di Roberta Cospito
La testimone – Shahed era stato visto in anteprima il 5 settembre 2024, all’interno della sezione Orizzonti Extra dell’81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, poi distribuito a novembre nelle sale, quando la celebrazione la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (il 25 novembre) ha visto il proliferare di iniziative di sensibilizzazione. In Italia, le vittime di femminicidio hanno superato il centinaio l’anno; in pratica, una donna muore – tipicamente per mano di un familiare – ogni settantadue ore.
La testimone – Shahed, film iraniano vincitore del Premio degli Spettatori nella sezione Orizzonti Extra all’81esima edizione del Mostra del cinema di Venezia, è un’opera del 2024 diretta da Nader Sayevar e co-sceneggiata dallo stesso regista insieme a Jafar Panahi, anch’egli regista e autore di lungometraggi come Taxi Teheran (2015), più volte arrestato e imprigionato in Iran per reati d’opinione, e curatore del montaggio di questa pellicola.
La storia ruota attorno a tre donne di tre diverse generazioni: Tarlan, un’insegnante in pensione con un passato da sindacalista e attivista; sua figlia adottiva Zara, che gestisce una scuola di danza, sposata con Solat un uomo d’affari i cui legami col governo hanno innalzato lo status della famiglia da “normale” ad altoborghese; Ghazal, la figlia adolescente di Zara, anch’essa appassionata di danza.
Quando Zara scompare, Tarlan ha buoni motivi per sospettare che a ucciderla sia stato proprio Solat, ma la polizia si rifiuta di indagare seriamente, minimizzando la sua testimonianza.
Fortunatamente, questo film ha trovato spazio nei circuiti internazionali confermando che le voci critiche esistono, anche se faticano a farsi sentire: La testimone – Shahed denuncia la sistematica discriminazione delle donne in Iran e la corruzione di un sistema che si inchina ai potenti mentre obbliga le donne a una vita da fantasmi, costrette e velate da leggi inique e spesso eliminate anche fisicamente, oltre che moralmente.
Le donne coraggiose danno fastidio, non solo al potere e agli uomini, ma anche alle stesse donne che non riescono a scrollarsi di dosso una sudditanza religiosa, una cultura patriarcale che le vede destinate alla cieca obbedienza all’uomo e al loro Dio: Zara, oltre a essere sistematicamente picchiata dal marito che trova offensivo e dannoso per la propria carriera lo stile di vita della moglie, che non solo va a ballare ma che lo fa senza indossare l’ḥijāb, viene criticata da una passante che la vede al volante senza il velo – una donna dev’essere seducente per il marito non per gli altri uomini – e la minaccia addirittura di denuncia, nel caso l’incontrasse nuovamente in quella condizione.
Il danzare senza velo a celare i capelli, è praticamente diventata una forma contemporanea di protesta non violenta molto diffusa sui social media, ma pericolosa; come spiegato nei titoli di coda del film, molte donne che hanno danzato a capo scoperto sono state uccise: difficile dimenticare la storia di Mahsa Amini, la ragazza assassinata in Iran nel 2022 dalle forze dell’ordine morale islamico, perché non indossava correttamente il velo.
La ribellione è possibile, ma ha un caro prezzo: Tarlan, che decide di testimoniare contro l’uomo che ha sposato la figlia adottiva e che, con tutta evidenza, è il colpevole del femminicidio, viene minacciata non solo dalle forze dell’ordine ma anche dal figlio maschio, che non riesce a capire come si possa rischiare di perdere tutto – lavoro, soldi, rispettabilità, diventando una persona “infetta” da tenere alla larga – per un ideale di giustizia. È invece commovente la solidarietà delle colleghe della madre di Zara che, pur subendo anche loro ripercussioni negative per il comportamento della donna, le dimostrano solidarietà, anche prestandole dei soldi e condividendo apertamente la battaglia.
Il film è ispirato a “Donna, vita, libertà”, un movimento nato il 16 settembre 2022, il primo guidato da donne in un paese islamico, che sfida le norme tradizionali, religiose, discriminatorie e autoritarie. Lo slogan “Donna, vita, libertà” (Jin, Jîyan, Azadî) apparteneva inizialmente al movimento di liberazione curda, ma si è diffuso nel mondo e in Iran venne usato la prima volta durante le proteste per la morte di Mahsa Amini, nel settembre 2022 e in molte m anifestazioni successive.
Il regista dice d’esser stato influenzato sia da quanto visto sui social media sia da quanto vissuto in prima persona, ma di sentirsi in colpa per non essersi esposto, non avendo mai partecipato alle proteste di piazza; da qui la decisione di realizzare un “piccolo” film che riflettesse almeno in parte quel senso di colpa e raccontasse una realtà di ribellione e protesta.
Presto, sugli schermi arriverà un altro film sull’Iran – Leggere Lolita a Teheran diretto dall’israeliano Eran Riklis – che, ripercorrendo fedelmente l’impostazione autobiografica dell’omonimo interessante soggetto letterario della scrittrice Azar Nafisi, si ambienta nei decenni successivi alla rivoluzione di Khomeini del 1979 che trasformò il paese in Repubblica islamica.
Durante la visione de La testimone – Shahed, mi è spesso venuto in mente il libro della Nafisi, specie davanti alle immagini delle donne intente a danzare – “Prima ancora di redigere una nuova costituzione o eleggere un nuovo parlamento, il regime aveva annullato la normativa corrente sull’età minima per il matrimonio. Aveva messo al bando il balletto e la danza, imponendo alle compagnie di optare per la recitazione o il canto. In seguito alle donne era stato proibito anche di cantare, perché la voce femminile veniva equiparata ai capelli: entrambi erano in grado di suscitare il desiderio sessuale, e andavano quindi tenuti nascosti” – sia di fronte a quest’ossessione del velo da dover indossare: “Con la solita calma lui tentava di spiegarmi che cosa significasse l’Islam in politica, e io reagivo con sdegno, perché era proprio l’Islam come entità politica che rifiutavo. Una volta gli raccontai di mia nonna, la musulmana più devota che avessi mai conosciuto, persino più di lui. Be’, la nonna scansava la politica come la peste. Si lamentava perché il velo, che per lei era un simbolo del suo sacro rapporto con Dio, era diventato uno strumento di potere, trasformando le donne che lo portavano in simboli politici”.
Le immagini finali del film sottolineano come la particolare caratteristica della nuova generazione iraniana sia che vuol vincere col perdono e la bellezza, e suggeriscono anche come non si debba mai più cercare vendetta perchè è il perdono l’unica via di salvezza, l’unico modo per porre fine alla violenza che ci circonda. Perdonare, tra l’altro non significa arrendersi ma continuare a lottare.