(Le catene dell’Umanità sono di carta protocollo)

di Francisco Soriano

Kafka sognatore ribelle[1] è un libro di Michael Löwy, scrittore ebreo di origini viennesi e studioso della cultura ebraica laica. Figlio di genitori sfuggiti al genocidio nazista, è stato professore presso le università di Tel Aviv e Manchester, oltre che direttore di ricerca all’École des Hautes Études en Sciences Sociale di Parigi. La grande idea di fondo del suo saggio consiste nell’aver individuato nel concetto di potere e autorità il filo rosso che unisce indissolubilmente quasi tutti gli scritti di Franz Kafka. Löwy ha il grande merito di non cadere mai in banali ideologismi, sottolineando invece quanto Kafka sia stato un attento antagonista di ogni forma di potere inquadrato nella sua deteriore carica coercitiva e oppressiva. Come segnalato da Elias Canetti, che a suo tempo aveva già rivelato un aspetto determinante e ineludibile nell’opera di questo insigne scrittore, «Franz Kafka è il maggior esperto del potere»[2].

Giorgio Fontana nella sua introduzione al volume di Löwy ci avverte di quanto sia necessario sfuggire a una quantità di preconcetti quando si leggono le opere di Kafka: fra di essi, in particolare, «l’idea che si possa estrarre dai suoi romanzi e racconti un messaggio di ordine religioso, morale o politico»[3]. Dunque la questione più interessante, da un certo punto di vista, è la sottile ricerca di Franz Kafka sul tema del potere, dell’autorità e della sua endemica (e talvolta insensata) violenza. Löwy ci avverte nell’introduzione al saggio che è «arrivato il momento di osservare la sua opera con uno sguardo diverso» e, finalmente, segnalare la sua «affascinante forza ribelle»[4]. L’autore viennese cita come suo predecessore, nel farlo, Walter Benjamin, che nel suo celebre saggio su Kafka avvertiva infatti i lettori che «all’interno dei suoi scritti si deve avanzare a tastoni, con prudenza, con circospezione, con diffidenza»[5]. Lo stesso autore segnalava che ci sono due modi per fraintendere Kafka e incorrere facilmente nell’errore: l’approccio psicoanalitico e quello teologico. La dimensione che più ossessionava Kafka era, infatti, quella letteraria, ed era «la sua risposta a un mondo decaduto»[6].

Löwy si occupa molto più dei suoi predecessori dell’aspetto socio-politico dei testi di Kafka: dall’insofferenza contro il padre alla religione della libertà tratta dai testi di ispirazione ebraico-eterodossa, fino alla protesta «libertaria» contro il potere e le strutture della burocrazia che lo inficiano e lo rendono soffocante in qualsivoglia sistema politico. Per Löwy, Kafka è, in questa ottica, soprattutto uno scrittore antiautoritario. Sempre nella prefazione di Giovanni Fontana viene esplicitato chiaramente quanto il regime punitivo rappresentato da Kafka nei suoi scritti appaia spietato e arbitrario. La violenza che si determina spesso non ci consente di verificare i veri motivi che giustificano l’intolleranza verso ogni forma di antagonismo e insofferenza, inoltre la manifestazione del potere avviene in modalità labirintiche nonostante venga apparentemente espletato in norme giuridiche «scritte». Fontana non solo si occupa delle «profondità» della scrittura kafkiana, ma è stato anche un attento esegeta dell’opera del grande scrittore persiano Sàdeq Hedàyat, non a caso ricordato con l’appellativo del «Kafka d’Oriente». Lo scrittore persiano viene citato nel testo e ricordato per aver definito in modo originale l’immagine e il ruolo della legge: «La legge è come un gatto in agguato, a caccia delle vite che passano inosservate, e all’improvviso attacca, e non si capiscono mai le sue mosse»[7]. Va sottolineato che un altro dei falsi preconcetti della critica è stato sempre quello di ricercare nella biografia di Kafka una coincidenza stretta fra opera e vita: in generale un’opera d’arte rimane una entità complessa e indipendente. Lo stesso Löwy, con prudenza, evidenzia le documentate simpatie per il socialismo libertario di Kafka, che tuttavia «nel suo caso si declinò in termini essenzialmente emotivi ed etici: un orientamento più che una posizione politica ben definita»[8]. Non a caso uno dei punti focali dell’opera di Kafka è stabilire una volta per tutte l’idea che la letteratura non viene ridotta meccanicamente a ideologia e che, invece, l’afflato per la libertà e la giustizia sociale trovano uno spazio anche e soprattutto nella stessa opera letteraria. Si può pertanto cogliere in Kafka la sua natura sovversiva e libertaria solo se alla base vi è una seria esegesi dei suoi testi. Ancora una citazione di Benjamin, da un articolo sul Surrealismo del 1929, ci fa meglio comprendere l’importanza dell’opera di Kafka letta in chiave antiautoritaria: «Dai tempi di Bakunin, l’Europa manca di un’idea radicale di libertà. I surrealisti ce l’hanno»[9].

È possibile parlare di un Kafka «politico»? Sia per la complessità epistemologica dei suoi testi, sia perché lo scrittore fu sempre distante da partiti o gruppi politici ben definiti, sia per la non documentata partecipazione a elezioni e per la mancanza di dichiarazioni ufficiali nei confronti di determinate opzioni ideologiche, sarebbe riduttivo crederlo. Löwy ben individua l’area entro cui muoversi, quella della critica, citando proprio una delle metafore più eloquenti dello scrittore per esprimere la sua idea di potere: «Le catene dell’umanità torturata sono di carta protocollo»[10]. Nello stesso tempo non sorprenderà l’accusa mossa nei confronti di Kafka da quanti, come Gyorgy Lukacs, Gunter Anders e tutti coloro i quali pensavano a una «letteratura militante», vedevano in lui un pessimista talmente radicale da infondere rassegnazione e una certa idea di fatalismo. Nulla di più errato, anche in questo caso, se si legge una lettera diretta all’amico Oscar Pollak del 27 gennaio 1904, dove Kafka segnala a chiare lettere la sua idea di letteratura: «un libro non presenta alcun interesse, – scriveva, – se non è un pugno in faccia che ci risveglia […], una scure che spezza il mare di ghiaccio dentro di noi»[11].

Che Kafka non abbia sviluppato un’impalcatura ideologica o politica è cosa ben chiara: infatti, come afferma lucidamente Löwy in riferimento a questa ipotesi, «il mondo simbolico della letteratura non è riducibile a quello discorsivo delle ideologie»[12]. Inoltre l’opera letteraria non è un sistema concettuale astratto, ma creazione di un «universo immaginario concreto», fatto di personaggi e di cose[13]. Esistono testimonianze come quella di Hugo Bergman, amico d’infanzia di Kafka, il quale racconta che l’amico scrittore portava un nastrino rosso all’occhiello della giacca. Per Bergman, addirittura, il socialismo di Franz era troppo spinto per il suo altrettanto estremo sionismo. Neanche con il partito comunista Kafka ebbe però rapporti diretti, anche se è documentato che nel 1920 su una rivista letteraria ceca di estrazione comunista fu pubblicato per mano del fondatore di quel partito, Stanislav K. Neumann, il racconto Il Fuochista[14]. In una lettera a Milena, lo scrittore praghese aveva manifestato interesse per la rivoluzione russa, che aveva prodotto una forte «impressione» nel suo corpo, nei suoi nervi, nel suo sangue. Ma questi riferimenti testuali non possono assolutamente ricondurre a un’idea di Kafka attivamente politico in una qualsivoglia formazione partitica comunista o libertaria. Tuttavia la sua visione ideologica e politica non può essere derubricata a dettaglio della sua opera letteraria e, al contrario, più di quanto sostiene lo stesso Löwy, ha determinato dalle fondamenta contenuti ed elementi ideologici interessanti per gli esegeti di oggi. In altre missive rivolte a Milena sull’argomento in merito a un testo di Bertrand Russell sul bolscevismo, Kafka intravedeva lucidamente nel comunismo una sorta di «religione». La rivoluzione aveva infatti un suo carattere internazionalista che avrebbe suscitato all’esterno un pericolo per molti: Kafka profetizzava una reazione che avrebbe provocato un blocco economico contro la Russia, determinando inevitabilmente grandi e terribili guerre di religione che avrebbero flagellato il mondo. Testimonianze di contemporanei dello scrittore parlano delle sue simpatie per i socialisti libertari cechi e anche di sue partecipazioni alle loro iniziative politiche: tra questi Michael Kácha, uno dei fondatori del movimento anarchico ceco, sostiene la presenza di Kafka ai suoi eventi e alle riunioni presso il Klub Mladych, una organizzazione antimilitarista, anticlericale e libertaria[15]. Lo stesso leader degli anarchici cechi lo trovava simpatico pur definendolo «klidas», cioè «taciturno». Un’altra testimonianza appartiene allo scrittore anarchico Michael Mareš, che segnala la partecipazione di Kafka a diverse manifestazioni fra cui quella contro l’esecuzione dell’anarchico spagnolo Francisco Ferrer avvenuta nell’ottobre del 1909, a certe conferenze sull’amore libero, sulla Comune di Parigi, a favore della pace e contro l’esecuzione del militante parigino Liabeuf. Anche Mareš sottolinea il caratteristico silenzio dietro cui si trincerava Kafka e aggiunge nella sua testimonianza che quest’ultimo pur non facendo parte di alcuna formazione anarchica non nascondeva le sue simpatie per il movimento[16]. Secondo Mareš, Kafka avrebbe prediletto tra le sue letture Parole di un ribelle di Kropotkin, nonché i testi del geografo francese Reclus, di Bakunin e Jean Grave[17]. Lo scrittore praghese avrebbe inoltre espresso collera contro i giovani americani per alcune manifestazioni contro l’anarchica Emma Goldman: ciò documenta anche l’attenzione di Kafka per quanto accadeva negli States proprio quando si accingeva a scrivere il suo primo romanzo, America. In un altro documento che riguarda il carteggio fra lo scrittore e Gustav Janouch, pubblicato in una prima edizione nel 1905, si riferisce di uno scambio, avvenuto nel corso degli ultimi anni di vita dello scrittore (dall’inizio del 1920), dove Kafka definisce gli anarchici cechi «persone molto gentili e molto divertenti […] così gentili e amabili che non si può non credere a tutto quello che dicono»[18].

Franz Kafka, opera di Emiliano Alonso

Franz Kafka aveva una visione chiara del capitalismo, una creatura con mille tentacoli e storture: un sistema fortemente gerarchizzato con un solo fine, il dominio, così lontano dalla fede anarchica che combatte da sempre lo spirito autoritario e il verticismo. Löwy cita ancora Janouch nel ricordo di una discussione di quest’ultimo con Kafka su una caricatura di George Groz, quella di uomo grasso seduto su un cumulo di soldi. Per Kafka quella immagine «è insieme sbagliata e giusta. Giusta solo in un senso […]. Il grassone con il cappello a cilindro vive sulle spalle dei poveri che opprime, è giusto. Ma è completamente sbagliato che quel ciccione sia il capitalismo. Egli domina i poveri nel contesto di un dato sistema, ma non è lui il sistema. […] Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell’anima»[19]. Sempre Janouch afferma che, in una conversazione, Kafka avrebbe manifestato le sue perplessità anche nei confronti dei partiti politici e delle istituzioni di tutela degli operai e degli oppressi che si vedono sfilare in manifestazioni di piazza: «ci sono già i segretari, i burocrati, i politici di professione, tutti i sultani moderni ai quali essi stanno preparando la strada… La rivoluzione evapora e resta soltanto il vaso di una nuova burocrazia. Le catene dell’umanità torturata sono di carta di ufficio»[20]. In una seconda versione delle Conversazioni, Janouch cita uno scambio di battute con Kafka, asserendo che lo scrittore praghese avrebbe affermato di aver studiato la vita di Ravachol e di aver approfondito la lettura delle idee dei vari Godwin, Proudhon, Stirner, Bakunin, Kropotkin, Tucker e Tolstoj. Aggiunge poi che egli, oltre ad aver frequentato diversi circoli e raduni, nel 1910 avrebbe partecipato alle sedute degli anarchici cechi a Karolinental, nella trattoria Ai due cannoni, dove appunto si riuniva il già citato gruppo anarchico Club dei Giovani[21]. Tutte le testimonianze, avverte Löwy, è possibile che abbiano subito sovrapposizioni o addirittura siano state oggetto di opinioni personali, ma è necessario ammettere che in definitiva un quadro abbastanza coerente sulla «visione politica» di Kafka risulti ben delineato.

Nonostante la critica di Kafka ai sistemi appaia senza un fine ultimo e definitivo, essa porta nei suoi scritti una rivolta apparentemente semplice ma profondissima e complessa, tanto da suggerire ancor oggi mille rivoli di interpretazione. L’attesa è solo apparente, e nei Diari infatti afferma: «Se sono condannato, sono non solo condannato a morire ma anche condannato a difendermi fino alla morte». Sempre Benjamin aveva capito il perché lo scrittore fosse così popolare: «Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse»[22]. Quella dello scrittore praghese è una scrittura definita della «frantumazione», che tende ad analizzare la tragedia che ci colpisce inesorabilmente e dalla quale dobbiamo difenderci con una «sottilissima architettura della diserzione». La scrittura è totalmente attiva e diviene non solo strumento di ricerca ma contenuto e diaspora dello stesso; è una miriade di atti che non fa altro che logorare l’idea e la fonte delle autorità che costellano la vita degli uomini: quella del padre, dei giudici, dei governanti, dei potenti in generale, assetati di dominio sul prossimo. Nel 1934 è ancora Benjamin a chiarire questa opera di demolizione kafkiana: «Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove»[23]. La verità non esiste: questa amara constatazione apre tuttavia la ricerca dell’indecifrabile, è la consacrazione della scrittura a elemento umano del quale non possiamo fare a meno. Benjamin ben fa capire la ragione dei gesti, degli intrighi, delle connessioni, delle tragedie, dei sussulti, degli accadimenti imponderabili e impossibili da interpretare nella loro pienezza. La scrittura di Kafka ci conduce al pensiero, al ragionamento, al vortice eludendo i canoni consolidati: «Kafka è sempre così: egli toglie al gesto dell’uomo i sostegni tradizionali e ha così in esso un oggetto a riflessioni senza fine»[24].

Secondo l’amico di sempre, Max Brod, Kafka amava il libro Passato e presente di Aleksander Herzen, citato spesso anche nei suoi Diari, nel quale l’autore si chiedeva infatti se «la coscienza razionale e l’indipendenza morale sono compatibili con la vita di uno Stato»[25]. Una domanda chiara in virtù della sfiducia verso il potere che Kafka incarna con tutte le sue risorse di scrittore, seppure dal 1913 il suo interesse sarà rivolto sempre più verso l’ebraismo e, di conseguenza, verso il sionismo. Non abbandonando le sue idee politiche, Kafka si concentrerà sulle esperienze sociali delle collettività rurali fondate in Palestina da pochi pionieri ebrei, i kibbutzim. Janouch afferma a proposito che Kafka avrebbe detto di sognare «di partire per la Palestina come bracciante agricolo o come artigiano»[26]. Affermazione quest’ultima non priva di fondamento, considerando che dall’inizio del Novecento idee umaniste e anarco-comuniste, soprattutto diffuse dalle opere di Kropotkin, affascinavano non poco schiere di giovani, ispirando i pionieri ebrei che addirittura le misero in pratica: fu il sistema dell’autogestione a provarlo e il modello delle comuni ebraiche sorse pian piano in Palestina. Queste ultime furono tipiche per il loro assoluto collettivismo, concretatosi in un ascetico concetto fra i giovani dei kibbutz: «pane, acqua, datteri». Inoltre tanto lavoro sotto il sole cocente fra le sabbie salate di quei luoghi determinò la forza etica delle prime comunità ebraiche. Sorse così la gestione dei kibbutz con lo strumento del «consiglio dei lavoratori» e, soprattutto, con l’assenza totale di qualsiasi proprietà privata. Kafka ammirava i kibbutzim, che si ispiravano anche alle idee di Gustav Landauer e del grande filosofo Martin Buber. Alcune testimonianze riportano l’incontro di Kafka con A.D. Gordon, il dirigente sionista propugnatore della redenzione degli ebrei attraverso il lavoro manuale, nel Congresso del movimento sionista socialista Hapoel Hatzair, a Praga, nel 1920, dove fra i partecipanti figurava proprio Martin Buber. Anche André Breton fu affascinato dal concetto di «comunità operaia non possidente». Prova di questa attenzione risultò nel discorso tenuto nel 1948 al Rassemblement démocratique révolutionnaire, quando Kafka affermò che il progetto era «un esempio da seguire nel campo delle attività intellettuali»[27]. Dunque sono tantissimi i riferimenti che fanno di questo immenso scrittore un antiautoritario per eccellenza, perché il suo ethos libertario si definisce con chiarezza nella radicale critica al volto della non-libertà. La libertà alla quale aspira Kafka è assoluta, estrema, umana, ma esiste nelle sue opere soltanto in negativo, come critica di un mondo che ne è privo. La libertà, scrive Löwy, non è mai in Kafka una dottrina politica, quanto uno stato d’animo, «una sensibilità critica, le cui armi principali sono l’ironia, lo humour, quello humour nero che secondo André Breton è “una rivolta superiore dello spirito”»[28]. Che le interpretazioni metafisiche dei romanzi di Kafka stridono con la realtà, d’altronde, lo aveva sostenuto tra gli altri Theodor Adorno, dicendo polemicamente che «il tono della sua opera è quello dell’estrema sinistra», e che «riducendolo all’eterno umano lo si tradisce subito nel modo più conformista»[29]. Come afferma Löwy, sottolineando che Adorno non parla qui di un messaggio o di una dottrina o di una tesi, ma invece di un «tono», questa dichiarazione ha varie implicazioni: «In primo luogo, ciò significa che la problematica dell’opera [di Kafka] non è metafisica, ma storica: la società (borghese) moderna; poi, che questa società […] è presentata da Kafka in modo radicalmente critico, come “infernale”; infine, che tale critica radicale si colloca nella prospettiva dell’abolizione dell’ordine sociale esistente e della sua sostituzione con un’umanità libera (“redenzione”)»[30].

In definitiva l’opera di Franza Kafka è fortemente intrisa di antagonismo, addirittura di sovversivismo, laddove si percepisce una risposta radicale alla deriva umana e sociale provocata dal potere. Lo scrittore è stato infatti un profondo conoscitore delle logiche e delle trame di questo fantasma, che concretizza la sua perversa natura in dinamiche talvolta incomprensibili, assurde, inconciliabili con la natura dell’uomo. Dall’autorità paterna a quella individuale e sociale, egli ha attraversato i meandri di una logica aberrante e violenta che ha dominato gli uomini portandoli fino alla devastazione delle guerre e dei genocidi di massa. Come sosteneva Gesualdo Bufalino, non è necessario individuare nei testi poetici e narrativi un’esplicita lotta degli uomini al potere perché li si possa definire «civili», non è solo la letteratura che si dice «impegnata» o «militante» a esserlo davvero. La scrittura letteraria ha in seno una forza deflagrante: è già di per sé, per la sua stessa natura, asimmetria alle logiche malsane dell’autorità e quindi, forse, rimedio alla forza autodistruttiva del potere. Nell’antimilitarismo di Kafka, conseguente alla logica più bieca del potere, lo si vede apparire quindi in tutta la sua disumanità: l’inestricabile, l’inspiegabile, il brutale senso pseudo-religioso, l’arcaico istinto di morte e la negazione dell’altro e del suo volto, la disumanizzazione, la tecnologia più moderna e sofisticata di morte. È questa la sua intuizione, la sua profezia, la sua inquietante previsione di uno sviluppo delle strategie di morte connotanti il nostro attuale, assurdo secolo di guerra e distruzione.

 

Note:

[1] Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle, Elèuthera, Milano 2022.

[2] Elias Canetti, Processi. Su Franz Kafka, Adelphi, Milano 2024, p. 265.

[3] M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 7.

[4] Id., Introduzione, ivi, p. 19.

[5] Walter Benjamin, Franz Kafka, in Poésie et Révolution, Denoël-Maurice, Paris 1971, citato ibid.

[6] Ivi, p. 21.

[7] Sàdeq Hedàyat, Il messaggio di Kafka, a cura di F. Favelli e M. Pistoso, Hestia, Milano 2001, citato da G. Fontana, Prefazione cit., p. 8.

[8] Ivi, p. 10

[9] Citato in M. Löwy, Introduzione cit., p. 22.

[10] Ivi, p. 24.

[11] Ivi, p. 25.

[12] Ivi, p. 31.

[13] Lucien Goldmann, Matérialisme dialectique et histoire de la littérature, in Recherches dialectiques, Gallimard, Paris 1959, citata ibid.

[14] Ivi, p. 32.

[15] Ivi, p. 35.

[16] Ivi, p. 36.

[17] Ibid.

[18] Ivi, p. 38.

[19] Ibid.

[20] Gustav Janouch, Kafka m’a dit, Calmann-Lévy, Paris 1952, citato ivi, pp. 38-39.

[21] Ibid.

[22] Citazione di Walter Benjamin tratta da Kafka, la scrittura della destituzione?, in «K. Revue trans-européenne de philosophie et arts», I (2018), n. 1, p. 8

[23] Walter Benjamin, Franz Kafka. Nel decennale della morte, in Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004, p. 136.

[24] Ivi, p. 137.

[25] Aleksandr Herzen, My Past and Thoughts. The Memoirs of Alexander Herzen, A. Knopf, New York 1973, citato in M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 51.

[26] Cfr. Felix Weltsch, The Rise and Fall of the Jewish-German Symbiosis: The case of Franz Kafka, in «Leo Baeck Institute Yearbook», I (gennaio 1956), n. 1, p. 275, e Gustav Janouch, Conversations avec Kafka, Maurice Nadeau, Paris 1978, citato ivi, p. 53.

[27] Franz Kafka, Préparatifs de noce à la campagne, Gallimard, Paris 1957, citato in M. Löwy, Kafka sognatore ribelle cit., p. 55.

[28] Ivi, p. 56.

[29] Theodor W. Adorno, Prismes, Payout, Paris 1975, citato ivi, p. 57.

[30] Ibid.