldare insieme la storia. Se ci si chiede perché, già si comincia a capire.
[1] Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone, Sellerio, Palermo 1998, pp. 31-32.
[2] Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1993, tomo primo, pp. 472-473; in questa citazione e in seguito i puntini sono nell’originale.
[3] Andrea Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio, Venezia 2022, pp. 88-89.
[4] Pier Paolo Pasolini, Lettere agli amici (1941-1945). Con un’appendice di scritti giovanili, a cura di Luciano Serra, Ugo Guanda Editore, 1976, pp. 44-45.
[5] Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, pp. 30-31.
[6] Ivi, p. 27.
[7] Còrus in muart de Guido, XXV, in «Il Stroligut», agosto 1945, n. 1, pp. 3-4. Nell’originale: «La libertat, l’Italia / e qissà diu cual distin disperat / a ti volevin / dopu tant vivut e patit / ta qistu silensiu».
[8] José Saramago, Evangehlo segundo Jesus Cristo, trad. Il Vangelo secondo Gesù, Bompiani, Milano 1993, p. 58.