di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Dov’è Eva? (1916)
Il cap. VII del Volto verde (che merita sgranare con una certa puntualità per decostruire i soliti giudizi grossi e strumentali sull’autore) vede Hauberrisser raggiungere l’amico barone che si stupisce del suo viso assorto. Apprende però che è arrivato – presentandosi come mandato da lui – anche l’imbroglione sedicente conte polacco Ciechonski, risultato molto simpatico a Pfeill. Lo trovano intento a corteggiare una vecchia dama, e il barone conduce Hauberrisser in una camera dedicata al relax e rivestita di sughero. La difficoltà principale nel riassumere questa storia sta nella quantità di densi dialoghi sui temi alla base del romanzo.
Così, dopo un po’ di scherzi lievi, Pfeill chiede all’amico se non senta
che c’è qualcosa nell’aria, qualcosa che forse non è mai stato così forte da quando la terra esiste […] è un compito ingrato profetizzare una fine del mondo, è stata annunciata troppo spesso nel corso dei secoli perché la cosa possa avere ancora una qualche credibilità.
Eppure penso che questa volta la ragione stia dalla parte di chi crede di percepire l’imminenza di un simile evento. Non deve essere necessariamente la distruzione della terra: anche il declino di una vecchia visione del mondo è una fine del mondo.
Che si tratti di catastrofi naturali, di epidemie spirituali o d’altro, il quadro sembra questo.
Finora gli uomini si sono scannati in nome di certi sospetti esseri invisibili che per precauzione non si chiamano spiriti, bensì “ideali”. Credo che a questo punto sia giunta finalmente l’ora della guerra contro questi esseri invisibili – e non vorrei mancare. Da anni vengo addestrato a essere un combattente in senso spirituale, lo so bene, ma non mi è mai stato chiaro come ora il fatto che si prepara una grande battaglia contro questi spettri maledetti. […] Il contrario di quel che fa la grande massa è già di per sé la cosa giusta.
Teorizza perciò uno Stato ideale senza necessità di organizzazioni e di doverlo imporre ad altri. D’altra parte, i “pensieri si propagano anche se non li si esprime. Forse soprattutto se non li si esprime”, dunque è certo che il suo Stato conquisterà il mondo. Anche perché al contrario “certe parole d’ordine […] trasmettono malattie ben più gravi [di virus e batteri], per esempio: odio razziale e odio di classe”, e dunque richiederebbero una sterilizzazione. Ovviamente qui a parlare è un personaggio, non l’autore in quanto tale, però il contesto del romanzo e il suo modo di narrare sembrano richiamare posizioni di Meyrink. Contraddizioni comprese, perché i suoi accesi racconti contro le gerarchie militari, i suoi attacchi alla borghesia e a fasce sociali più alte e moralmente decadute o contro certo populismo, l’intransigenza critica delle sue riflessioni non vanno troppo lontani dall’odio di classe. Se sull’odio razziale non sussistono dubbi interpretativi (con buona pace dei tentativi dei razzisti evoliani di annettersi Meyrink), è probabile che odio di classe qui vada inteso semplicemente come un rifiuto del marxismo: a dispetto delle sue bordate e, come si è detto, con qualche contraddizione nel rapporto con la borghesia, Meyrink resta politicamente un moderato. Quanto al nazionalismo,
sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma è giunta l’ora che si formi finalmente uno “Stato” in cui i cittadini non siano tenuti insieme dai confini e da una lingua comune, bensì dal modo di pensare, e dove possano vivere come vogliano.
Badiamo che simili affermazioni nel contesto della Prima guerra mondiale, sotto il fuoco di attacchi a Meyrink da parte dell’ultradestra nazionalista, sono molto più forti di quanto sembri a noi: in passato e in altri contesti ha potuto essere più tranchant, ma qui rischia l’incriminazione per scarso patriottismo e dunque usa una formula più “morbida” (“sembra essere una necessità per la maggior parte delle persone, lo riconosco, ma”…).
Il cambiamento radicale anche di una persona sola, argomenta il barone, basterebbe: “la sua opera non può morire – che il mondo ne venga a conoscenza o meno. Costui apre nella realtà una breccia destinata a non richiudersi mai più, non importa se gli altri se ne accorgono subito o dopo un milione di anni”. E l’opposizione del singolo Meyrink al nazionalismo prenazista acquista dunque un valore concreto.
Le grandi catastrofi non sono tanto la causa dei mutamenti di pensiero, quanto un presagio, “il mondo in cui viviamo è un mondo di effetti. Il regno delle vere cause è occulto; se riusciremo a spingerci fin là, potremo fare miracoli”. Tra questo sarebbe eminente il saper diventare realmente padroni dei propri pensieri: e a quel punto l’ingegnere riesce a buttargli lì la domanda se abbia qualche “segnale per affermare che siamo di fronte a una… chiamiamola svolta”. Il barone ammette che sì, ma “(p)iù che altro è una sensazione”. C’entra l’incontro casuale con una certa signorina van Druysen, che gli presenterà tra poco, e il racconto da lei offerto: una “pietra miliare” dello sviluppo interiore si rivela “nella coscienza di tutti coloro che sono maturi per viverla con una uguale esperienza interiore […], la visione di un volto verde”. Che, come detto, questo romanzo flirti con l’esoterismo (e ben più che Il golem), non toglie che occorra riflettere su quale sia l’esoterismo in questione. A partire dall’ottica visionaria, mitica e onirica con cui è giocato il motivo del Volto verde: e il prosieguo della storia permetterà di uscire dal generico.
A quel punto l’ingegnere, stravolto dalla sorpresa, afferra il braccio dell’amico e racconta eccitato cos’abbia vissuto. Molto colpiti, iniziano a parlare fitto e non si accorgono dell’arrivo degli ospiti – in particolare Eva van Druysen e il dottor Sephardi, presto coinvolti nel racconto. Sulla propria esperienza alla “Bottega delle Meraviglie”, Hauberrisser lascia al barone il compito di sintetizzare ed Eva aggiunge solo qualcosa sulla visita a Swammerdam: nessuno dei due è in imbarazzo, ma entrambi faticano a parlare. Il fatto è che c’è stato un inatteso colpo di fulmine: di Hauberrisser che pure di donne ne ha amate tante, e ora travolto da “un sentimento di comunione così sincero e intimo da far impallidire quanto fino ad allora aveva chiamato passione”. Ma anche della giovane, e la reciprocità non sfugge all’occhio acuto di Pfeill. Che coglie anche una sofferenza negli occhi di Sephardi (scopriremo solo più avanti che si era innamorato di Eva, ma già ora possiamo sospettarlo). Quando però paragona la piccola comunità di mistici del calzolaio veggente a un gruppo di sventurati pellegrini ingannati da un miraggio e condotti a morire di sete nel deserto, Eva ribatte che ciò non vale per Swammerdam, “destinato a trovare anche le cose più elevate che sta cercando”. L’ebreo ortodosso Sephardi resta scettico.
Dibattono un po’ sul tema dei messaggi “sovrannaturali”, e Hauberrisser chiede conto della definizione di “uomo primordiale” usata per la fantomatica figura dal volto verde che entra ed esce dalle loro giornate. Preferisce “credere che sia la medesima creatura entrata nelle nostre vite” con un caleidoscopio di manifestazioni, ed Eva si dice d’accordo. Sephardi ipotizza che si tratti di una forza spirituale – forse un essere con una autonomia identitaria – fiorito in epoca remota e che ora voglia ridestarsi, manifestandosi a pochi eletti. Del resto se un uomo diventa immortale, “continua a esistere quale pensiero eterno” in grado di accedere in modo diverso alla mente altrui. Se poi lui, come ebreo, accoglie una religione della debolezza che si basa sull’attesa del Messia, esiste anche una strada della forza – l’importante è che, per coerenza, il debole non scelga la forza o viceversa.
L’ingegnere lo interpella allora sul tema del dominio dei propri pensieri – che non è il semplice autocontrollo, e Sephardi ribatte atterrito che si tratta di “un antichissimo sistema pagano per giungere al vero superomismo”, il cosiddetto “ponte della vita”. Però sia chiaro, non c’entra con Nietzsche: è penetrato in Europa dall’Oriente, e pochi lo conoscono. È bastato a far perdere il senno a chi mirava a quel tipo di magia, “soprattutto inglesi e americani” con ciarlatani che si spacciano per iniziati e schiere di pellegrini in India e Tibet, senza sapere “che lì il segreto si è spento da tempo”. Legittimo domandarsi se Meyrink non stia facendo qui il contropelo al Fa’ quel che vuoi di Crowley, molto attivo nel traghettare a ovest – tra brividi e critiche degli occultisti occidentali, che non amano simili ibridazioni contrarie a una tradizione – una serie di spunti esoterici dall’Oriente.
Sephardi prosegue: questi appassionati di scarsa preparazione confondono con altre tradizioni che portano quel nome, ma i testi antichi sull’argomento restano privi di chiavi interpretative. Del resto un “ponte della vita” è esistito anche nella cultura ebraica, con tracce indietro fino all’XI secolo e un suo antenato, Salomon Gebirol Sephardi, ne ha parlato nei propri scritti finendo ucciso da un arabo. In Oriente una piccola comunità erede di emigrati europei discepoli di antichi Rosacroce, i Paradâ, “coloro che hanno toccato l’altra riva”, custodirebbero ancora il segreto… Beninteso, sarebbe una fortuna per il mondo intero se qualcuno giungesse all’altro capo del “ponte della vita”. Da solo, un uomo non può riuscirci, ha bisogno di una compagna e qui sta il senso più profondo del matrimonio, “che l’umanità ha smarrito da millenni”. Poi si avvicina alla finestra per nascondere il viso e prosegue: “Se un giorno le mie misere conoscenze in questo campo potessero tornare utili a voi due, disponete pure di me liberamente”.
Eva resta colpita. Anche ammettendo che i sintomi di un suo innamoramento per l’ingegnere siano così evidenti, cosa ha spinto Sephardi a un’uscita tanto poco discreta da gaffeur? Tradisce l’eroismo di chi l’ha amata in silenzio? O piuttosto c’entra il discorso sul “ponte della vita” e un improvviso – come diceva Swammerdam – partire al galoppo del destino? in fondo Eva, seguendo il consiglio del mistico, aveva parlato con Dio… a quel punto, cogliendo l’imbarazzo di Hauberrisser, lo tranquillizza: non deve provare disagio, si tratta di parole di un amico e nessuno può sapere ciò che la sorte riserva. L’indomani tornerà ad Anversa e per un po’ non si vedranno. Si congeda affettuosamente anche da Sephardi.
Intanto il barone nota casualmente sul giornale una notizia di cronaca nera, su un assassinio consumatosi nello Zee Dyk. Legge così i punti principali ai presenti: Swammerdam che trova il corpo della piccola Katje, il calzolaio scomparso con la grossa somma che aveva ricevuto, i primi sospetti su un commesso poi rilasciato, il costituirsi dell’assassino – che ha probabilmente ucciso anche il calzolaio. Il cui corpo, buttato probabilmente nel fango del canale, non è stato ritrovato. La confusa testimonianza dell’assassino che avrebbe sottratto il denaro permette di parlare di omicidio a scopo di rapina. Perché a uccidere non sarebbe stato “Quell’orribile negro” (qui in apparenza gli stereotipi si sprecano, ma ci saranno sorprese) come ritiene Eva, bensì “un vecchio ebreo russo di none Eidotter, che gestisce uno spaccio di liquori nello stesso edificio” – quello cioè con il nome rituale di “Simone il crocifero”. La ragazza, che l’ha conosciuto, non crede alla sua colpevolezza, neppure in stato di incoscienza. Circa l’improbabile confessione di lui, Sephardi ipotizza che l’adozione di un nome sacrificale come quello del crocifero, per la forza stessa insita in esso, abbia indotto un soggetto isterico a immolarsi per qualcun altro; mentre per lo stesso motivo la bambina è stata probabilmente uccisa da Klinkherbogk in un attacco di follia religiosa, a imitazione del sacrificio di Isacco, dopo essersi dato da solo, imprudentemente, il nome “Abram”.
Alla fine Eva esce di lì con Hauberrisser: lui domanda se non potrebbe andare qualche volta a trovarla ad Anversa, lei preferisce uno scambio di lettere: “Ho pensato sovente che ci deve essere qualcosa di innaturale nel fatto che un uomo si leghi a una donna. Ho come l’impressione che le ali gli si spezzino”. Lui ribatte che la barriera tra loro è il risultato delle inavvedute parole di Sephardi, dovranno sforzarsi di abbatterla. Ma lei vagheggia un’unione speciale, ben più intensa di un matrimonio “ridotto a un’odiosa istituzione che sottrae all’amore la sua bellezza e costringe l’uomo e la donna a un degradante opportunismo”. A un tratto Eva si stringe a lui, sussurrandogli che lo desidera “come la morte. Sarò la tua amante, lo so, ma quel che la gente chiama matrimonio ci sarà risparmiato”. Lui, stordito dalla gioia, coglie a malapena le parole, ma poi un alito di gelo li avvolge entrambi, come portati via alla gioia eterna dall’angelo della morte. Si riprende poco a poco, mentre una carrozza porta via lei e lui si scopre straziato dall’angoscia di non rivederla mai più.
Accertato che la zia beghina non voglia incontrarla – ha mal di testa, poverina, dopo gli ultimi traumatici fatti… – Eva si appresta a partire per il Belgio. Come trovare l’accesso a quel sentiero regale per la donna citato da Sephardi? Non vuole ridursi a donare all’amato solo la propria bellezza… e farebbe per lui qualunque sacrificio, pur di puntare al di là di quegli orizzonti umani che restano davvero troppo poco. Prega intensamente che qualcuno da oltre il fiume della morte le appaia per indicarle la strada. E dal cielo squarciato ha una visione, una tavola di vegliardi come in attesa: il “loro superiore aveva i lineamenti di una razza straniera, e un segno luminoso fra le sopracciglia; dalle sue tempie partivano due raggi abbaglianti come le corna di Mosè”, ma lei non riesce a formular loro la propria richiesta e lo squarcio nel cielo si sta ormai richiudendo, lei cerca di trattenere l’uomo con il segno fiammeggiante… però all’improvviso vede “una figura su un cavallo bianco sfrecciare al galoppo dalla terra al cielo, e riconobbe Swammerdam”, che smonta, impreca contro il vegliardo, lo afferra e gli indica Eva. La scena le ricorda le parole evangeliche sul fatto che il Regno dei Cieli vada conquistato con la forza. A quel punto lei ordina – come aveva sollecitato il mistico – di essere innalzata
verso la meta più sublime che una donna possa attingere – senza pietà, sordo alle sue preghiere se le avesse formulate per debolezza, sempre avanti, più veloce del tempo – attraverso gioie e felicità, senza concederle tregua, senza un attimo di respiro, costasse anche mille volte la vita.
(Nel contesto d’epoca può non colpirci un certo angelicato ministero della figura femminile.) Eva capisce di dover morire di fronte alla luce abbagliante del segno sulla fronte dell’uomo che le brucia la mente, ma continuerà a vivere perché ne ha visto il volto. Sente le catene della schiavitù spezzarsi in lei, mentre le sue labbra mormorano lo stesso ordine… Quando recupera il senso della realtà, sa che non tornerà ad Anversa: tutto le sembra piccolo di fronte all’indicibile beatitudine del prossimo futuro, e sta per giungere “l’ora che le donerà la vista – seppur tardi e a prezzo di terribili sofferenze”. Guardandosi allo specchio, i tratti del volto le risultano estranei: non riesce neppure a scrivere una lettera al proprio amato.
Ma avendo accettato di lasciarsi spingere dal Maestro del Destino verso lo scopo più elevato possibile, per poter offrire all’amato un rapporto speciale e non un matrimonio borghese, Eva scatena un meccanismo psichico di recettività, di lasciarsi agire: e in primo momento di questa mistica passività beneficia una forza oscura. Infatti come dal fondo dell’orecchio le perviene un sussurro, che poi diventa una lingua selvaggia e straniera. Deve obbedire a un ordine estraneo, ostile, ed esce; giunta alla piazza della Borsa di Amsterdam è trascinata bruscamente a destra. Sospetta di essere diretta a farsi uccidere ma non vi si oppone – tutto è un passo ulteriore verso la meta. Cammina fino a imbattersi nella casa sghemba – alla Caligari – in cui è stato assassinato il calzolaio. E sul parapetto alla confluenza dei due canali siede l’uomo la cui forza demoniaca l’ha attirata lì: è il terribile Usibepu, e lei atterrita che non riesce a chiamare aiuto, vede se stessa fermarglisi davanti. Lui dorme a palpebre aperte con le pupille rivolte in su, lei – inerte – ne teme il risveglio e subisce la “magica coercizione” del “selvaggio sangue africano” di cui aveva sentito parlare (torniamo a stereotipi razzisti diffusi in tutto l’Occidente):
L’abisso in apparenza insormontabile che separava il terrore dall’ebbrezza dei sensi era in realtà solo una sottile parete trasparente, infranta la quale l’animo di una donna si trasformava senza scampo in terreno di istinti bestiali.
Come una sonnambula, non vede vie di scampo: lui la afferra e le tappa la bocca, Eva si aggrappa alla striscia di cuoio rosso scuro che lui porta al collo… riesce a chiedere aiuto, Usibepu la trascina nell’ombra della chiesa di San Nicola, ma due marinai cileni li seguono, uno riesce a ferire il nero che però gli sfonda la testa. Messo KO l’altro, Usibepu bracca Eva nel giardinetto della chiesa, lei si nasconde e vorrebbe uccidersi per non cadere nelle sue mani. Poi però si accorge che la propria immagine riflessa è apparsa in mezzo al giardino, Usibepu le parla terrorizzato… quindi ricade nel precedente stato di incoscienza. La forza a cui ha scelto di affidarsi la indirizza verso la salvezza. Eva si arrischia ad abbandonare il nascondiglio e giungono voci dal vicolo: lei grida, gli inseguitori di Usibepu si lanciano su di lui che però riesce a farsi strada e arrampicarsi sul tetto della chiesa (inevitabile pensare alla fuga dell’evaso, impazzito Knock nel Nosferatu, 1922). Eva perde conoscenza e ne perdiamo le tracce: e questa sua scomparsa resterà circonfusa di mistero iniziatico.
Intanto Hauberrisser si intrattiene con Sephardi e il barone: continua a pensare a Eva, ma ad Amsterdam – a parte la compagnia dei due cari amici – si sente solo. Medita dunque di trasferirsi ad Anversa, dove potrebbe incontrare Eva almeno casualmente, ma è angosciato dal cattivo presagio gravante sul loro congedo. Quando poi scopre che è partita dall’albergo ma le valigie non sono state ritirate, si agita e prende a cercarla disperatamente, nella notte, fino allo Zee Dyk – ma lì Swammerdam gli spiega che non è tornata da loro. Comunque lo tranquillizza sul fatto che Eva sia viva, “Perché altrimenti la vedrei”: ma sì, è capitato qualcosa di grosso, la tiene in suo potere “uno di fronte al quale noi due non siamo nulla”. Eva si è incamminata su una strada simile a quella percorsa da Klinkherbogk, per cui lui pure aveva pregato tanto, però le preghiere risvegliano “con violenza forze in noi sopite”. E il senso di quanto accade nella sfera esteriore è di spingere avanti: poi tutto avviene “nel momento giusto e nel modo migliore” – così, non si preoccupi, sarà per Eva.
Il difficile sta nell’invocare lo spirito che deve guidare il nostro destino; Egli ascolta solo la voce di chi è maturo, ma il grido deve nascere dall’amore, e per amore di un altro, altrimenti non facciamo che risvegliare in noi le forze delle tenebre.
Gli ebrei della cabbala dicono: “Le creature del buio regno di Ob raccolgono le preghiere che non hanno ali”, e con ciò intendono non i demoni che sono fuori di noi, perché da questi ci difende la muraglia del nostro corpo, ma certi magici veleni dentro di noi che, risvegliati, scindono il nostro Io.
Alla preoccupazione di Hauberrisser che Eva sia andata incontro a una triste sorte come quella del calzolaio, il mistico lo rassicura: se l’ha consigliata a una certa ricerca interiore, era perché in quel momento era vicino Colui di fronte al quale loro non sono nulla. Invita piuttosto l’ingegnere a rivolgersi ai marinai della taverna con un’offerta in denaro, perché la trovino. Nel locale giace il corpo del marinaio cileno ucciso da Usibepu, ma il taverniere ne copre la responsabilità.
Eva viene cercata da tutto il quartiere, e la cameriera Antje è molto commossa per Hauberrisser. Alla fine Swammerdam lo esorta ad andare a dormire: provvederà lui a denunciare la scomparsa alla polizia. Il mistico gli racconta un episodio della propria giovinezza: turbato e deluso, considerava il destino un carnefice spietato. Poi aveva visto un purosangue che stavano allenando: continuava a correre in tondo sotto le frustate per non accettare di saltare un ostacolo che lo avrebbe portato a far chiudere la prova – e Swammerdam aveva capito di assomigliargli… Fino a quel punto aveva visto le sventure come punizione, ora la durezza della sorte aveva acquistato un nuovo significato. L’unico consiglio che arriva a dargli è di cercare
quella magica forza che in avvenire sarà in grado di evitare altre disgrazie alla sua fidanzata. Altrimenti potrebbe accaderle di trovarla per poi perderla di nuovo, come gli uomini sulla terra si incontrano per poi venire separati dalla morte.
Lei deve ritrovarla non come si trova un oggetto perduto, bensì in un modo nuovo e duplice. […] Non ha detto lei stesso che Eva aveva paura del matrimonio? Proprio per preservarvi da questo il destino vi ha uniti così all’improvviso, e subito dopo vi ha separati. In una qualunque altra epoca che non fosse quella attuale, in cui quasi l’intera umanità si trova di fronte a un terribile vuoto, quel che le è accaduto avrebbe potuto essere solo una smorfia della vita, ma oggi questo mi sembra da escludere.
Quanto al misterioso manoscritto pervenuto all’ingegnere, lasciando che gli eventi esteriori seguano il loro corso, è sensato cercare in quelle pagine ciò che è giusto per lui. Ora è nel punto giusto per poterlo fare, “(p)erchè ora agisce per amore, e può impossessarsi senza pericolo delle forze terribili che altrimenti la porterebbero inesorabilmente alla follia”.
Chiaramente Meyrink presenta Swammerdam con simpatia e rispetto: un mistico dal profilo ben più sofferto e in fondo umano dello splendido ma distante Hillel del Golem. E con altrettanta chiarezza il filo importante del Volto verde rappresentato dal mondo di Swammerdam è quello della mistica cristiana di Jacob Böhme (1575-1624) e di altri testimoni avanzati sulla linea tedesca già di Meister Eckhart, passata a innervare il pensiero rosicruciano ma più in generale il pensiero mistico romantico. Quindi la spendita per questa parte fondamentale della categoria dell’esoterico, non impropria per il romanzo in termini assoluti, richiede almeno di essere meglio chiarita.
Tanto più ricordando il rapporto complesso dell’autore con gli esoteristi dell’epoca. In alcuni abbozzi di Il volto verde figurava una figura di ciarlatano poi in gran parte eliminata nella versione definitiva, e modellato su Rudolf Steiner. Se questi in una conferenza a Monaco rende omaggio ai pensieri di Meyrink sulla mistica, Gustav non è altrettanto amichevole nei suoi confronti, stroncando la teosofia come religiosità di gente incolta. Non parliamo poi degli spiritisti, ai quali riserverà nel Volto verde parole durissime.
Va detto che la critica al sistema di Steiner è in parte parallela a quella nei confronti di Mann. Così come in tema di esoterismo Meyrink non si riconosce seguace di una peculiare tendenza, ciò vale anche per il fronte della letteratura. Ma fa parte del carattere di Meyrink una conflittualità ispida, con giudizi tranciati in modo tale da suggerire una certa incomprensione della letteratura del suo tempo (impressione in realtà non fondata, a giudicare dalla sua corrispondenza, in particolare con l’editore Kurt Wolff). Diciamo che, a proposito di Meyrink, qualunque semplificazione classificatoria – a partire da quella di chi cerca di annetterselo – è destinata a scontrarsi con un impianto di pensiero liberissimo, molto originale e ben poco schematizzabile.
Intanto Sephardi si è recato dallo psichiatra legale Debrouwer – considerato da tutti un superficiale – per sapere qualcosa di più sul caso del vecchio correligionario Lazarus Eidotter e intercedere per lui. Sospetta sia un chassidim cabbalista e la sua sorte gli sta a cuore. Anche l’ottuso Debrouwer esclude che il vecchio abbia ucciso (è stato il calzolaio a uccidere la nipote, prima di essere assassinato da qualcun altro e gettato dalla finestra); ma Eidotter conosce troppo bene i fatti e descrive l’uccisione del calzolaio nel dettaglio come avrebbe potuto fare il vero assassino. Oltretutto, alla notizia del delitto, il vecchio è stato ritrovato privo di sensi, “Fingeva, naturalmente”: e se pretende di aver ucciso anche la piccola è solo “per confondere la polizia”. Insomma, un complotto: ecco di nuovo il Meyrink che non ha fiducia nella giustizia dei tribunali, nelle valutazioni di medici spocchiosi e in generale in un sistema. Dal canto suo, Sephardi si rende conto che la sua prima idea di un condizionamento di Eidotter a causa del nome rituale “Simone il crocifero” non regge: vagheggia ora un caso di chiaroveggenza inconscia.
Comunque lo psichiatra concede a Sephardi con sussiegosa benevolenza di parlare al vecchio ebreo russo. Lo trova in condizioni mentali confuse, ripete le parole che lui dice e pare privo di emozioni, benché i tratti rivelino straordinaria forza spirituale. Continua a ripetere di essere colpevole e di aver ucciso per sottrarre i soldi: ma quando Sephardi gli spiega che non avrebbe potuto arrampicarsi sulla catena (come sostiene) per giungere alla stanza del calzolaio, riflette e constata – senza sollievo – che ha senso. La prospettiva che possa essere giustiziato non lo turba, nella vita gli sono “capitate cose più terribili”. Ma curiosamente, a uno stato come privo di vita, il vecchio alterna momenti di profonda comprensione. Sephardi cerca di farlo parlare della famiglia.
Si ricordò che fra i chassidim circolava una leggenda secondo la quale, nella comunità, alcuni davano l’impressione di essere folli ma non lo erano affatto: di tanto in tanto, deposto il proprio Io, essi provavano gioie e dolori altrui come se ne fossero toccati in prima persona. L’aveva sempre considerata una favola:
sarebbe quello il primo caso che gli tocca vedere. Chiede invano se altre volte abbia creduto di aver commesso qualcosa perpetrato invece da altri. Però qualche giorno prima si comportava diversamente, incalza Sephardi, parlava di cabbala: e a quel punto il vecchio commenta che sì, l’ha studiata a lungo, anche il Talmud babilonese e quello gerosolimitano. Ma, sostiene, ciò che la cabbala dice di Dio è falso, “Nella vita è tutto diverso”. Visto poi che in Vaticano ha dovuto tradurre il Talmud, i greci ortodossi di Odessa credevano fosse “una spia in contatto con i goyim romani”: e a un certo punto, guarda caso, un incendio aveva devastato casa sua. Senza però che ci fossero vittime, grazie al profeta Elia, che più tardi è venuto a sedersi alla loro tavola dopo la festa dei tabernacoli – ma la moglie sosteneva si chiamasse piuttosto Chidher Grün – e a quel nome, dopo i dialoghi con Pfeill, Sephardi sobbalza.
Comunque, continua Eidotter, nella sua comunità dicevano che lui era pazzo, senza sapere che Elia gli “insegnava la doppia legge tramandata da Mosè a Giosuè”. Poi moglie e bambini gli erano stati orribilmente uccisi in un pogrom… Lui narra sorridendo senza emozioni, pare cosciente ma ormai senza dolore: quindi – prosegue – non era più riuscito a studiare la cabbala, “perché i lumi dei makifim erano stati spostati”. Sephardi con delicatezza domanda se intenda che il dolore gli abbia ottenebrato la mente, ma lui spiega che no, è stato come aver bevuto quel filtro degli egizi che porta l’oblio. “Come sarei potuto sopravvivere altrimenti? Per lungo tempo non seppi chi ero”, e al ritorno della memoria gli manca quanto occorre per piangere e parecchio di quanto occorre per pensare. Sa che è accaduto qualcosa che dovrebbe farlo soffrire, ma non prova nulla perché il cuore è salito alla testa, mentre il pensiero è sceso al cuore – quanto all’attività del suo negozio, non serve gran cervello e il suo corpo procede in automatico… Ecco spiegato qualcosa della sua stramba confessione.
Certo con le proprie forze nessuno è in grado di far qualcosa di simile, occorre si muova “uno dell’altro mondo” per spostare i lumi – nel suo caso il profeta Elia. Prima che entrasse nella stanza l’aveva riconosciuto, e il suo arrivo era stato normalissimo come l’ingresso di qualunque altro ebreo – e si rende conto che “non era trascorsa neppure una notte della mia vita in cui non lo avessi visto in sogno”. Tornando poi indietro con la memoria a cercare il loro primo incontro, gli era passata davanti la sua intera giovinezza e poi una vita precedente e così via: e l’aspetto di Elia era sempre lo stesso, di un ospite straniero seduto alla sua tavola, e a un certo punto ha scambiato di posto i due candelieri sul tavolo – cioè li ha spostati in lui. Ma sua moglie sosteneva che l’ospite in persona avesse detto di chiamarsi Chidher Grün…
Elia è rimasto sempre con lui, anche se non può vederlo: e Sephardi capisce che tra sé e il vecchio c’è “un abisso spirituale che non si poteva colmare”. Lui che viveva nel lusso, in solitudine e studio, si è forse perso le cose più importanti. Ha creduto di attendere la venuta di Elia, e leggendo ha capito “che per risvegliare la vita interiore era necessario desiderarla”: ma ora che ha davanti uno che ha appagato il proprio desiderio spirituale, si scopre a dire che non vorrebbe essere al suo posto. Il movimento spirituale non è quello che lui credeva. Quando però spiega a Eidotter che non sarà difficile convincere lo psichiatra che la sua confessione non c’entra col delitto, il vecchio gli chiede di promettergli che invece non dirà niente: non vuole che l’assassino sia arrestato, e detto fra loro è un nero. Sephardi chiede come lo sappia e lui spiega che quando rientra dagli incontri con Elia, ha la sensazione di esser stato parte di eventi nel frattempo avvenuti: se però vi ritorna con pensiero vede la verità. Stavolta, tornando mentalmente ad arrampicarsi per la catena, si è guardato… era un nero vestito di blu, con una cinghia di cuoio rosso attorno al collo. Ma ricorda a Sephardi di tacere, a causa di Elia non dev’essere versato sangue, e poi l’assassino è uno dei nostri, cioè un uomo di fede – selvaggia ma viva. E gli proibisce di parlare: “Se devo morire per lui, lei vorrebbe togliermi un simile dono?”. È evidente che il povero Eidotter ha conosciuto attraverso la frequentazione del misterioso visitatore il più alto grado di iniziazione: e Sephardi torna a casa sconvolto.
Questo dialogo bellissimo e il ruolo perplesso dell’occidentalizzato Sephardi aprono a un filone in qualche modo contiguo a quello menzionato della mistica cristiana. In questione è qui il pensiero di un certo mondo ebraico della diaspora, con tradizioni certamente peculiari tra Balcani, Polonia e Russia: si pensi alla mistica sincretista o non allineata di maestri più o meno eretici come Sabbatai Zevi, 1626-1676, Jacob Frank, 1726-1791 (protagonista del recente I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, pubblicato in polacco nel 2014), e soprattutto Baʻal Shem Tov, 1698-1760, fondatore di quel chassidismo cui Eidotter sembra aderire. Dove di nuovo, pur dicendo qualcosa di un certo simbolismo un po’ criptico, la chiave dell’esoterismo tout court sembra impoverente e imprecisa. In questo romanzo c’è molta mistica, che va riconosciuta per tale: l’insistenza rozza sulla chiave esoterica – senz’altre specificazioni – sembra soprattutto frutto di accostamenti superficiali al testo e, a monte, dei soliti tentativi ideologici di annettere Meyrink all’orizzonte degli amanti dell’esoterismo eredi del Gruppo di Ur. Ma tra le riflessioni trombone, sussiegose ed equivoche connotanti un certo sottomondo esoterico di privilegiati lamentosi, tutelatissimi perché contigui a poteri sempre vivi, e la sofferta profondità esistenziale di grandi perdenti come Eidotter corre un enorme divario che va colto: un orizzonte febbricitante e vivido di sincretismi mistici cristiani ed ebraici nel calderone delle fedi tra Mitteleuropa e Oriente che parla di percorsi personali alla fede, di scelte esistenziali sofferte, di violenze patite da chi è (davvero) marginalizzato. Ovviamente la mistica cristiana di Swammerdam e la mistica ebraica di Eidotter non esauriscono il contenuto del Volto verde e il tema del suo esoterismo, ma certamente l’enfasi sul medesimo viene notevolmente ridotta.
Le settimane passano e di Eva non ci sono tracce. Invano il barone e Sephardi cercano di aiutare Hauberrisser nella ricerca, per cui viene offerta una lauta ricompensa. Si mobilitano anche pazzi con lettere anonime, veggenti più o meno improvvisati, in una corsa alla bassezza. Unico balsamo per l’ingegnere sono le visite quotidiane di Swammerdam, che un giorno non riesce più a trattenersi: “una schiera di pensieri estranei si sta avventando ostile su di lei per privarla della ragione” e a quel punto l’ingegnere si ritira in se stesso, facendo circolare la voce d’essere partito.
Cerca di costringersi a leggere il rotolo misterioso, ne accoglie il “tu” come rivolto a sé e si accorge che la voce sembra essere a tratti quella di Pfeill, o di Sephardi, o di Swammerdam, tutti animati dal medesimo spirito per aiutarlo a crescere. E questa del manoscritto è forse la voce più genuinamente esoterica del romanzo.
Vi si annuncia che è l’ultima ora sull’orologio del mondo. Dunque non si faccia sorprendere dal sonno, “restare svegli è tutto”: esiste un equinozio dello spirito, e “la legge interiore è identica a quella esterna, solo di un’ottava più alta”. Chi sogna cogliendo soltanto scorci ingannevoli non sono poeti e sognatori, ma i diligenti uomini del fare, che vivono il loro sogno indipendente dalla volontà. Certo esistono i grandi veggenti che sanno di sognare e si spingono “fino ai bastioni dietro cui si cela l’Io eternamente sveglio”, come Goethe, Schopenhauer e Kant, ma non possono espugnarne la fortezza né svegliare i dormienti. Mentre occorre raccogliere le forze e cercare di svegliarsi – permettendo di respingere i pensieri tormentosi. Trasmettendo al corpo questa veglia, i dolori cadranno di dosso come foglie morte: e le pratiche ascetiche delle diverse religioni mirano a questo, l’occulta dottrina della veglia come la scala celeste del Giacobbe che lotta con l’angelo. Il primo piolo si chiama genio: come andrebbero chiamati i livelli più alti?
Il primo ostacolo sarà costituito dal corpo, ma alla fine sarà debellato e l’universo si troverà ai piedi del vegliante. Non si faccia scoraggiare dal timore di non poter raggiungere la meta in questa vita: le nascite successive saranno sempre più avanzate. Vedrà immagini – persone morte, figure di luce – emanate dal suo corpo: e un giorno, se lo seppelliranno, nella bara non ci sarà alcun cadavere. E solo allora riuscirà a distinguere il reale dall’apparente, e capire se è l’essere più disgraziato o più fortunato della terra. Ma nessuno viene abbandonato dalle proprie guide.
Il manoscritto offre poi una serie di caveat sul tema delle apparizioni, per smascherare predatori d’anima e pensieri divenuti visibili, e non cadere in pii equivoci (una condanna nettissima dello spiritismo, le cui manifestazioni avevano peraltro recato a Meyrink penosi contraccolpi interiori). E prosegue con una catechesi sapienziale per cui non ci sarebbe un paradiso dei buoni e una punizione dei cattivi perché non ci sono Male e Bene ma Falso e Vero; vegliare non significherebbe pregare (come da lettura cristiana) ma risvegliare l’Io immortale; il corpo non andrebbe trascurato in quanto peccaminoso, ma far sì che sublimi in spirito; la solitudine andrebbe sperimentata dallo spirito per trasfigurare il corpo. Posizioni insomma vagamente superomistiche a base di “loro credono, noi sappiamo”, in fondo non particolarmente originali a inizio Novecento, e idealmente collocabili tra Nietzsche e le teo/antroposofie di successo. L’anima esoterica, o se si preferisce mitica, del Volto verde – come in fondo del Golem – sta qui, con le polemiche dell’autore verso devozionismi confessionistici e gnosi d’epoca: dove il sogno dell’immortalità depone i panni romantici del secolo prima per tentare nuove sintesi. E pazienza se il risultato, come spiegava il barone Pfeill, informerà solo lo “Stato” dell’autore attraverso un’opera narrativa.
Comunque il manoscritto invita chi legge a decidere in piena libertà la propria posizione. E una pagina successiva fa pensare che il destinatario abbia effettivamente abbracciato “la via pagana del dominio dei pensieri”: suo mentore sarà dunque qualcun altro che sulla terra resta invisibile, “infinitamente lontano […] e tuttavia vicinissimo”. Il loro simbolo è la Fenice emblema di eterna giovinezza: e i suoi primi passi comporteranno che si separi dal corpo – come le streghe che se ne disgiungono lasciando a casa il corpo rigido e privo di sensi per raggiungere (potremmo dire in astrale, Meyrink non usa questa definizione) il sabba. Ma a domare il corpo nell’immobilità non basta la volontà, occorre lo stato di veglia superiore che deve raggiungere da solo, passando per l’incontro con spettri terribili: però saranno solo pensieri in forma visibile, indicatori di uno stadio di sviluppo spirituale. A quel punto potrà o meno entrare nel regno della pace eterna, ma potrebbe anche conseguire poteri per ben amministrarli, l’umanità ne avrebbe bisogno. E potrebbe riceverli proprio il giorno del “grande equinozio”: “Uno di coloro che detengono le chiavi dei segreti della magia è rimasto sulla terra per cercare e radunare gli eletti”, identificato da alcuni come l’Ebreo errante, da altri Elia, per gli gnostici Giovanni Evangelista. Può manifestarsi in forme varie, figura e volto non sono che immagini, ma potrebbe apparirgli come un essere di colore verde, oppure “com’è realmente – un segno geometrico, un sigillo nel cielo che soltanto tu riesci a vedere”, e a quel punto sappia che sarà chiamato a compiere azioni miracolose. Il narratore delle pagine misteriose ricorda di averlo incontrato in forma umana e ha “potuto mettere la mano nel suo costato”: si chiamava Chidher Grün.
Siamo al cap. XII, quello che si rivelerà il più importante. È passato del tempo, ad Amsterdam il nome di Eva è dimenticato e la considerano morta, solo Hauberrisser pensa ancora a lei – spera ancora, sempre più, ma non osa parlarne, neppure a Swammerdam cui pure lascia intuire qualcosa. Terminata la lettura del manoscritto, ha anche eseguito l’esercizio di immobilità (lì descritto) con curiosità scettica e poi quotidianamente per diletto – e scopre via via che di quell’esercizio ha bisogno. Possiamo vedere in queste scene le pratiche a cui Meyrink per lunghi anni – e, per certi versi, per tutta la vita – si costringe, portatrici ora di alcuni problemi fisici che lui ammetterà onestamente, ora di benessere e di salute.
Certo, la perdita dell’amata porta ad Hauberrisser ancora crisi violente di dolore, e sceglie di non contrastarle con gli esercizi per non sottrarsi al bisogno di lei: ma un giorno che il dolore lo conduce quasi al suicidio, prova a costringersi a uno stato di veglia superiore. Inaspettatamente vi riesce subito, e gli giunge la certezza che Eva sia viva e non corra rischi, anzi lo stia pensando. Quella via tra il dolore e una pace che fa sbiadire il ricordo gli permette di sentire Eva vicina. Comprende così meglio i miracoli della vita interiore, e prende a interrogare quella fonte di verità. Per esempio la sensazione, a un certo punto, di aver dimenticato come dominare il moto dei pensieri corrisponde alla fase dell’incenerimento da cui la Fenice – il simbolo qui più importante dopo il Volto verde – risorge ringiovanita: effimero il metodo, importante la conoscenza sottostante. Migliora così costantemente nella pratica di controllo dei pensieri, che prima lo depredavano e ora lo arricchiscono: e trova queste sensazioni evocate nel manoscritto, in pagine incollate dall’umidità che finalmente il calore del sole ha separato.
Negli ultimi anni, prima e durante la guerra, spesso aveva letto o sentito parlare della cosiddetta mistica, raggruppando d’istinto sotto l’etichetta “oscuro” tutto ciò che la riguardava, poiché qualsiasi cosa venisse a sapere sull’argomento aveva sempre un’impronta di vaghezza, come le visioni dei fumatori d’oppio. Non si era sbagliato nel suo giudizio, poiché quanto comunemente si intendeva per mistica altro non era, in realtà, che un brancolare nella nebbia. Ora però si avvide che esisteva anche uno stato mistico autentico – difficile da scoprire e ancor più da raggiungere – il quale non solo teneva il passo con la realtà dell’esperienza quotidiana, ma la superava di gran lunga in vitalità.
In esso niente ricordava le estasi sospette dei “mistici”: nessun umile piagnisteo volto a un’egoistica “redenzione” che, per brillare, ha bisogno del sanguinoso sfondo di empi condannati a eterne pene infernali; grazie a esso anche la rumorosa sazietà di una moltitudine bovina, che solo perché digerisce ruttando crede di trovarsi sul terreno della realtà, era scomparsa come un sogno ripugnante.
Meyrink non le manda a dire, anche nell’ambito di quel mondo di spiritualismi – allineati o meno a tradizioni religiose o filosofiche consolidate – che pure ha imparato a conoscere bene. Va ribadito d’altronde che possono ben definirsi mistiche le correnti cristiana ed ebraica che in questa storia idealmente omaggia.
Alla scrivania, Hauberrisser sente che Eva gli è vicina anche se non riesce a vederla. Nei giorni precedenti ha “creduto di essere sulla via giusta per ricongiungersi a lei in una nuova forma spirituale”, però non vuol cadere nell’errore delle allucinazioni streghesche. Più cresce il potere di trasformare i desideri in immagini, più c’è il rischio di perdersi dietro a fantasmi. Tuttavia in qualche momento Eva gli è apparsa come in carne e ossa, e ha dovuto costringersi a evitare di riprodurre l’immagine. Però non riesce a decidersi di andare a letto: ci dev’essere un mezzo, medita, per richiamare Eva in forma viva e reale… Lancia dunque domande, liberando i propri pensieri, ma le idee che pervengono non lo convincono. E intuisce che non basti stimolare la coscienza, ma anche il corpo, dove giacciono sopiti i poteri magici: sono questi da risvegliare, per agire sul mondo materiale. Colto da un’ispirazione, si pone nella posizione delle statue degli dei egizi (già il narrante di Le piante del dottor Cinderella imitava la postura di una statuetta egizia) e costringe il corpo a una quiete assoluta: e poco dopo sente “scatenarsi dentro una tempesta di indicibile violenza”. Voci umane, versi animali e colpi di gong si scatenano in lui, ma anche all’esterno nella stanza esplode un putiferio e la pelle gli brucia, mentre continua a invocare Eva. Non presta ascolto alla flebile voce interiore che consiglia di non giocare con forze di cui ignora la potenza, e che non sa dominare – e neanche quando la voce si fa più forte, gridando di tornare indietro. Se lo scatenare di cieche forze degli inferi, ventila la voce, facesse arrivare lì Eva prima del compimento dell’evoluzione spirituale, ne causerebbe la morte portando a lui un intollerabile dolore… ma non l’ascolta e va avanti. Nonostante la motivazione razionale che se Eva avesse potuto si sarebbe fatta viva, ma continua egualmente a inviargli pensieri d’amore, il desiderio di lui è tale da privarlo della ragione.
All’improvviso il fragore cessa, la stanza s’illumina a giorno e come sorto dal pavimento un palo sormontato da una traversa – come una croce decapitata – raggiunge quasi il soffitto: ne pende la testa di un grande serpente dal verde brillante, la fronte avvolta da un cencio nero e l’aspetto simile a un volto umano mummificato – e ricorda il viso di Chidher Grün. Terrorizzato da quell’epifania, Hauberrisser si sente chiedere in tono sibilante “Che c-os-a vu-oi da me?”. Inevitabile ricordare il demone-cammello che nella scena dell’evocazione di Le Diable amoureux di Jacques Cazotte chiede al protagonista “Che vuoi?”: qui l’animale è diverso, ma sembra possibile un richiamo. Tanto più che l’albero con il serpente presenta un’allusione edenica, così come il nome di Eva: il Nehushtan, serpente sul bastone fatto innalzare in rame da Mosè nel deserto per curare gli Israeliti morsi dai serpenti – e quello terapeutico di Asclepio del mondo greco – si muta nell’iconografia tarda, specialmente ermetica, in un serpente sulla croce, come qui evocato in sincretismo con culti africani.
Paralizzato dall’orrore, sentendo la morte in agguato, Hauberrisser crede “di vedere un disgustoso ragno nero scivolare sulla superficie lucida del tavolo… poi il suo cuore gridò il nome di Eva”. Allora la stanza rimpiomba nell’oscurità, il Nostro raggiunge a tastoni la porta e accende la luce, la croce decapitata e il serpente sono scomparsi… cerca di tranquillizzarsi pensando a un attacco di febbre, ma senza successo, ed è angosciato che il suo esperimento magico abbia posto Eva in pericolo di vita. Cerca di tranquillizzarsi con l’idea che si sia trattato di un’illusione e quando va alla finestra si accorge di scrutare in distanza se Eva non stia arrivando. Nota però che nel punto del pavimento dove è sorta la croce decapitata con il serpente il legno delle assi è marcito; e a un tratto ode bussare al portone, colpi impazienti.
Apre, tirando la corda del saliscendi, non echeggiano rumori per le scale: ma poi si spalanca la porta e compare Usibepu, che, incosciente come un sonnambulo, sembra non vederlo e annusa in giro. Alla fine individua il punto del legno marcito e poi solleva il volto come guardando la croce decapitata della visione e lo stesso serpente (associabile, ricordiamo, a quello del suo culto africano). Sul volto del nero, che pare mormorare, si alternano emozioni, fino a un furore incontenibile: ma poi si accovaccia sul pavimento, impallidendo, con gli occhi rivoltati sotto le palpebre spalancate – e intanto anche l’ingegnere è colto da un’inspiegabile stanchezza. E solo dopo parecchie ore vede Usibepu alzarsi in trance e andarsene.
Hauberrisser sta per tornare indietro dal portone spalancato, quando all’improvviso dalla bruma compare Eva. Sconvolto dalla gioia, la stringe tra le braccia, pare esausta: la conduce a una poltrona e restano abbracciati a lungo, lui in ginocchio e lei intenta a baciarlo. Non è tempo di porle domande, le chiede di non lasciarlo mai più, e lei lo tranquillizza, resterà con lui “anche da morta” – e intanto le mani le sono diventate gelide. Non può più lasciarlo, “L’amore è più forte della morte”: gliel’ha detto lui (scopriremo tra poco di chi si tratti), lei era morta e lui l’ha rianimata e lo farà ancora. Per intere settimane è stata fuori di sé, “sospesa fra il cielo e la terra, aggrappata alla cinghia rossa che la morte porta al collo. Lui le ha strappato il collare! Da allora sono libera! Non sentivi che ti ero sempre accanto? […] Fammi… fammi essere tua! Quando ritornerò da te voglio essere madre”. Si stringono in un impeto d’amore, e quando lui la richiama Eva è morta.
Sconvolto, Hauberrisser vorrebbe uccidersi, ma gli appare Chidher Grün: “Vuoi forse andare nel regno dei morti per cercare i vivi?”. Sappia chi non imparerà a vedere sulla terra non imparerà neppure dall’altra parte… Pensa che Eva non possa resuscitare? “Lei è viva, sei tu che sei ancora morto”. Poi sposta i due lumi: come ora è certo che lui possa mettere la mano nel costato del visitatore, così è certo che si unirà materialmente con lei quando avrà raggiunto la nuova vita spirituale. Il protagonista ha invocato l’amore effimero – Chidher Grün passa il piede sulla traccia di marcio, che scompare – e lui gliel’ha portato: è rimasto sulla terra non per prendere ma per dare… “Nella bottega delle meraviglie del mondo hai desiderato nuovi occhi per vedere le cose della terra in una luce nuova, ricordi? Non ti dissi che prima di avere nuovi occhi avresti dovuto consumare di lacrime i vecchi?”: per questo gli ha fatto pervenire il diario di uno dei suoi discepoli…
Eva voleva l’amore eterno: e io gliel’ho dato… e per amor suo lo darò anche a te. L’amore effimero è un amore spettrale.
Quando sulla terra vedo germogliare un amore che va al di là di quello fra spettri, vi stendo sopra le mani come uno scudo di rami per proteggerlo dalla morte che è ghiotta di frutti, poiché io non sono solo il fantasma dal volto verde, io sono anche Chidher: l’albero eternamente verde.
La governante al mattino trova il corpo di Eva disteso sul letto e Hauberrisser in ginocchio accanto. Chiama subito Pfeill e Sephardi che lo credono svenuto ma arretrano “spaventati davanti all’espressione sorridente del suo volto e alla lucentezza dei suoi occhi”. Come per Eidotter, l’inversione delle luci l’ha condotto al dominio dei dolori psichici.
Prima di passare alla parte finale, è inevitabile tentare parallelismi tra Il volto verde e il precedente Il golem, letterariamente più solido (e anche più agevolmente avvicinabile per un lettore). Athanasius (“Immortale”) Pernath e Fortunat (“Fortunato”) Hauberrisser presentano punti di contatto in quanto antieroi modernisti, uomini in crisi nella risacca epocale che dovranno conoscere una spiazzante iniziazione per trovare un posto nel mondo. Mirjam ed Eva sono figure omologhe, donne amate e dolcissime di grande profondità interiore: di entrambe si teme siano rimaste vittime di violenza sessuale e verranno recuperate dal protagonista dopo un qualche tipo di morte (anche solo simbolica). Degli iniziatori Hillel e Swammerdam qualcosa si è detto, mentre Zwakh & Charousek e Pfeill & Sephardi strutturano costellazioni amicali che per l’uomo Meyrink hanno evidentemente un ruolo importante. In forme diverse Wassertrum e Usibepu risultano figure dell’Ombra in realtà temperata da scorci di umanità, laddove il pur colpevole Laponder e l’innocente Eidotter mettono alla prova le categorie di giustizia degli uomini. E ancora, con una marcata differenza simbolica, il golem e Chidher Grün ricoprono il ruolo del visitatore soprannaturale che traghetta a un qualche tipo di immortalità. In un caso e nell’altro, a partire dai quartieri ebraici (di Praga e di Amsterdam) che conservano tradizioni e memorie dei viandanti per antonomasia della cultura occidentale: non a caso in entrambi i testi emerge il mito dell’Ebreo errante, portatore di una qualche immortalità fino ai giorni escatologici del Giudizio. Il tutto espresso secondo gli stilemi di un espressionismo che offre maschere e topoi alle crisi del Novecento, ma suscettibile di parlare ancora al secolo successivo, di colpirci e di emozionarci coi suoi appelli a memoria e profezia.
(7-continua)