di Cesare Battisti

(racconto tratto dall’autobiografia che l’autore sta preparando)

Come la tua mano tremava mentre teneva la mia. È il buon vecchio De Gregori che sta cantando nel mio PC e mi fa pensare a tutte le mani che non ho saputo trattenere tra le mie. Mi sembra di vederle, quelle mani, tutte tese oltre il freddo delle sbarre. Fanno la fila davanti a un sogno caduco. Avevamo un sogno in comune, così ci sembrava, ma oggi si sente dire che era un’allucinazione collettiva. A me sembra strano, che ci stanno a fare quelle tutte mani là  fuori se il sogno non c’era?

È la mente che corre e si schianta, finirà  spiaccicata al muro, tra le macchie brune che raccontano un mucchio di storie, tutte maledettamente simili. Sono racconti di menti esauste, che si sono arrese al tempo e adesso non si distinguono più dall’ unto atavico che tiene in piedi questa cella. Certi pomeriggi, soprattutto quelli lunghi d’estate, suila perete affianco alla branda mi è parso di vederci anche la mia, di mente. Sembrava morta di noia e allora le ho chiesto perché era finita lì. La risposta mi parsa pasticciata, ma non importa, voievo solo fare due chiacchiere con una macchia. nuova. Alla fine la storia è sempre la stessa: sui muri di prigione s’incontra del sangue, un po’ d’amore e un sacco di bugie; anche qualche ravvedimento, ma è sospetto, e poi il sospiro finale. A questo punto mi rimetto gli auricolari per la prossima canzone, per non sentire le grida di Karim che dal fondo del corridoio chiama per l’insulina. È l’ora dell’ipoglicemia, lo lasceranno sgolare prima dell’iniezione. È sempre così, ci si fa l’abitudine.

Karim è arrivato qui piuttosto malcorcio, pieno di tagli sulle braccia e sulle gambe. Un altro tossico da parcheggiare, vanno e vengono in continuazione. Molti di loro tornano, soprattutto l’inverno, perché almeno ogni tanto qui c’è il riscaldamento che funziona. Poi c’è anche la frutta del vitto da far fermentare per farci la grappa e, soprattutto, niente fila al freddo per il metadone. Li maltrattano un po’, è vero, ma hanno visto di peggio e, sapendoli al “sicuro”, i familiari sono più tranquilli.
Quando non esplode e sfascia tutto, Karim è un tipo riservato. Gli succede di passare davanti alla mia cella, ma fino a qualche giorno fa non si voltava neanche a salutare. Non ci facevo troppo caso, tanti fanno così: io sono il “terrorista”, con la cella piena di libri e mi credono pure uno scrittore. So quello che pensano perché penso così anch’io. L’entità  del detenuto è il reato per cui è dentro: c’è il ladro, l’assassino, lo stupratore, il femminicida e il terrorista. Noi siamo misfatti che camminano, mangiano e dormono, soffrono ognuno a modo suo e gioiscono in solitario, qualche volta. Karim è grande e grosso e parla poco, ma mi sono accorto che quando passa davanti al mio cancello scopre apposta il braccio per mostrare il tatuaggio del Che. Non dovrebbe voler dire niente, ormai il barbuto lo firma anche Armani. Ma nonostante l’età  e le scottature, io non riesco a sottrarmi al fascino di una gioventù che ci credeva. C’è chi dice che non ho ancora perso il desiderio di rivoluzione.

Comunque sia, un giorno che Karim si stava tagliando con una Gillette per spruzzare di sangue l’insensibile corazza della Sicurezza, non ce l’ho fatta e mi sono avvicinato per mostrarmi solidale. L’hanno lasciato in pace e lui mi ha guardato in modo strano. Ma dopo l’iniezione e con le fasciature al braccio, è venuto da me senza dire niente. Mi ha lanciato un’occhiata di traverso, sul suo volto devastato c’era come un sorriso. Ho notato che la sola parte visibile del suo corpo senza tagli era proprio la faccia del Che. C’eravamo capiti e a lui luccicavano gli occhi. Quando il silenzio è diventato troppo rumoroso, ho sparato la domanda che avrei voluto fare prima ma non avevo osato:

«Perché tagliarsi?»
Mi ha guardato storto, poi ci ha pensato su, un lungo istante, e fa:
«Sto cercando il mare, ce l’abbiamo dentro e io ci vado a pescare, ci trovo granchi, perle e bottiglie scolate. Avresti… Tu non fumi, vero?»

Io ho smesso di fumare il secolo scoro e Karim se ne va dondolando il capo lungo il corridoio. Sembra tutto così ovvio qui dentro, la sofferenza quasi naturale. Vedo tutto il giorno persone ciondolare da un cella all’altra alla ricerca di una pastiglia forte da sniffare. La Tachipirina per tagliare altre sostanze si trova facilmente, prima di barattare la mistura per un pacchetto di tabacco, che vale pressapoco 5 pacchi di zucchero da aggiungere alla frutta fermentata da distillare per fare la grappa. Fuori la chiamano economia circolare, ma è in carcere dove non si spreca proprio niente.
Con un ergastolo da scontare, anzi due, chissà  come farò per il secondo, non mi resta molta vita da offrire alla giustizia, ma mi capita lo stesso di guardare il viavai nel corridoio e provare una gran pena per tutti gli altri. Alcuni sono molto giovani, le loro condanne irrisorie, in carcere non ci dovrebbero neppure stare, ma ho come l’impressione che non usciranno mai. Invece di pensare alle pene altrui, dovrei preoccuparmi degli affetti propri, quelli che ho lasciato fuori e che si rifiutano di credere al mio “fine pena mai”. Mi sono chiesto mille volte se anche loro fingono di crederci perché è così che bisogna fare con un padre ergastolano. E così aspetto il prossimo colloquio, la telefonata settimanale per sentire dalla loro voce che è vero, che il loro tormento è di attesa e non di disperazione. Le parole che ci diciamo sono pacche sulle spalle, un’altra spinta fino al prossimo colloquio. Me le porto tutte in cella e ci ragiono, ma mi perdo sempre tra mille sfumature. Così chiudo gli occhi e fingo di dormire: sto sognando oppure quello che sento è il ronfo della macchina che mi riporta a casa insieme a loro?

Chiudere gli occhi e non svegliarsi più è il desiderio di ogni carcerato. Ma nessuno qui lo confesserebbe, è segno d’inaccettabile debolezza, oltre ad essere una soluzione troppo comoda. Qualcuno si sentirebbe defraudato. Si sente dire alla televisione, e non solo da familiari di vittime affranti dal dolore, che i trenta anni di carcere che hanno inflitto al reo tal dei tali sono pochi per pagare il debito sociale. Ma se vivessimo secoli. come succede a certe tartarughe, trecento anni sarebbero allora sufficienti a colmare il vuoto di giustizia? Probabilmente no e così si aggiunge il vuoto al vuoto, il dolore al dolore e non ci resta più animo e né tempo per parlare al cuore. Né per un momento di grazia davanti alla finestra con le sbarre. Come faceva mia madre stanca a sera, quando alzava gli occhi al cielo quasi lo volesse benedire, in nome della vita andata e quella di ogni mattino ritrovata.

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