di Gioacchino Toni

Nuovo cinema horror (Mimesis, 2024) di Emanuele Di Nicola indaga lo stato dell’horror del nuovo millennio al fine di individuare cosa spaventi oggi e come ciò venga dato a vedere nei film. Dopo una prima parte dedicata all’analisi di singole opere, l’autore traccia alcune tendenze generali del genere occupandosi delle paure legate all’universo internet, della produzione italiana, dei film realizzati da donne, delle produzioni seriali e dell’insistito ricorso a sequel, prequel e requel.

Dopo esserci soffermati sulla panoramica proposta dall’autore sul Male nella/della Rete messo in scena dal cinema horror del nuovo millennio, vale la pena fare ancora riferimento a quanto scrive Di Nicola nel volume a proposito di alcuni film horror realizzati da registe nei primi decenni del nuovo millennio a partire da Titane (2021) di Julia Ducournau, film vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes su cui  si sofferma maggiormente l’autore.

Il film racconta la metamorfosi di una bambina, Alexia (Agathe Rousselle), che, a causa di un incidente stradale, si ritrova a dover convivere con una placca di titanio nel cranio e che, a partire da quel momento, inizia a sviluppare una morbosa attrazione per le automobili che la porta, ormai cresciuta, a fondersi sempre più con l’artificio meccanico. La metamorfosi procede per gradi: dal contatto con l’automobile cercato sin dall’uscita dall’ospedale ove le è stata impiantata la placca metallica, alle sensuali performance che compie come ballerina esibendo il suo corpo tra le lamiere di qualche auto fiammeggiante a sua volta esposta, sino all’accoppiamento sessuale vero e proprio con un’autovettura da cui uscirà ingravidata.

Se, come sostiene Di Nicola, la fusione con la macchina sembra condurre la protagonista a reagire con determinazione nei confronti di una realtà che la circonda e da cui si sente soffocata, tanto da cercare una disperata forma di riscatto attraverso una serie di efferati omicidi – in tal senso sarebbe da leggere il ricorso al brano musicale Nessuno mi può giudicare (1966) di Caterina Caselli – nella macchinizzaizone della protagonista è però possibile scorgere anche, come scrive Paolo Lago (Corpi, macchine, spettacolo da “Titane” a “Blade Runner”, 2021), la triste deriva che conduce la ragazza al farsi essa stessa macchina e merce.

Nell’analizzare Titane, riprendendo le riflessioni di Jean Baudrillard (La Société de consommation, 1970), Lago propone una lettura del film a partire dalla celebre sequenza dell’atto sessuale tra la donna e l’automobile che indica come «il fantasma irrappresentabile all’interno della società dei consumi. Esso è soltanto l’altra faccia dell’esibizione spettacolare che tanti sguardi maschili osservavano senza alcuna inibizione. Julia Ducournau è andata al di là dell’irrappresentabile mettendo di fronte ai nostri occhi le immagini di questo fantasma» Ed ancora: «nel momento dell’atto erotico con l’automobile, è come se la ragazza venisse da essa violentata […]. L’automobile assume valenze indubbiamente ‘maschili’ e i fari luminosi che, nel buio, sono puntati contro Alexia (come il ‘cliente’ di una prostituta che, dalla sua auto, vuole guardare la sua merce), sembrano un’appendice dello sguardo ossessivo lanciatole dai fan nei momenti della sua esibizione».

L’accoppiamento, secondo Lago, apparirebbe dunque come «la rappresentazione della violenza insita nelle dinamiche spettacolari che espongono il suo corpo di fronte agli sguardi pornografici dei fan».

Costretta alla fuga, Alexia decide di assumere l’identità di un bambino da tempo scomparso che si ripresenta, ormai adulto, al cospetto del padre, Vincent (Vincent Lindon), un non più giovane vigile del fuoco che tenta pateticamente di mantenere in forma artificialmente un corpo ormai inesorabilmente invecchiato. Pur consapevole di non trovarsi di fronte al proprio figlio, Vincent accetta comunque che Alexia si passi per il suo bambino ormai cresciuto mentre quest’ultima si convince di guardare all’uomo come se si trattasse del padre. Insomma, come scrive Di Nicola, «un uomo cercava un figlio e una ragazza cercava un padre, così si sono trovati» (p. 70).

Si tratta dell’incontro di due individui costretti a fare i conti con un’identità problematica; una ragazza ibridata con il metallo ed un uomo non più giovane che non accettando il proprio corpo naturale interviene su di esso per dargli sembianze iper-muscolose. Di Nicola suggerisce di guardare a Titane come ad un film che problematizza la questione identitaria e di genere.

Tornando invece alla lettura proposta da Lago, contrariamente all’idea di cyborg di Donna Haraway, il corpo di Alexia lungi dal divenire il tramite di una nuova e inedita sovversione di tipo sociale e politico: dopo l’innesto della placca metallica nel cranio, una volta divenuta adulta, la protagonista esibisce il corpo come se si trattasse di una merce in vetrina tra le altre, come le automobili. Alexia sembrerebbe agire da prigioniera dei processi di mercificazione e spettacolarizzazione. I sincopati movimenti meccanici del corpo «perduto nella coazione a ripetere i gesti spettacolari ed erotici unicamente finalizzati ad una sua ricezione pornografica e ossessiva», trasformano il corpo di Alexia in una macchina, in una marionetta della società dei consumi in balia di febbrili sguardi maschili che non fanno distinzione tra la bellezza di una donna e quella di un’automobile. «La ragazza si trasforma in macchina, in automa, in androide costretto a muoversi secondo le regole istituite dalla società dello spettacolo». Insomma, secondo questa lettura, anche le uccisioni della ragazza sembrano rispondere più a una meccanica e insensibile coazione a ripetere ben più che non ad un desiderio di riscatto.

«La ‘macchinizzazione’ del corpo», secondo Lago, la si ritrova per certi versi anche nella trasformazione di Alexia nel figlio scomparso di Vincent, che rappresenta «una ulteriore violenza quasi irrappresentabile inflitta ad un corpo», al pari delle ferite e delle escrescenze meccaniche che pian piano colonizzano il corpo della protagonista imponendogli degradazione e solitudine. «Lungi dall’assumere connotazioni sovversive e liberatorie, il suo percorso di ribellione sorto dalla dimensione spettacolare dei saloni di automobili imprigionerà sempre di più il suo corpo e la sua esistenza fino – fuor di metafora – a una meccanizzazione totale».

Tornando a Di Nicola, questi si dice convinto che l’associazione del film della Ducournau a Crash (1996) di David Cronenberg, frequentemente fatta dalla critica, sia in realtà debole; mentre nel film del canadese sono presenti le sue tipiche ossessioni per l’ibridazione del corpo, la “nuova carne” e l’ambiguità sessuale, nell’opera della regista francese si insiste piuttosto sul problema dell’identità di genere e sulla costruzione del rapporto artificiale genitore-figlio. Titane, scrive lo studioso,

si fa portatore di un orrore del corpo, dal corpo e per il corpo molto lontano da quello degli anni Ottanta, intinto di tracce profondamente contemporanee. La storia è molto diversa, così i suoi significati, parte da un’unica premessa simile – l’attrazione per la macchina – che però è un trompe-l’oeil, visto che Titane raggiunge un approdo radicalmente differente, che culmina nel momento del parto (p. 71).

Per quanto labile posa essere il legame tra le due opere, resta il fatto che anche il film della Ducournau ha un finale cronenberghiano visto che termina con un parto che conduce ad una nuova identità derivata dalla frantumazione delle precedenti e che comporta la morte della protagonista. Questa immagine conturbante, sostiene Di Nicola, racchiude tutto il valore di genere del film: la libertà di essere se stessi, di mutare e ricreare una famiglia, può concederla solo l’horror» (p. 73).

Nella sua mappatura dell’horror girato da donne, Di Nicola si sofferma su alcuni film realizzati dall’australiana Jennifer Kent, dalla britannica, naturalizzata statunitense, di origini iraniane Ana Lily Amirpour e dalla statunitense di origini giapponesi Karyn Kusama.

Nel suo The Babadook (2014) Jennifer Kent rinnova il topos del mostro che si nasconde in casa proponendo una messa in scena che rende difficile discernere tra realtà ed immaginazione della protagonista.

Ad Ana Lily Amirpour si devono diversi film: A Girl Walks Home Alone at Night (2014), opera in bianco e nero in lingua persiana che racconta di una vampira che assale gli uomini nelle strade di una immaginaria città iraniana nascosta da un chador che sembra voler collegare «l’ultra-centenaria tradizione vampiresca alla realtà iraniana di oggi» (p. 105); The Bad Batch (2016), film di ambientazione texana post-apocalittica che vede personaggi in preda alla ferocia intenti ad eliminarsi a vicenda per sopravvivere; Mona Lisa and the Blood Moon (2021), opera incentrata sui poteri soprannaturali di una giovane coreana fuggita da un istituto alle prese con la violenza dilagante statunitense; The Outside, episodio della serie televisiva The Cabinet of Curiosities (2022) creata da Guillermo Del Toro, in cui l’orrore deriva dall’uso di una crema di bellezza.

Dopo essersi fatta conoscere con Jennifer’s Body (2009), Karyn Kusama ha saputo introdurre efficacemente elementi horror nell’angosciante thriller psicologico The Invitation (2015), film costruito attorno a una riunione che si tiene sulle colline di Los Angeles a cui prendono parte ex coniugi separatisi dopo la morte del figlio insieme ai rispettivi nuovi partner ed altri vecchi conoscenti. In un crescendo di angoscia ed inquietudine, dalle conversazioni tra i partecipanti si viene a sapere di un folle programma di uccisione di massa ordito da una setta come rimedio alla sofferenza dilagante tra l’umanità.

Altre realizzazioni femminili in ambito horror segnalate dall’autore sono: There’s Something Wrong with the Children (2023) di Roxanne Benjamin; Fresh (2022) di Mimi Cave; Clock (2023) di Alexis Jacknow; Appendage (2023) di Anna Zlokovic.

Frammenti di registe dell’orrore, che naturalmente trattano i temi a loro più vicini, come il maschilismo intrinseco nella società, metaforizzato dagli uomini che mangiano le donne, ma anche il ruolo della donna ancora costretta ad avere figli per realizzarsi, o più in generale le pressioni e i cattivi pensieri, che con una trovata abbastanza geniale si materializzano in un mostro (p. 108).

A margine della rassegna di film realizzati da donne, nel volume viene citato anche L’uomo invisibile (The Invisibile Man, 2020) di Leigh Whannell che, pur essendo realizzato da un uomo, propone un’interessante rilettura in chiave femminile del romanzo di H.G. Wells a cui si sono ispirati diversi film.