di Fabio Ciabatti
Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00
I movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo dei centri sociali, si configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può consentire di rintracciare una possibile genealogia della protesta populista “di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto sostiene l’autore nel suo recente libro La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003) bisogna prima di tutto capire cosa si intende con genealogia. In breve, non si tratta di una filiazione diretta, ma di
un rapporto più distante e profondo, magmatico, che avviene a livello inconsapevole sul piano dell’ideologia spontanea dei movimenti, che sedimenta un modo di intendere la politica che, alterato dalla crisi economica e finanziaria degli anni dieci del Duemila e riformulato da nuovi protagonisti (e “imprenditori”) della politica, consente di ricavare un legame di parentela.1
In secondo luogo, bisogna capire il significato di “protesta debole”. Cosa che è possibile fare paragonandola alla protesta che può essere considerata forte, cioè quella innervata nella tradizione marxista e comunista, con particolare riferimento al movimento degli anni Settanta. Raffronto che non è una mera sovrapposizione di due periodi storici differenti operata estrinsecamente dallo studioso, perché il riferimento a quegli anni è un tema ricorrente nella stessa riflessione dei movimenti successivi, sebbene tale confronto si esprima spesso attraverso una dinamica di attrazione e repulsione. Ebbene, la forte componente di identificazione ideologica, la capacità di sedimentazione organizzativa, il legame tra politica e collocazione di classe, la chiara connotazione rivoluzionaria e anticapitalista sono tutti elementi che mancano nei movimenti degli anni Novanta e dei primi Duemila e che invece troviamo negli anni Settanta, quantomeno nelle intenzioni.
A partire dalla Pantera e proseguendo nel ciclo dei centri sociali, infatti, si delinea la tendenza a una frattura con la memoria storica che però non sembra consumarsi fino in fondo. Piuttosto il risultato, in generale, è “quello di rivendicare un’autonomia delle scelte, delle pratiche, delle idee, di una nuova generazione che sente di poter camminare sulle sue gambe forte di una tradizione a cui si appartiene ma non costretta in essa”.2
Un certo grado di separazione dal passato è inevitabile, secondo Barile: “La politica in senso novecentesco non poteva sopravvivere alla fine della società organica e di massa, di cui un certo modo di fare politica era espressione”.3 La fine del fordismo classico, dell’interventismo statale in senso genericamente keynesiano e la dissoluzione dell’Unione Sovietica fanno venire meno, contemporaneamente, i riferimenti materiali e ideologici della “protesta forte”. La mobilitazione sociale, dunque, seguendo lo spirito dei tempi, si organizza attraverso reti più agili diventando più vulnerabile e, al tempo stesso, più attraente. L’indebolimento dei canali di identificazione ideologica, infatti, permette ai movimenti di connettersi ai “sentimenti del disincanto” generati negli anni Ottanta contribuendo ad un fenomeno sociale attestato dalla ricerca empirica ma ignorato dal senso comune: in Italia, come nel resto d’Europa, dopo gli anni Settanta la protesta è divenuta un fattore strutturale della società, aumentando progressivamente nel corso degli anni. A mutare sono le forme di coinvolgimento politico e i soggetti che si mobilitano, con un innalzamento dei livelli di reddito e di istruzione delle persone che prendono parte a modalità non convenzionali di attivismo.
Attivismo è un termine che, non a caso, sostituisce quello più tradizionale di militanza, sospettato di evocare una modalità del coinvolgimento politico totalizzante, impersonale, irreversibile e “sacrificale”. La parola militanza, inoltre, porta con sé una connotazione militaresca che richiama lo spauracchio della violenza politica degli anni Settanta, continuamente agitato dalle classi dirigenti e dai media mainstream. Nell’incessante evocazione di questo demone la vera posta in gioco, nota giustamente Barile, non è la violenza in quanto tale, ma la dimensione conflittuale della politica. Cioè la sua capacità di essere fino in fondo e coerentemente, da un punto teorico e pratico, antisistema e non semplicemente anti-establishment.
Questa continua pressione sui movimenti ha avuto il suo peso nella perdita di vigore della variegata modellistica marxista sostituita, spesso inconsapevolmente, da una cornice interpretativa che l’autore indica come risalente a Karl Polanyi. In sostanza, a essere oggetto di contestazione non è più il capitalismo in quanto tale, ma una sua configurazione particolare che può essere variamente identificata come neoliberismo, globalizzazione, unipolarismo ecc. In altre parole quel tipo di capitalismo che può esplicare la sua logica senza freni e contrappesi, svincolato da qualsivoglia regolazione politica e statuale.
Uno dei portati di questa situazione è il dibattersi dei movimenti tra una dimensione oggettivamente riformista e una pratica spesso radicale, come la difesa dei spazi occupati, che produce anche una sedimentazione di immaginari controculturali, espressione di settori giovanili, marginali, metropolitani, capaci di dare nuova voce a un sentire rivoluzionario o, forse, più semplicemente ribellistico. Si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che i centri sociali diventano i luoghi di produzione della musica rap e reggae.
In breve si può dire che la debolezza della protesta consente di mettere in sintonia le nuove generazioni di militanti, pardon attivisti, con un milieu, soprattutto giovanile, che non avrebbe avuto la capacità di coinvolgere riproponendo i modelli politici degli anni Settanta. D’altra parte questa stessa debolezza non consente di venire a capo di una serie di problemi che si pongono di fronte alla prassi politica e che, volendo sintetizzare all’estremo, rappresentano l’articolazione di quel dilemma tra riformismo e radicalità cui abbiamo accennato.
Cerchiamo di mettere a fuoco alcune questioni seguendo il filo cronologico dei movimenti. La occupazioni universitarie della Pantera, che durano circa due mesi all’inizio del 1990 seguendo a breve distanza l’occupazione in solitaria dell’Università di Palermo iniziata a dicembre dell’anno precedente, hanno l’innegabile pregio di mettere fine al lungo riflusso degli anni 80 e di denunciare con notevole tempismo i primi processi di privatizzazione dell’istruzione, intesa non solo come ingresso dei privati nella sua gestione ma anche come adozione di logiche privatistiche nell’amministrazione pubblica. Tuttavia la Pantera smobilita molto rapidamente dopo la fine delle occupazioni senza riuscire nel suo intento di far fuoriuscire la mobilitazione dalle sedi universitarie, dopo essersi incartata nella definizione delle procedure democratiche che dovevano presiedere all’assemblea nazionale di Firenze ma che, di fatto, consumano completamente la riunione plenaria del movimento, incapace di una qualsiasi sintesi politica.
L’energia scaturita da quella mobilitazione, però, dà nuova linfa a un processo, l’occupazione dei centri sociali, in verità già iniziato nel decennio precedente per opera, essenzialmente, dell’area dell’autonomia. Si tratta di un fenomeno politico che, in forza del suo radicamento territoriale, mostra una significativa durata e una importante capacità espansiva. Tuttavia non riesce a venire a capo della sua duplice natura, da una parte sociale con le sue istanze aggregative, ricreative, culturali e mutualistiche, dall’altra politica, con le sue ambizioni di ricostruire i legami tra i segmenti di una composizione di classe disgregata e multiforme.
Connesso a questo aspetto ce n’è un altro: l’occupazione e l’autogestione esprimono un’istanza di autodeterminazione contraria a ogni forma di delega e dunque alle modalità tradizionali, partitiche e sindacali, della politica. D’altra parte le già richiamate attività mutualistiche, che configurano in nuce una sorta di welfare dal basso in grado di sopperire al rapido deterioramento di quello statale, così come il tentativo di realizzare nell’ambito delle occupazioni attività in grado di procurare una forma di reddito, sono dinamiche che spingono alla ricerca di un riconoscimento e una collaborazione con le istituzione locali, sottraendo radicalità alle prassi e agli obiettivi politici.
Solcato da queste contraddizioni irrisolte, il variegato mondo dei centri sociali diviene una componente importante dell’ancor più multiforme movimento no global, non a caso denominato movimento dei movimenti, che vede la partecipazione, tra gli altri, del sindacalismo di base e di una parte di quello confederale e dell’associazionismo, anche di stampo cattolico. La contestazione della globalizzazione, che trova un immediato referente polemico nelle riunioni degli organismi multilaterali che la governano, lascia spazio a un’ambiguità di fondo: a essere contestata è la globalizzazione in quanto tale, intesa come ultima incarnazione in ordine di tempo del capitalismo, o solamente la globalizzazione nella sua versione neoliberista, selvaggia e non regolamentata? In altre parole il movimento è no global o piuttosto new global, perorando la causa di una globalizzazione dal basso nell’ambito di una rinnovata cittadinanza globale?
In qualche modo a Genova 2001 vengono al pettine una serie di nodi che si erano intrecciati durante tutto il decennio precedente. Un processo che era cresciuto velocemente dinamizzando la partecipazione politica si scontra frontalmente con l’apparato repressivo dello stato e non è in grado di reggere l’urto.
A quel punto, il catalogo di pratiche e di istituti fondati su tale sistema ideologico debole non sopravviverà al calo fisiologico della partecipazione. Alla rapida crescita seguirà un altrettanto veloce ripiegamento, che troverà tutta la sinistra spiazzata di fronte alla crisi economica che, a partire dal 2009, inciderà sulla materialità dei rapporti sociali anche in Italia.4
E con questo ci avviciniamo ai giorni nostri.
Il populismo – nella sua inafferrabile definizione – si presenta come il risultato ultimo della crisi dei movimenti sociali, ma anche come conseguenza di una serie di idee contenute in nuce nella protesta degli anni novanta e primi duemila.5
La contestazione della globalizzazione costituisce un immediato terreno comune tra movimento no global e populismo che si fa chiara espressione dei perdenti di processi di internazionalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. A dirla tutta l’atteggiamento del populismo configura un rifiuto più netto, laddove per il movimento dei movimenti la globalizzazione costituisce certamente un problema, ma, almeno per alcune sue componenti, anche un’opportunità. C’è anche una condivisa diffidenza nei confronti della politica e delle sue forme tradizionali, complice anche una certa fascinazione nei confronti delle tecnologie telematiche considerate come possibili strumenti per una disintermediazione della partecipazione politica. Si può inoltre registrare una condivisa connotazione anti-establishment che non si spinge fino al punto di diventare anti-sistema, non ponendosi l’obiettivo di un rovesciamento radicale dello stato di cose presenti
C’è, last but not least, un comune disancoraggio della politica rispetto alla condizione di classe e la connessa considerazione della pluralità come valore in sé. Il popolo come soggetto collettivo consente infatti di integrare nella protesta tutte le marginalità eccedenti i confini storici della classe operaia garantendole nella loro molteplicità. Dal lato del movimento no global, il soggetto collettivo viene spesso rappresentato come moltitudine, concetto molto diffuso grazie agli scritti di Hardt e Negri. Si tratta, secondo Barile, di un “camuffamento lessicale” rispetto al concetto di classe che soffre di una significativa indeterminatezza sociologica richiedendo, perciò, un’unificazione tutta politica delle molteplici soggettività. Sganciato dalla effettiva materialità dei rapporti produttivi il referente sociale si allarga a dismisura arrivando ad assomigliare a quel famoso 99% che gli Indignatos e Occupy Wall Street qualche anno dopo sosterranno di rappresentare. Un’idea che, a sua volta, per la sua eccessiva genericità, si presterà ad essere trasfigurata nell’altrettanto vago concetto popolo.
Nonostante queste significative consonanze, nota ancora l’autore,
vi è un tema decisivo che distanzia clamorosamente le due esperienze: la questione della sovranità statuale. Nella proposta populista “di destra” e “di sinistra” lo Stato è l’attore in grado di resistere ai processi di globalizzazione, l’arena entro cui riportare l’economia sotto il controllo della politica, lo spazio politico e amministrativo in grado di proteggere i cittadini dalla violenza incontrollata delle forze del libero mercato.6
Questa fondamentale distanza rende più difficile, per così dire, calcolare il grado di quella parentela tra populismo e movimenti che il testo cerca di descrivere attraverso il concetto di genealogia. Per questo può essere utile fare qualche riflessione aggiuntiva sul tema. Dal libro di Alessandro Barile emerge come nella “protesta debole” convivano in un precario equilibrio una serie di elementi che scaturiscono dal necessario tentativo di confrontarsi con un nuovo contesto. Protestare contro la globalizzazione senza scadere nel nazionalismo, criticare i meccanismi della rappresentanza politica senza senza finire nella braccia dell’antipolitica, cercare la ricomposizione di un corpo sociale frammentato senza pretendere di ridurre le molteplici soggettività a una forzosa unità: queste sono solo alcune delle questioni che sono state affrontate in maniera più o meno consapevole dalle nuove generazioni di militanti/attivisti. Contraddizioni in seno al popolo che mettono in moto la ricerca di una nuova sintesi, potremmo chiosare tra il serio e il faceto. Ogni tentativo in questo senso, però, è stato interrotto dalla sconfitta dei movimenti di quegli anni che si consuma a Genova nel 2001. E’ solo a questo punto che una nuova leva di politici può avere mano sufficientemente libera nello scegliere a proprio uso e consumo alcuni degli elementi presenti nel repertorio politico sedimentato dai movimenti degli anni precedenti. Ciò che nei movimenti era contraddittorio e per questo, in qualche misura, ancora fecondo, con il populismo diventa tristemente unilaterale.
Insomma, se di genealogia dobbiamo parlare sarebbe forse opportuno sottolineare maggiormente il momento della sconfitta come fase di passaggio dai movimenti al populismo. Non è certo la prima volta che la sconfitta di un soggetto collettivo fa da premessa al recupero di alcune delle sue istanze di liberazione nell’ambito di un progetto di nuova stabilizzazione dell’ordine capitalistico. E’ accaduto, per esempio, con il movimento del Settantasette. Quest’ultimo, giova ricordarlo, si era già contrapposto ai modelli pratici e ideali della sinistra storica, anche se, a differenza di quanto accaduto in tempi più recenti, lo aveva fatto in nome di un differente concezione di comunismo che nasceva, tra l’altro, in risposta alle prime avvisaglie di un indebolimento delle identità collettive di classe. La repressione di quel movimento, però, aveva aperto la strada ai modelli individualistici e consumistici che si sarebbero affermati definitivamente negli anni successivi riciclando surrettiziamente alcuni valori e comportamenti della gioventù rivoluzionaria del lungo Sessantotto, in particolare l’opposizione ad alcune forme di collettivismo, proprie della sinistra storica, che assumevano connotati oppressivi e omologanti. Una sorta di amara vittoria del détournement situazionista, destinata a ripetersi.7
Tornando a tempi più recenti, Barile non manca certo di menzionare l’importanza del frangente storico rappresentato dalla mattanza poliziesca del G8 di Genova nel 2001, ma forse questa vicenda avrebbe meritato maggiore attenzione. E’ singolare, notiamo di passaggio, che non venga fatta menzione dell’uccisione di Carlo Giuliani. E’ proprio attraverso i fatti di Genova, infatti, che giunge a compimento, sotto forma di un vero e proprio trauma generazionale, la messa in mora del conflitto quale forma essenziale della politica. Insieme alla crisi economica del 2008-9, che accelera fortemente il processo di impoverimento di larghi strati della popolazione, è il trauma di Genova a sgomberare la strada per l’affermazione del populismo grillino. Quest’ultimo non nasce certo per dare nuova linfa ai conflitti, oramai privi di una soggettività che ambisca a metterli in connessione nell’ambito di un progetto politico-sociale di ampio respiro, ma si propone come venditore di soluzioni di natura tecnica (se non propriamente tecnologica) offrendo un canale di sfogo a quella che veniva percepita come un’incipiente protesta a rischio di esplodere incontrollata (come ebbe a dire in un momento di rara sincerità Grillo stesso).8
Il populismo, dal punto di vista della sua tonalità emotiva, può essere considerato come una rabbiosa reazione a un soverchiante senso di impotenza. Lo stesso senso di impotenza che è all’origine del trauma del G8 di Genova. Nonostante la forte partecipazione alle proteste contro le successive guerre in Afghanistan e Iraq, la mobilitazione risulta comunque sfibrata: “il movimento entrò nel moto spontaneo pacifista e non ci fu più violenza alcuna solo paura della violenza e da allora dopo le manifestazioni si lodavano i prefetti che non cercavano lo scontro li si pensava sindaci delle città”,9 ha sintetizzato efficacemente Massimo Palma in un testo di prose poetiche. Occorre superare quella paura, che poi, come già chiarito, significa in realtà sconfiggere il timore del conflitto in quanto tale. Da questo punto di vista il populismo non fa problema perché dà espressione alla rabbia sociale, ma perché cerca di incanalarla verso soluzioni tecnocratiche e/o autoritarie che impediscono, di fatto, l’attivazione di una reale soggettività collettiva. L’unico possibilità che abbiamo per decostruire nella pratica la pseudo collettività populista è riannodare la trama dei conflitti, riallacciando i fili di una storia interrotta, ma evitando di percorrere nuovamente quelle che si sono dimostrate strade senza uscita. E sarà bene farlo in fretta perché quello stesso mondo che pretendeva di rappresentarsi come libero dai conflitti oggi è preda di spasmi bellici sempre più incontrollabili. A tal fine il testo di Barile, ragionando in modo approfondito e politicamente orientato sui punti di forza e di debolezza di movimenti che ci hanno preceduto, può sicuramente rappresentare un utile strumento.
Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, p. 8. ↩
Ivi, p. 80. ↩
Ivi. p. 16. ↩
Ivi, p. 15. ↩
Ivi, p. 132. ↩
Ivi, p. 167. ↩
Cfr. Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, recensito qui. ↩
Cfr. Giuliano Santoro, Dal Grillo qualunque al Conte dimezzato, in “Jacobin Italia”, 28 novembre 2024. ↩
Massimo Palma, Movimento e Stasi, Industria & Letteratura, 2021, p. 33. ↩