di Gioacchino Toni
David Cronenberg, Una storia di violenza, a cura di David Schwartz, traduzione di Pietro Del Vecchio, Wudz Edizioni, Arezzo-Milano, 2024, pp. 428, € 21,00
Sul finire del 2024, la giovane casa editrice Wudz, nel cui ancora ridotto catalogo non mancano proposte interessanti, ha dato alle stampe, con la traduzione di Pietro Del Vecchio, l’edizione italiana del volume David Cronenberg: Interviews (The University Press of Mississippi, 2021): una corposa raccolta, curata da David Schwartz, di interviste e conversazioni con giornalisti e studiosi rilasciate tra il 1983 e il 2015 in cui il regista canadese passa in rassegna la sua produzione ed i pensieri, le inquietudini ed i desideri che l’attraversano.
Fortunatamente all’aneddotica circa l’infanzia e l’adolescenza di Cronenberg viene riservato uno spazio limitato nelle quindici conversazioni contenute nel volume; nelle quattrocento pagine di colloqui il regista si concentra sui film realizzati fino al 2015, sul suo rapporto con la macchina da presa, sul confronto con la letteratura da cui, in diversi casi, ha derivato le sue opere cinematografiche e, soprattutto, sui processi di ibridazione biologici, meccanici e mediatici che investono l’identità ed i confini del corpo e della mente degli individui.
Vittime ed a volte cause al tempo stesso dei processi di ibridazione e degli effetti devastanti che ne derivano, i personaggi sottoposti alla mutazione nei film del regista vengono catapultati in universi oscuri estranei alle leggi che governano la realtà conosciuta. La disintegrazione dell’identità, vero e proprio filo conduttore della poetica cronenberghiana, in un mondo in continua trasformazione, viene spesso fatta derivare dalla mutazione del corpo.
Cronenberg pare cercare nella malattia, negli incidenti spesso derivati dal rapporto con la scienza e le tecnologie, nella corporeizzazione degli incubi e delle tecnologie stesse, i segni di una mutazione che si presenta anche come via di fuga da una realtà vissuta come insufficiente più ancora che opprimente.
Le ibridazioni e le mutazioni a cui si sottopongono, o sono sottoposti, di volta in volta i personaggi cronenberghiani, oscillano continuamente tra coraggiosa e necessaria, quanto pretenziosa, maldestra e inefficace, ricerca di estensione della propria identità psico-fisica ed assoggettamento a nuove forme di oppressione e dipendenza. Subite o cercate come vie di fuga, le mutazioni si rivelano insostenibili e non è infrequente che sul finale dei film i personaggi cronenberghiani palesino una vera e propria aspirazione alla morte come estrema forma di risoluzione dell’incapacità di governare le nuove identità in cui si vengono a trovare.
Nella lunga conversazione tenutasi con William Beard e Piers Handling a Toronto nel 1983, Cronenberg si sofferma sulla contrapposizione che istituisce nei suoi primi film – soprattutto in Stereo (1969), Crimes of the Future (1970), Shivers. Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975), Rabid. Sete di sangue (Rabid, 1977), Brood. La covata malefica (The Brood, 1979) e Scanners (1981) – tra la sensazione di ordine suggerito dalle asettiche geometrie dei complessi architettonici abitati dai personaggi e le angosce e le inquietudini che essi covano nel profondo.
Nel corso dell’incontro, tenutosi presso The Academy of Canadian Cinema di Toronto, il regista si sofferma, inoltre, su come in Crimes of the Future di inizio anni Settanta, ricorrendo ad una situazione distopica che vede la scomparsa delle donne, abbia voluto indagare come gli uomini «vengano a patti con la parte femminile della loro sensibilità», su come in Shivers, al pari di Rabid e Brood, abbia tentato di «mostrare ciò che non poteva essere mostrato, di dire ciò che non poteva essere detto» mettendo in scena come il caos interiore dei personaggi nasca in ambito privato, individuale, salvo poi espandersi all’esterno dei singoli individui generando, inevitabilmente, una conflittualità più estesa.
Nella conversazione con Beard e Handling, Cronenberg affronta anche Videodrome (1983) evidenziando come il reale sempre più tenda a coincidere con la percezione che si ha di esso, palesando così il suo debito nei confronti di Ballard, e come l’individuo sembri ormai aver perso il controllo della tecnologia e dei media.
Trattando di Videodrome, non poteva che emergere la questione della “nuova carne” a cui, secondo il regista, non si dovrebbe guardare riducendola a perversa macchinazione del potere, bensì come invito a prendere atto di quanto il corpo umano sia nei fatti mutato rispetto a come lo si continua ad immaginare. «Siamo fisicamente diversi dai nostri antenati, in parte a causa di ciò che introduciamo nel nostro corpo e in parte per cose come gli occhiali, la chirurgia e via dicendo». Ecco perché, secondo il regista, per ragionare sull’identità occorre innanzitutto fare i conti con il corpo.
Nel corso dell’intervista rilasciata nel 1989 a George Hickenlooper per la rivista “Cinéaste”, dopo aver spiegato come l’interesse per le energie e le angosce primordiali lo abbia inevitabilmente condotto a scegliere l’horror per la capacità del genere di «rimuovere tutto il materiale estraneo e andare dritto al nocciolo», Cronenberg torna sulla questione dell’identità che attraversa tutti i suoi film. «In cosa consiste un’identità? La personalità è in qualche modo immutabile? Esiste una forma assoluta del sé dall’inizio alla fine della vita di una persona? È un dato mentale o fisico? Se il nostro fisico cambia radicalmente e di conseguenza ci trasformiamo anche da un punto di vista mentale, siamo comunque la stessa persona? Abbiamo la sensazione di esserlo, ma è solo un’illusione?». È da tali interrogativi che deriva un film come Inseparabili (Dead Ringers, 1988).
Se nella conversazione del 1991 con Gary Indiana per la rivista “The Village Voice” il regista si sofferma su Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), argomentando il complesso rapporto con l’opera di Burroughs, nell’incontro tenuto l’anno successivo con David Breskin, poi entrato a far parte del volume curato da quest’ultimo Inner Views: Filmmakers in Conversation (Faber & Faber, 1992), dopo essere stato pubblicato in versione ridotta su “Rolling Stone”, Cronenberg sottolinea come la sua intenzione fosse quella di «mettere in discussione il libro, piuttosto che tentare di rappresentarlo».
Conversando con Breskin il regista si sofferma anche sulle critiche ricevute da critici di sinistra che lo hanno accusato di conservatorismo in quanto le trasformazioni dell’esistente nei suoi film conducono ad esiti negativi, argomentando che a suo avviso ciò che rende sovversive le sue opere è il loro suggerire altre realtà rispetto a quelle normalmente accettate, il presentare questi altri stati della mente come altrettanto reali.
Nel corso della conversazione il regista spiega anche come abbia voluto andare oltre i canoni degli “horror situazionali” tradizionali, incentrati magari su «l’uomo nel seminterrato con il coltello», preferendovi qualcosa di più complesso e torna sul fatto che molte sue opere terminano sostanzialmente con i protagonisti che desiderano porre fine alla loro esistenza in quanto «unico modo per dare un significato alla nostra morte. Perché altrimenti è completamente arbitraria. È dovuta a un piccolo malfunzionamento del corpo o a un incidente», insomma nell’aspirazione al suicidio dei protagonisti è ravvisabile un ultimo, per quanto disperato, tentativo di riconquistare il controllo su sé stessi. «In tutti i miei film c’è una qualche discussione, subliminale o diretta, sul libero arbitrio e sulla predestinazione. Che si tratti di predestinazione religiosa o genetica non ha molta importanza. È che la sensazione del libero arbitrio è così palpabile e tangibile, eppure le prove contro la sua reale esistenza sono piuttosto convincenti».
Carrie Rickey, che nell’incontro del 1993 con il regista per la rivista “Philadelphia Inquirer” definisce efficacemente le sue opere come «film di guerra in cui il territorio conteso è costituito dal corpo umano», ricostruisce insieme al regista la logica con cui è stato realizzato il film M. Butterfly (1993) riprendendo la pièce di David Henry Hwang ispirata a quello che è passato alla storia come affaire Boursicot, un caso in cui una relazione sentimentale si è trasformato in una questione di politica internazionale che ha fatto clamore a metà degli anni Ottanta. Per quanto M. Butterfly tenda ad essere considerato un film anomalo rispetto agli altri realizzati da Cronenberg, il regista dichiara che in realtà, almeno dal punto di vista tematico, è coerente con le altre sue opere in quanto anche in questo sono presenti quelli che indica come i suoi “tre grandi” interessi. «Ci sono dentro, uno, la mia teoria sul fatto che la sessualità è un’invenzione umana; due, delle persone che inventano la propria realtà, un chiaro atto di volontà immaginativa; e tre, delle persone che scrivono l’opera della loro vita».
A come il regista abbia derivato la sua personale trasposizione cinematografica del romanzo di Ballard nel film Crash (1996) è invece dedicata buona parte della conversazione tenuta nel 1997 con Gavin Smith, per la rivista “Film Comment”. «Quando ho iniziato a leggere Crash», dichiara il regista nel corso dell’incontro, «pensavo a Ballard come a uno scrittore di fantascienza e il libro possiede una sorta di tono fantascientifico. Queste persone sono diverse da noi. Forse noi siamo i loro antenati. L’elemento fantascientifico del libro, che è così difficile da definire, è proprio questo: la psicologia e forse anche la fisiologia, in qualche modo sottile, non sono ciò che consideriamo normale, e possono essere viste come il punto verso cui ci stiamo dirigendo».
A proposito delle reazioni scomposte che hanno accompagnato l’uscita del film, commenta Cronenberg: «Credo che in Crash tutti siano dei fuorilegge. Credo che quello che disturba molte persone sia ciò che succede quando un’intera società diventa fuorilegge». Tranne Veloci di mestiere (Fast Company, 1979), fino a La mosca (The Fly, 1986) tutti i film di Cronenberg, scrive Smith, «si basano essenzialmente su un vaso di Pandora alla cui rottura la ricerca scientifica e le nuove tecnologie minacciano allo stesso tempo l’ordine sociale e l’integrità fisica e psicologica dei suoi personaggi. Da Inseparabili in poi, però, si trasformano in narrazioni ermetiche e spaesate in cui i personaggi scendono all’interno della propria psiche, innescando fratture e deviazioni che rappresentano pure proiezioni della mente».
L’intervista del 1999 di Richard Porton per la rivista “Cinéaste” in occasione dell’uscita di eXistenZ (1999), permette al regista di chiarire la sua posizione nei confronti della scienza e della tecnologia. «Non sono mai stato pessimista nei confronti della tecnologia, è una percezione sbagliata. Probabilmente intercetto le paure del pubblico, ma credo di guardare la situazione in modo abbastanza distaccato, cioè neutrale. Voglio dire: facciamo cose estreme, ma siamo costretti a farle. Creare tecnologia fa parte dell’essenza dell’umanità, è uno dei principali atti creativi. Non ci siamo mai accontentati del mondo così com’è, lo abbiamo manipolato fin dall’inizio. La maggior parte della tecnologia può essere vista come un’estensione del corpo umano, in un modo o nell’altro: nel film lo mostro nel vero senso della parola attraverso i riferimenti alle bioporte. Penso che in questa tecnologia ci siano aspetti positivi ed eccitanti quanto pericolosi e negativi. È un punto di vista molto imparziale su tutta la nostra tecnologia: è qualcosa con cui abbiamo a che fare ogni giorno».
Con eXistenZ, il cui tema principale, come sostiene il regista, riguarda la creazione della realtà, Cronenberg sostiene di aver voluto mostrare come l’essere umano abbia preso il controllo della sua evoluzione naturale. «Non ci evolviamo più secondo le vecchie modalità darwiniane. Altre specie possono farlo, ma noi no. Ci siamo impadroniti del controllo della nostra evoluzione. Nessuno dei vecchi meccanismi che portavano alla sopravvivenza del più adatto è ancora in grado di funzionare. Ne abbiamo solo una vaga consapevolezza, anche se al riguardo si è scritto abbastanza. In termini di evoluzione fisica della specie, tutto è cambiato negli ultimi duecento anni, dopo la Rivoluzione industriale».
Nell’intervista rilasciata a Porton, il regista torna sui motivi per cui i suoi film sono essenzialmente incentrati sul corpo. «Per me, il dato più importante dell’esistenza umana è il corpo e più ci allontaniamo dal corpo umano, meno le cose diventano reali e dobbiamo inventarle. Forse il corpo è l’unico dato dell’esistenza umana a cui possiamo aggrapparci. Eppure il cinema sembra ignorarlo, anche se forse non è così nell’arte in generale. Pensi ad artisti performativi e a pittori insoliti e interessanti come Francis Bacon. Ma nel cinema, in un certo senso, sembra esserci ancora una sorta di fuga dal corpo».
Nel 2003, nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues, David Schwartz invita Cronenberg a parlare del film Spider (2002), trasposizione cinematografica del romanzo di Patrick McGrath incentrato su un individuo schizofrenico la cui tenue presa sulla realtà è minacciata dai ricordi frammentati di un trauma infantile, mentre A History of Violence (2005) è al centro tanto dell’intervista rilasciata dal regista a Dennis Lim per la rivista “The Village Voice”, che della conversazione tenuta nel 2006 con Nicolas Rapold per “Stop Smiling”, in cui il giornalista sostiene che a risultare inquietanti nei film del canadese «non sono le teste che esplodono o il sesso dopo un incidente stradale oppure ancora il videoregistratore infilato nello stomaco di James Woods. No, il terrore ci coglie quando ci rendiamo conto che queste cose riguardano tutti noi… il modo in cui i nostri corpi determinano le nostre identità e viceversa».
La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) è al centro dell’incontro con l’autore nell’ambito dei Museum of the Moving Image Pinewood Dialogues del 2007 organizzato da David Schwartz alla presenza di Steven Knight, l’autore del romanzo da cui il film è stato tratto. In tale occasione Cronenberg approfondisce alcuni dei temi chiave dell’opera, tra cui la rinascita e la reinvenzione.
Nel 2011 la critica cinematografica Amy Taubin, per “Film Comment”, conversa invece con il regista soprattutto a proposito di A Dangerous Method (2001), film in cui Cronenberg, concentrandosi sulla figura di Sabina Spielrein, racconta del serrato confronto tra Jung e Freud agli albori della psicoanalisi. Parlando di quest’ultimo, Cronenberg sostiene che parte del suo genio «risiedeva nel fatto di insistere sull’idea che il corpo umano non fosse separato dalla psiche, che le cose che accadono al corpo si manifestano nella mente e viceversa. Quindi la sua “terapia basata sul dialogo” non consiste soltanto nel parlare. Si rivolge anche al corpo, perché la parola è corpo. È una cosa che Freud aveva capito e che noi usiamo nel film».
L’anno successivo Taubin dialoga nuovamente con il canadese, in questo caso a proposito di Cosmopolis (2012), derivato dall’omonimo romanzo del 2003 di Don DeLillo, sottolineando come questo film, al pari di Videodrome, sia «un film sullo spirito del tempo in cui una nuova tecnologia fa nascere una “nuova carne”»; nel caso di Cosmopolis, scrive Taubin, si tratta di un mondo di cybercapitali che ci conduce nella cyberpsiche di un giovane miliardario trafficante di valute che, in preda alla noia e ad una marcata pulsione di morte, all’interno della sua limousine attraversa una Manhattan paralizzata, come lui, «mentre il suo impero finanziario crolla, forse trascinando con sé l’economia mondiale».
A concludere il volume sono il confronto per il blog inglese “4th Estate” tra la scrittrice Candice McCarty-Williams e Cronenberg circa la sua prova narrativa Divorati (Consumed, 2014) a ridosso dell’uscita in libreria – romanzo edito in Italia da Bompiani con la traduzione Carlo Prosperi –, in cui il canadese pone l’accento su come la scrittura per un romanzo risulti per lui estremamente più intima rispetto alla stesura di una sceneggiatura per un film, e l’intervista rilasciata nel 2015 a Graham Fuller per “Film Comment” incentrata sul film Maps to the Stars (2014) in cui, dietro ad una evidente critica nei confronti di Hollywood, il regista non manca di inserire un’inquietante storia di fantasmi.
Concludendo, il merito di David Schwartz è sicuramente quello di aver saputo raccogliere in questo corposo volume interviste e conversazioni contenendo l’aneddotica sull’autore e le semplici curiosità relative ai film ed alle mostruosità messe in scena in favore di considerazioni e riflessioni del regista canadese sulla sua opera e sul suo immaginario. Una storia di violenza può dirsi un libro rivolto tanto al fandom quanto agli studiosi dell’opera cronenberghiana.