di Franco Pezzini
Loredana Lipperini, Il Segno del Comando, pp. 304, € 16,90, RaiLibri, Roma 2024.
“I libri erano sempre stati la salvezza, per lui. Lo sarebbero stati anche questa volta. Doveva aver fiducia nei libri”.
Noi l’abbiamo, dunque cominciamo col considerare che esistono due approcci possibili – e anzi opportuni – a questo godibilissimo libro, che recupera liberamente la storia del più leggendario sceneggiato di mistero dell’emittente nazionale, Il segno del comando (cfr. qui): un’avventura, nell’Italia 1971, forte di una squadra meravigliosa d’interpreti e di un set fascinoso, la festa barocca di una Roma esoterica colta nel momento del botto del grande revival magico tra anni Sessanta e Settanta.
E dei due approcci, il primo e principale è senz’altro quello di un lettore che, appunto, svolge il proprio ruolo. Legge, si appassiona, si intriga, si diverte. Il libro è ovviamente – considerando la perizia narrativa dell’autrice – un’avventura avvincente, brillante, intelligente e scritta con tutte le buone pratiche di un romanzo di genere, arricchite da tocchi d’epoca (1971) godibilissimi e da ricchi cenni di occulture alla base originale: da cui si snodano, felicemente caotici, percorsi esoterici ma anche essotericissimi, di cultura pop, letteratura (tanto Byron & Co., ma non mancano richiami a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e a Proust) e storia sociale (femminismo compreso, a partire da Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi). Comprensivi, per noi lettori “datati”, di qualche zampata di malinconia: nel mondo di auto di piccola cilindrata e di telefoni fissi, nella concitazione scandita però da un cronometro d’epoca, negli scambi dove l’autrice riprende per ampia parte la sceneggiatura originale ma sovrascrivendovi con garbo notazioni ulteriori, più letteratura e più esoterismo, troviamo l’affresco di un tempo lontano, evocato quasi necromanticamente.
In alcuni aspetti Lipperini ritocca i profili dei personaggi dello sceneggiato: il protagonista ammodino Lancelot Edward Forster si trova a dover fare uso rituale di LSD, l’interlocutrice Barbara acquisisce una coscienza femminista, il vecchio e benevolo colonnello Tagliaferri diventa un tiranno che vessa la nipote, il losco principe Anchisi è un tenero vedovo, la signora Giannelli vive nell’ombra del ricordo dei genitori tragicamente perduti, il commissario Bonsanti è uno sbirro poco tranquillizzante… Vengono anche aggiunte o sviluppate alcune figure femminili in relazione a un diverso ruolo delle streghe; anzi – non sembri un dettaglio da fandom, ha un valore simbolico ben chiaro – ci si pone il problema dei cognomi delle figure femminili, nello sceneggiato liquidate coi nomi di battesimo come colf d’epoca. Così ecco Barbara Mariani, Olivia Cox… e la questione emerge anche sulla “misteriosa Lucia (Lucia come?)”. Quest’attenzione al femminismo – la civetta dello sceneggiato viene richiamata a Lilith – rileverà anche nel finale, che qui ovviamente non si spoilera.
Però c’è un secondo tipo di approccio al romanzo, non alternativo al primo e che movimenta forse un minor numero di lettori ma conduce su un terreno persino più interessante, affrontato dall’autrice con grazia sorniona. Com’è noto, la storia del Segno del comando – inteso quale sceneggiato originale – si configura come quest dai passi criptati sulle tracce di un talismano potente quanto sfuggente: un meccanismo narrativo classicissimo che, grazie alla professionalità di autori e attori, alla suggestione della Roma evocata e dello straniante incastro diacronico, all’euforia stesso per un occulto sdoganato nell’età ipermoderna dello sbarco sulla Luna, acquisiva una fascinazione magnetica. Il talismano di quell’Italietta in aria da golpe Borghese, in qualche modo, era anzitutto lo sceneggiato in sé.
Però c’è dell’altro. Composta nel 1969 da Dante Guardamagna e Flaminio Bollini, assieme a Lucio Mandarà e Giuseppe D’Agata (ma terminata, nei fatti, da quest’ultimo – qui presente in un cameo – dopo gli abbandoni dei colleghi), la sceneggiatura originale, di impianto razionalista, per esortazione di alcuni attori era stata corretta sul set dal regista Daniele D’Anza nel segno del sovrannaturale, con il risultato di felici cortocircuiti che lasciano a tutt’oggi perplesso lo spettatore. In effetti, vedendo lo sceneggiato, alcune questioni irrisolte funzionano meglio con l’ipotesi di una cospirazione ai danni del protagonista, mentre altre nel segno del sovrannaturale (o almeno di una sincronicità junghiana). La genialità del regista è stata di lasciarle convivere senza imprimere troppe “spieghe”, e capitalizzando sull’effetto allusivo. Rivisto oggi, l’insieme mantiene freschezza (anche grazie, va detto, ai magnifici attori e al sontuoso set romano).
Più tardi, nel 1987, la sceneggiatura verrà lievemente rielaborata in chiave di novelization del citato D’Agata; e poco dopo, nel 1992 (ma con riprese nel 1988), ne verrà approntato per Canale 5 anche un brutto remake – a dispetto di bravi interpreti – che assurdamente sposta il tutto a Parigi. Oggi arriva questa riscrittura colta, ricca di spunti d’epoca, a ridefinire un po’ storia e personaggi: anche perché ormai alcuni temi ormai richiedono, anche di fronte a un pubblico “ingenuo”, di essere sottolineati. Il che però torna a proporre la domanda sulla natura di un oggetto tanto cangiante. Cos’è il Segno del comando?
Potremmo rispondere “uno sceneggiato”, perché il suo successo popolare fa riferimento a quella base, ma gli sviluppi successivi (non semplici remake perché investono media diversi, e non solo in chiave di citazioni affettuose) impongono una risposta un po’ più complessa. Quella del retelling è una categoria – più o meno rassicurante o consolatoria – oggi molto praticata, ma le cui origini sono arcaicissime, ancorate alla fiaba e in fondo al mito. E proprio la magmaticità del mito, la sua ambiguità fondamentale, vede nelle variazioni più o meno marcate, fino a configurare versioni differenti, ricadute anche significative delle trasformazioni delle società di appartenenza e dei relativi impianti simbolici. Si potrebbe dunque dire che, ferma la struttura narrativa generica e molto classica di quest, quello del Segno del comando sia in fondo un mito (post)moderno, una rilettura laica – come Lipperini ben rimarca – del mito graalico. Insomma, come l’autrice sintetizza, “La storia che avete letto è simile e diversa, è fedele allo sceneggiato e insieme lo tradisce: è un romanzo gotico ed è un romanzo sugli anni Settanta, con ribelli e cospiratori, cultori dell’esoterismo vecchi e nuovi e veri e falsi, alchimisti e streghe (metaforiche e reali)”.
Al punto che definire questo romanzo come un semplice retelling finisce col risultare sminuente. Si tratta della narrazione di un mito, e narrare un mito è sempre un’operazione impegnativa, perché coinvolge chiavi importanti di una comunità nel tempo. Mi limito qui a citarne un paio.
La prima riguarda il filo nero che ricollega la vicenda alla realtà ambigua di tutta un’Italia dei misteri: un teatro dove sbatacchiano, a gambe tese come marionette di legno, le ombre di un passato oggi orgogliosamente riemerso. Il principe Anchisi – nelle varie interpretazioni, dallo sceneggiato a Lipperini – è idealmente un interlocutore dello spiacevole Junio Valerio Borghese ma anche di Evola: ha il periodare trombone, sussiegoso e allusivo di tanti corifei della TTTradizione. In questo senso il Segno del comando è il simbolo di un potere magico perduto e che forze reazionarie, di rivoluzione conservatrice, cercano di recuperare per poter riemergere dai bassifondi della storia, per sentirsi immortali e tornare dalla morte: la magia pompata di richiami allo spirito per la banale, materialissima occupazione di un potere e delle sue meschine utilità. Ovviamente gli sceneggiatori non sapevano del golpe che gli amici del principe Anchisi stavano preparando, ma il potere magico verrà recuperato in altro modo a suon di inverni del nostro scontento e di propaganda semplicistica: e ce lo troviamo davanti. Recuperato da gente meno colta del principe Anchisi, e che magari fa i balletti a qualche kermesse ove le tetre camicie scure sono state sostituite da rassicuranti maglioncini in cashmere color pastello, concedendo cittadinanze a chi non ne ha bisogno e sdegnandosi che qualcuno (come osa?) porti critiche in chiave di opposizione – ma tant’è.
Però c’è almeno un secondo elemento mitico che val la pena considerare, quello del Graal tutto laico di un rapporto col tempo legato alla nostra identità profonda. È dall’ottocento che in Occidente, sull’onda di esoterismi vari in funzione anticlericale e romantica, e in particolare del grande successo della teosofia, il tema della reincarnazione – in forme varie – trova spazio nella narrativa. Sulla fattispecie che interpella variamente religione e filosofia, e oggi sempre più diffusamente documentata sui social, non si può che rinviare a convinzioni personali, consultazioni privatissime dei registri akashici e magari ipnosi regressive: ma in chiave laica e senza funambolismi esoterici il concetto generale si presenta come un’affascinante macchina per pensare. Il fatto è che noi esseri umani siamo animali narrativi, nel senso che eventi interiori e a volte esteriori di qualche importanza riusciamo a capirli e spiegarli a volte solo in chiave di racconto: chi siamo, chi è importante per noi, chi ci sorprende ed entra nel profondo della nostra vita. Esista o meno un passato condiviso sul piano storico (chi potevamo essere?), c’è senz’altro sul piano interiore. Appartiene all’esperienza di ciascuno di noi il fatto che sedimentiamo storia e storie, amori e crisi, tra maschere e autofiction – e troviamo i nostri modelli identitari possibili non solo nel passato personale più o meno annoso, dimenticato, rimosso, ma in quello collettivo, in libri e film sui quali ci siamo formati, in fantasie, sogni, progetti condivisi. In un teatro interiore dove abbiamo già incontrato la bellissima Lucia che inseguiamo con Forster, o magari Didone o Hester Prynne a farci battere il cuore; dove abbiamo maturato convinzioni, sperimentato avventure, raggiunto consapevolezze che nella vita valesse la pena combattere non solo per noi stessi o per occupazioni miserabili di spazi. Reincarniamo situazioni, dialettiche, sentimenti, talvolta con un senso straniato di déjà-vu… La quest riguarda allora un rapporto vitale con il tempo, che indaghi e recuperi i fili di un passato per sovrascrivere un altro finale per la nostra storia, come riflette Silvia Bottani in un romanzo molto bello dell’anno passato; per salvarci la vita e riconoscerle valore, per condividere un po’ di ossigeno con altri. Allora la quest non sarà sterile e avremo forse scoperto, hai visto mai, di avere in tasca il Segno del comando.