di Gioacchino Toni
Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 18,00
Se Bruce Schneier (La mente dell’hacker, 2024) invita a guardare all’hacker come, nella maggioranza dei casi, ad un operatore al servizio dei potenti, Davide Fant e Carlo Milani ne prospettano una tipologia votata piuttosto a sottrarsi al potere, legata non tanto agli smanettoni in solitaria, quanto, piuttosto agli «hacklab, comunità di pratiche, laboratori in cui ci si ritrova a smanettare, a smontare e rimontare computer, schede elettroniche, macchine per videogiochi da bar (gli arcade), quasi sempre ospitati in spazi occupati, con un forte approccio comunitario ed emancipante nei confronti della tecnologia».
È a partire dalla sperimentazione e condivisione mutualistica di competenze e attitudini maturate in tali ambienti che Fant e Milani, e con loro il Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (CIRCE), hanno iniziato a discutere di “pedagogia hacker”.
L’illusione con cui in tanti avevano accolto gli strumenti digitali come liberatori dell’umanità (categoria assai vasta) senza dirsi esplicitamente da quali vincoli (da chi/cosa) ha in molti lasciato il posto al disincanto: «la solitudine dilaga, ci si sente in continua competizione, impotenti, agiti» tanto sul lavoro quanto nei contesti che si vorrebbero extra-lavorativi (distinzione che è sempre più difficile fare nell’epoca del capitalismo digitale che ha saputo estendere a dismisura la produttività quotidiana pagandone una minima parte), mentre nel frattempo si muovono rimproveri trasudanti ipocrisia nei confronti dei più giovani, incapaci di staccarsi dall’universo digitale dello smartphone.
Davide Fant e Carlo Milani, come raccontano in Pedagogia hacker (elèuthera, 2024), a partire dalle esperienze laboratoriali attivate negli ultimi anni, hanno inteso «rispondere all’urgenza di un’educazione sui temi del digitale che ponga al centro le relazioni fra persone e tecnologie» al fine di «sviluppare un metodo che produca spazi liberati, dalla produttività forzata, dall’efficienza necessaria, in cui si incontrano la tecnologia e l’organico, i corpi umani e gli apparecchi elettronici, la politica e il codice sorgente, la poesia e la fantascienza speculativa; in cui si possano assumere le nostre vulnerabilità e alimentare la capacità di immaginare». Si tratta pertanto di una pedagogia volta a individuare e proporre «tecnologie appropriate non solo perché adeguate, ma perché proprie, riappropriate da noi».
L’attitudine hacker – rivolta, oltre ai computer, a «qualsiasi sistema tecnico di interazione, a qualunque apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altro modo» – viene riassunta dagli autori come: approccio curioso e problematizzante rispetto al mondo e nello specifico alla tecnologia; desacralizzazione della tecnica; apprendimento come piacere; apprendimento come frutto della ricerca e della esperienza personale, non inquadrabile in percorsi di studio ufficiali; dimensione sociale del sapere e conoscenza come bene collettivo.
Se, come mostrano le esperienze laboratoriali, per i bambini è più immediato attivare e costruire attitudine hacker, per gli adulti si tratta di riattivare l’arte del fai da te, dell’arrangiarsi, del riciclare e re-inventare attività comuni soffocate dai meccanismi abitudinari dettati dal consumismo e dal produttivismo economico. Si tratta di riscoprire il lato puramente ludico del rapporto con le tecnologie sfuggendo alla sua “messa a profitto” (gamificazione): «ci si fa hacker e si gioca per liberare il gioco, per recuperarne la dimensione visionaria e rivoluzionaria, per riscoprire la sua caratteristica imprescindibile di atto libero, aperto, creatore, caratteristica propria dell’umano come lo definiva già lo storico e filosofo Johan Huizinga alla fine degli anni Trenta».
Gli autori si dicono convinti della possibilità di costruire, insieme, «macchine conviviali, create per alleviare le fatiche e per il piacere di vivere bene insieme, nella meraviglia della continua scoperta del poter fare tecnico; macchine molto diverse dalle macchine industriali, create per l’estensione del dominio, per lo sfruttamento del mondo tramite il dominio sulla materia».
Scrivono Fant e Milani che, alla base di ogni pedagogia emancipante, «sta il porsi domande, chiedersi: Perché? Come funziona? Deve essere per forza così? Un atteggiamento tipico dei bambini (e dei visionari)», oltre che degli hacker.
La ricerca di uno spazio alternativo per le tecnologie, sostengono gli autori, deve ripartire dal corpo. È necessario «arginare la spinta delle troppe macchine al servizio dell’ansia di dominio, impazienti di renderci automi automatizzati e prevedibili». Facendo riferimento anche, ma non solo, all’intelligenza artificiale, se ci si preoccupa del fatto che le macchine si stanno facendo “troppo umane”, non di meno occorrerebbe guardarsi anche dal fatto che queste contribuiscono a diffondere modelli di interazione e comportamento che appiattiscono gli esseri umani.
Da tutto ciò deriva la necessità di sviluppare un’attitudine hacker capace di spingere «ad assumere una posizione attiva per inventare qualcosa di nuovo fuori dagli schemi, a sperimentare, a rischiare la carta della creatività personale e collettiva». Tutto ciò, sottolineano Fant e Milani, occorre sperimentarlo collettivamente impegnandosi a costruire nuovi ambienti relazionali. Il volume racconta come e cosa è stato sperimentato in questi anni nei laboratori del gruppo CIRCE senza ambire a farsi modello da replicare, nella piena consapevolezza che si possono sperimentare altre modalità anch’esse mosse dalle medesime finalità di liberazione individuale/collettiva.
We are not robots – serie completa