1. di Gioacchino Toni

Se in Tecnoluddismo 1/2 ci si è occupati della prima parte del volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti delle tecnologie e dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del secolo successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa sulla scena del computer.

Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se nella quotidianità le schede perforate rappresentavano ai loro occhi burocrazia, censimento e controllo, non mancarono di cogliere il ricorso dell’apparato militare agli elaboratori nella pianificazione delle operazioni nel teatro di guerra vietnamita.

«Il passaggio a strategie basate sulla raccolta di dati quantitativi e sull’analisi automatizzata rappresenta un cambiamento radicale nella cultura militare». A ribadire le analogie tra la logica militare e quella industriale è il fatto che entrambe faranno ricorso a metriche quantitative; non a caso, ricorda lo studioso, a guidare la riqualificazione militare fu chiamato il segretario della Difesa, Robert McNamara, che precedentemente aveva fatto ricorso all’analisi statistica nella ristrutturazione della Ford. «L’automazione della guerra, come l’automazione dell’industria, era uno strumento fondamentale per riaffermare il controllo sui soldati ribelli in Vietnam». Esattamente come avveniva nelle fabbriche, anche in Vietnam erano sempre più frequenti gli atti di insubordinazione e sabotaggio, tanto che si pensò di sostituire le resistenze della fanteria con il ricorso a bombardamenti aerei sempre più automatizzati così come nelle fabbriche si tentava di ovviare alle insorgenze operaie attraverso l’automazione della produzione.

Nel corso degli anni Settanta la posizione degli attivisti nei confronti del computer prende due diversi indirizzi; uno, minoritario, antitecnologico, ed un secondo, decisamente maggioritario, propenso a vedere nel computer uno strumento che avrebbe potuto favorire, soprattutto a partire dalla commercializzazione delle apparecchiature, pratiche di liberazione personale su cui si sarebbe poi sviluppato l’internet-attivismo.

L’automazione dei processi di lavoro, anche d’ufficio, attraverso tecnologie computerizzate, oltre a sottrarre ai lavoratori parte del controllo da essi esercitato sui processi produttivi e a rivelarsi un preciso strumento di sorveglianza – il computer come sofisticato panopticon –, comportava una crescente astrazione dell’attività lavorativa, dunque la necessità di fornire ai lavoratori gratificazioni utili ad ottenere forme di dedizione interiorizzate. Per quanto il lavoro panottico e digitalizzato abbia ridefinito l’universo produttivo, non ha eliminato totalmente la conflittualità nei luoghi di lavoro che, seppure in maniera meno plateale ed efficace rispetto a prima, ha trovato modo di esprimersi soprattutto in forme di “resistenza passiva”.

Sebbene «le culture hacker siano state ricondotte a ogni sorta di schieramento politico: dal liberale al libertario, dal radicale al reazionario» – se, ad esempio, Bruce Schneier1 mette in evidenza come l’hacker sia spesso un operatore al servizio dei potenti, autori come Davide Fant e Carlo Milani2 mettono in risalto come non manchino esempi, soprattutto in forma collettiva, tendenti piuttosto a sottrarsi al potere –, non di meno, secondo Mueller, in tali culture è individuabile un certo spirito luddista non così distante da quelle che hanno mosso i tessitori ottocenteschi.

Anche se la figura dell’hacker, spesso vista come quella di un virtuoso della tecnologia che agisce attraverso i suoi dispositivi digitali, ha finito per essere «gentrificata e assorbita nella figura dell’eccentrico imprenditore (sì, maschio) della Silicon Valley, che dà libero sfogo alla sua maestria tecnologica modificando per sempre la società», dunque un individuo che anziché distruggere le macchine le adotta, in realtà, sostiene Mueller, lungi dal celebrare la tecnologia, l’hacker ne è spesso critico, visto che sfrutta «le proprie abilità per sovvertire le misure societarie di razionalizzazione e controllo del comportamento degli utenti» e ciò fa di lui un luddista.

Tra gli esempi di «organizzazione hacker di resistenza luddista» lo studioso indica il movimento del software libero. «Il software libero è un esempio di tecnologia luddista: un’innovazione il cui obiettivo è la salvaguardia dell’autonomia di chiunque se ne serva contro l’imposizione del controllo sul processo lavorativo da parte dei capitalisti». Insomma, «il movimento del software libero è stato determinante nello stabilire linguaggi di codifica non proprietari come standard nell’industria, facendo sì che lo sviluppo delle competenze, piuttosto che essere controllato esclusivamente dalle grandi corporation, potesse risultare dal coinvolgimento di una comunità aperta». Ciò ha inoltre contribuito a mettere in discussione i diritti di proprietà intellettuale che caratterizzano la cultura digitale. Ecco allora perché i conflitti che hanno attraversato la storia di internet possono, secondo l’autore, essere letti come lotte contro la sussunzione non così diverse da quelle dei tessitori ottocenteschi.

Se negli anni Novanta, epoca in cui il web era popolato da dilettanti e hobbisti, il business si limitava alla fornitura di accesso alla rete, successivamente il capitalismo ha nesso a profitto la propensione partecipativa degli utenti (Web 2.0) trasformando la rete «in una macchina distribuita per la produzione di valore», ponendo le basi per quello che Shoshana Zuboff avrebbe efficacemente indicato come “surveillance capitalism” basato sulla datificazione. Questo capitalismo della sorveglianza nasce in apertura del nuovo millennio, quando alcuni settori del sistema economico iniziano a tradurre l’esperienza umana privata in dati da cui derivare previsioni comportamentali3. Gli algoritmi che regolano i processi decisionali a cui si viene sottoposti sono del tutto oscuri ed inaccessibili, tanto che Frank Pasquale4 parla di black box society, di “società delle scatole nere”, facendo riferimento in particolare all’incidenza dell’automazione sul sistema giuridico, ma ciò è evidentemente estendibile ad altri ambiti.

A tutto ciò, scrive Mueller, gli hacker hanno reagito cercato di contrastare il capitalismo della sorveglianza ad esempio sviluppando tecnologie volte alla protezione della privacy degli utenti. «Dal momento che la sussunzione reale delle attività online si basa sulla sorveglianza e sulla profilazione, questi applicativi per la privacy si qualificano come un’altra forma di tecnologia luddista, che tenta di riportare il web al suo stato di sussunzione formale di attività creativa relativamente autonoma». Al fine di evitare che le pratiche hacker restino nelle mani di un manipolo di virtuosi della tecnologia, non sempre mossi da finalità di condivisione, secondo Mueller sarebbe utile allargare il bacino di utenti di internet in grado di fronteggiare le dinamiche del capitalismo della sorveglianza5.

Se a fronte della diffusione in ambito lavorativo delle tecnologie basate sull’intelligenza delle macchine diversi approcci critici si mostrano inclini a ritenere che, più che arginata, questa andrebbe orientata al miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani, evitando atteggiamenti deterministici, di entusiastica accettazione o d’indifferenza6, altri insistono piuttosto sul fatto che le tecnologie di intelligenza artificiale, più che sostituire i lavoratori, riconfigurano le pratiche di lavoro rendendole spesso più stressanti, tanto che, con indubbia efficacia, Brian Merchant7 parla di shitty automation, «automazione di merda», o ad imporre lavoro aggiuntivo non previsto dai mansionari, definito shadow work «lavoro ombra» da Craig Lambert8, con importanti ricadute anche nel lavoro sanitario9 ed educativo.

In generale gli algoritmi alla base dei sistemi di machine learning della IA generativa necessitano di essere addestrati attraverso un’incredibile mole di lavoro sottopagato o letteralmente non pagato – altro caso di shadow work – attraverso processi di datificazione a cui sono quotidianamente sottoposti gli utenti che utilizzano le piattaforme digitali. John Banks e Sal Humphreys, ad esempio, hanno mostrato come il fenomeno partecipativo in rete, attorno al quale anche a sinistra sono state riposte tante aspettative, rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle grandi corporation10. L’utopia della conquista del tempo libero permesso dalla piena automazione di cui pontificano i tecno-entusiasti acritici che si dicono di sinistra, sembra condurre in realtà ad erosione salariale ed estensione del tempo di lavoro sotto forma fantasma.

Di fronte alle derive prodotte dai sistemi di IA insinuatisi ormai ovunque, scrive Mueller, a poco servono i mea culpa di importanti imprenditori e designer della Silicon Valley e le nostalgie romantiche per le conversazioni vis-à-vis auspicanti il recupero dei valori umanistici e delle attività affettive andate perdute; secondo lo studioso le strategie di rifiuto perseguite dai lavoratori industriali di un tempo potrebbero «dimostrarsi una tecnica più promettente contro i meccanismi depressivi dei social media».

Alle pratiche di rifiuto si sono aggiunte altre forme di resistenza decisamente più conflittuali: a San Francisco le guardie di sicurezza robotiche utilizzate per scacciare i senzatetto, così come in Arizona i veicoli pilotati dall’IA,  sono stati più volte aggrediti; negli ospedali i lavoratori hanno ripetutamente sabotato i robot che stavano sostituendo il personale addetto alle consegne; negli hub di Amazon i lavoratori hanno in molti casi sfogano il loro malcontento sugli aiutanti robotici e lo slogan «Siamo umani, non robot» ha accompagnato le battaglie per ottenere condizioni lavorative «più umane e meno automatizzate».

Insomma, persino «nei centri logistici di Amazon, dove capitalismo industriale e capitalismo della sorveglianza si integrano perfettamente» in efficacissimi sistemi di dominio, i lavoratori non mancano di sperimentare strategie per reagire e sovvertire il regime di sorveglianza assoluta e di controllo fisico sebbene, al momento, risulti difficile individuare in che modo si possa riguadagnare autonomia in ambito lavorativo e nella vita di tutti i giorni.  È interessante notare come il recente sciopero dei portuali statunitensi, oltre portare ad importanti aumenti salariali, faccia emergere il conflitto dei lavoratori organizzati contro l’incedere dell’intelligenza artificiale e della robotica11. In Italia si segnalano le considerazioni di Luca Toscano relative al distretto pratese che testimoniano come i processi di automazione tecnologica coesistano con le più brutali forme di sfruttamento12.

Mueller si dice convinto che «la sinistra radicale possa e debba proporre una politica decelerazionista: una politica che miri a rallentare il cambiamento, minare il progresso tecnologico e arginare la cupidigia del capitale, sviluppando e coltivando allo stesso tempo nuove forme di organizzazione e militanza. […] Lasciare che la tecnologia segua il suo corso non porterà a risultati egualitari, ma autoritari». Attenzione però, avverte lo studioso, la politica decelerazionista non ha nulla a che fare con le politiche slow tanto care agli strati agiati della popolazione che se le possono permettere; non si tratta nemmeno di dare un volto umano al capitalismo, l’ipotesi decelerazionista «non si basa su un accordo con la natura, umana o meno, ma nel riconoscere le sfide che le strategie organizzative della classe lavoratrice devono affrontare. […] Il decelerazionismo non è una ritirata verso uno stile di vita più lento, ma la manifestazione di un antagonismo nei confronti del progresso voluto dalle élite, del tutto indifferenti ai nostri interessi. È il freno d’emergenza di Walter Benjamin. È una chiave inglese negli ingranaggi».

In conclusione, l’opzione luddista, scrive Meuller, non è finalizzata ad una semplice opposizione alle nuove tecnologie, ma si configura come

un insieme di politiche concrete con un contenuto positivo. Il luddismo, ispirato com’è dalle lotte che i lavoratori combattono su luogo di lavoro enfatizza l’autonomia: la libertà di stabilire i criteri migliori per la propria attività, cosi come la possibilità di definire i propri standard, e la garanzia di continuità e di miglioramento delle condizioni lavorative. Nello specifico, per i luddisti le nuove macchine erano una minaccia immediata – il luddismo dunque implica una prospettiva critica sulla tecnologia, che presta particolare attenzione alla relazione fra tecnologia, processo lavorativo e condizioni di lavoro. In altre parole, non ritiene che la tecnologia sia neutrale, ma che sia piuttosto un terreno di scontro. Il luddismo rifiuta la produzione per la produzione: è critico nei confronti dell’“efficienza” considerata come obiettivo finale, poiché sa che ci sono altri valori in gioco. Il luddismo può essere generalizzato: non e una posizione morale individuale, ma una serie di pratiche che possono proliferare e consolidarsi attraverso l’azione collettiva. Infine, il luddismo è antagonista: si oppone ai rapporti sociali capitalistici esistenti, a cui si può porre fine solo attraverso la lotta, non attraverso fattori come le riforme statali, la crescita incrementale della sovrapproduzione, o una migliore economia pianificata.

[Tecnloluddismo 1/2]


We are not robots – serie completa


  1. Bruce Schneier, La mente dell’hacker. Trovare la falla per migliorare il sistema, Luiss Univeristy Press, Roma, 2024. 

  2. Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano 2024. 

  3. Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il Futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. 

  4. Frank Pasquale, Secret Algorithms Threaten Rule of Law, “MIT Technology Review”, June 1, 2017. 

  5. Si vedano a tal proposito: Carlo Milani, Tecnologie conviviali, elèuthera, Milano, 2022; Davide Fant, Carlo Milani, Pedagogia hacker, elèuthera, Milano, 2022. 

  6. Si veda, ad esempio, Dunia Astrologo, Andrea Surbone, Piero Terna, Il lavoro e il valore all’epoca dei robot. Intelligenza artificiale e non-occupazione, Meltemi, Milano 2019. 

  7. Brian Merchant, Why Self-Checkout Is and Has Always Been the Worst, “Gizmodo”, March 7, 2019. 

  8. Craig Lambert, Shadow Work: The Unpaid, Unseen Jobs That Fill Your Day, Counterpoint, Berkeley, CA, 2015. 

  9. Cfr. Atul Gawande, Why Doctors Hate Their Computers, “New Yorker”, November 5, 2018. 

  10. Cfr. John Banks, Sal Humphreys, The labour of user co-creators: Emergent social network markets?, in “Convergence: The International Journal of Research into New Media Technologies”, vol. 14, n. 4, 2008, pp. 401-418. 

  11. Si veda la traduzione dell’articolo di Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder pubblicato sul “Financial Time”, 8 gennaio 2025: Portuali americani: aumenti salariali e lotta contro l’automazione, in “Codice Rosso” 11 gennaio 2025. 

  12. Luca Toscano, Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti, in “Zapruder – Storie in movimento”, 2024. 

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