di Paolo Lago
Roberto Farina con Giancarlo Peroncini, La ballata del Pelé, Milieu, Milano, 2022, pp. 167, euro 15,90.
Vale la pena parlare adesso del bel libro La ballata del Pelé, nonostante sia stato pubblicato un paio di anni fa da Milieu, anche perché recentemente è uscito l’altrettanto bel documentario dal titolo “Mavadarviailcul Marvinhagler, a giro con il Pelé”, realizzato da Luca Falorni (alias Falco Ranuli), videomaker e scrittore livornese che ha vissuto diversi anni a Milano. Protagonista indiscusso del documentario (come del libro) è il Pelé, Giancarlo Peroncini, artista e cantastorie popolare milanese, importante testimone di una Milano che non esiste più. La ballata del Pelé appare come un racconto ininterrotto, un po’ in italiano un po’ in dialetto, che il Pelé, grazie all’intermediazione di Roberto Farina, srotola ai lettori come il mago di un avanspettacolo inesorabilmente perduto. È lo stesso Pelé a spiegarci con un aneddoto il motivo del suo soprannome in una intervista a Roberto Marelli posta in appendice al suo racconto: “Il mio nome è Giancarlo Peroncini detto Pelé perché correvo forte, la storia è questa… un piccolo furtarello, il padrone mi ha visto, ha chiamato le guardie, io sono scappato! Esco dalla fabbrica, vedo tanta gente che corre e ho cominciato a correre anch’io… era la Stramilano… primo sono arrivato io, secondo il brigadiere che mi inseguiva”.
Nel racconto del Pelé rivive davanti ai nostri occhi un mondo che non esiste più: le osterie, la “ligera”, la malavita milanese (immortalata letterariamente da Danilo Montaldi nel suo Autobiografie della leggera), col suo codice d’onore, i Navigli di una volta, gli angoli di una Milano sottoproletaria e proletaria, il tutto solcato da grandi e irripetibili personaggi, veri geniacci dell’arte popolare dalle cui battute e dalle cui canzoni hanno tratto ispirazione cantori più noti della milanesità come Giorgio Gaber, Enzo Jannacci o Cochi e Renato. Secondo Primo Moroni (del quale troviamo anche un testo in appendice al libro), frequentatore di questo mondo e amico del Pelé, la ligera del dopoguerra era formata da frange di popolazione che aveva partecipato alla Liberazione e che, quando la classe borghese riprese in mano la città, rimase delusa nelle sue aspettative di una società più giusta. Si trattava di una malavita che incarnava la ribellione del popolo, poco incline a un disciplinamento borghese, non immune anche da certe connotazioni ‘romantiche’. Fatto sta che la caratteristica del malavitoso della “ligera” era quella di essere prima di tutto uno svantaggiato, un deviante, uno che rubava per fame e non per profitto, guidato da un rigoroso codice morale, disposto ad aiutare qualsiasi amico in difficoltà economiche (“Con gli anni Settanta scompariva un’epoca. La ligera era sempre andata contro al soldo, non alle persone. Tutto è cambiato il giorno in cui la gente ha cominciato a rubare per il profitto e non per il bisogno”, dice il Pelé). La violenza e l’uso delle armi arriveranno dopo, con gli anni Settanta, con l’avvento dell’eroina che cominciava ad uccidere tanti giovani.
Dopo aver letto il libro di Roberto Farina che ci trasmette il racconto del Pelé, sbiadirà sicuramente nel nostro immaginario lo stereotipo che vuole Milano esclusivamente una “capitale morale” del paese, borghese, produttiva e austera perché anche qui c’era (un po’ come nella Roma pasoliniana, e non a caso Pasolini rimase affascinato anche da questa Milano) un fitto sottobosco sottoproletario, “tutta quell’umanità cioè di persone refrattarie all’integrazione nella disciplina di fabbrica, al lavoro stabile e più in generale al perbenismo dei ceti egemoni. Un’umanità estranea ai valori dell’accumulo e del risparmio, liberale, generosa, incosciente, dissipatrice: si fa un colpo e si offre da mangiare e da bere a tutta la comitiva” (Giovanni Manzari, Tra milanesità e cultura popolare, in appendice al libro). Un universo – è bene ribadirlo – ormai completamente livellato e annientato dalla macina della produttività capitalistica: come scrive Gianni Mura in un articolo di cui leggiamo uno stralcio sempre in appendice, oggi “i milanesi affollano i Navigli di notte, fino a tardi, fra una finta osteria e un ristorante che ha esposto il menù solo in inglese, tra decine di locali che hanno trasformato i Navigli in un divertimentificio quasi obbligatorio”.
Il racconto del Pelé assume spesso tonalità poetiche e malinconiche e riesce a materializzare una Milano che assomiglia alla Parigi del realismo poetico del cinema francese: una Milano che sembra uscita da un film di Marcel Carné o da una poesia di Jacques Prévert o, ancora, dall’intreccio narrativo del film Casco d’oro (1952) di Jacques Becker, in cui una malavita ancora ottocentesca è legata ai codici d’onore; e i Navigli di cui ci parla il Pelé assomigliano al “quartiere dei lillà” dell’omonimo film di René Clair del 1957, in cui campeggia il personaggio dell’Artista, interpretato da George Brassens, un cantante, musicista e chitarrista sempre al verde, frequentatore di locali e brasserie. In questo scenario quasi teatrale sul quale si avvicendano tantissimi personaggi dall’anima plautina (che nei litigi si scambiano perennemente l’imprecazione “mavadarvialcul” che dà anche il titolo al documentario di Falorni), uno degli sfondi privilegiati è l’osteria, ma quella vera, quella di una volta. Un luogo di aggregazione e di fratellanza, una vera e propria casa in cui si staglia un’umanità marginale che, tutta insieme, costituisce un’autentica famiglia allargata. Protagonista è allora la Briosca, l’osteria del “Pinza”, alias Luciano Sada, da lui gestita dal 1968 al 1972 sul Naviglio Pavese: qui si avvicendano, nel racconto del Pelé, figure immortali (e immortalate nei bei disegni di Elfo che arricchiscono il libro) come il Wanda, un geniale cabarettista che era stato un ballerino di Wanda Osiris, il Zola, il Conte (così chiamato perché assomigliava al conte Dracula e, in un aneddoto, rincorse Mogol e Battisti fuori dall’osteria spaventandoli a morte), il Gilberto e la sua donna, la Tiziana, Didi Martinaz, grande cantante di culto della mala milanese e poi, naturalmente, lo stesso Pelé (gestore anche lui di un’altra osteria, Le Tre Fontane), che suonava uno strumento particolare da lui stesso creato, il tolón, cioè il “tollofono”, “fatto con una grossa tolla (latta), dal bordo alto un centimetro” attaccato a un manico di scopa ai cui lati era legata una corda “di quelle per stendere i panni”.
Oggi, molte delle osterie sono state demolite, buttate giù con la ruspa, oppure trasformate in locali eleganti in un processo di trasformazione e ‘normalizzazione’ della marginalità urbana iniziato probabilmente un po’ in tutta Italia negli anni Ottanta; un povero Paese devastato in nome del profitto e di ciò che viene chiamato ‘riqualificazione’ delle città, un processo imposto dal potere che non ha fatto altro che annientare la bellezza. Di questo mondo, di quest’Italia popolare sopravvissuta forse fino agli anni Settanta, il Pelé è un prezioso testimone. Leggendo questo libro che racconta la sua “ballata” come le gesta di un antico cavaliere riusciamo a scorgere la magia e la bellezza (a fianco, naturalmente, della estrema durezza che le accompagna perché non siamo certo di fronte a vite facili e comode) che emergono per pochi attimi da un mondo che molti di noi (me compreso) non hanno mai conosciuto e non potranno conoscere nella realtà. Un mondo in cui i robotici meccanismi del capitale non avevano ancora rovinato i rapporti fra le persone, in cui l’amicizia era amicizia perché, come dice il Pelé, “in inverno la brina rosicava tutti i colori e pizzicava la pelle. Milano sembrava un fantasma, ma a quel punto bastava entrare in osteria. Lì c’era da bere. Ma bere non serve, se non ci sono gli amici. Questa è una regola: per esser davvero buono il vino deve essere bevuto fra amici. Il vino bevuto con gli amici scalda più di un ciocco di legno e frega la nebbia”.