Francesco Berlingeri; Il concilio di Nicea, Eretica Edizioni, Buccino (SA) 2024; 74pp. 15€
Nello sguardo dell’adulto c’è una crepa, una fessura sottile che si snoda in profondità.
Spazio insondabile dove si agita un’epica tutta personale, un luogo popolato di fantasmi, affrescato di sogni, storie che ci raccontiamo e immagini che vorremmo tacere.
Ernst Junger, personaggio istrionico e affilato quanto deprecabile, parlava dell’animo umano come di una stratificazione geologica di tracce lasciate dalle generazioni precedenti. Nel cervello dell’individuo moderno sta, rintanato in un angolo, lo spettro dei primi uomini, impauriti predatori seminudi. Tra l’uno e l’altro si affollano figure artefici della storia e leggende fondative, narrazioni familiari che investono epiche di civiltà.
E va a finire che siamo il prodotto di un’antologia collettanea vecchia di secoli, di cui siamo coscienti solo in minima parte.
In questa convulsa genealogia Berlingeri nuota nel suo romanzo breve, dove brandelli d’autobiografia illuminano una condizione che è del tutto esistenziale.
E lo fa partendo da un pezzo d’infanzia, stazione di partenza per tutte le cazzate che faremo per sopravvivere a noi stessi nella cosiddetta età della ragione.
Che è tra i bambini che si inizia a delineare la forma della vita.
Le prove di coraggio, le sfide con sé stessi e il valore dei propri pari. Lo stare in branco, il respirarsi addosso. La sicurezza e la fuga, il sudore sulle mani dell’eccitazione, magari della paura. O di tutte e due.
La strada, la casa, il cortile, il sugo della domenica e il fumo delle sigarette che bruciava la gola quando ancora fumare in casa non era pratica disdicevole.
Impariamo ad essere noi stessi solo stando con gli altri, pure se a starci con noi stessi non lo apprendiamo mai davvero.
Tra l’avventura infantile di un parco e la malinconica accensione di una pira tradizionale, si sgrana il rosario dei racconti interiori. Si tenta la misura di ciò che era, di ciò che si è.
E non è un solo fatto di esperienze personali, ma di appartenenze che ci delineano.
Si appartiene al proprio tempo. Ne portiamo il segno come nel libro di Berlingeri si osserva la cicatrice della disgregazione di un mondo contadino, che con i suoi ultimi reperti irriducibili si aggrappa al cemento delle palazzine nuove con gli interni arredati in serie, lasciare il posto alle aspirazioni della nuova generazione e un mondo incompleto le cui comunità dovranno essere ricostruite dai piccoli randagi dell’epoca, figli di tutti in mezzo a una transizione incompleta.
La città di Foggia, con le sue strade e i suoi bar moderni che, al giro di boa degli anni ’80, tenta la sua emancipazione consumistica da una storia di contado ne è il teatro.
Una città che trasfigura liricamente in un paesaggio che non si ferma al portone di casa ma si allunga fino a sfumare il confine con la pelle. Assottiglia la distanza tra il dentro e il fuori.
Apparteniamo ai luoghi e ai corpi che ci appartengono.
È una dimensione liminale, un’osservare sul pelo dell’acqua.
Qualcuno potrebbe definirlo un posizionamento magico, ma non della magia che torna di moda come il vintage, di maghi e fattucchiere; un magico che sta nello sguardo, nella capacità di intuire qualcosa che è appena sotto il visibile delle cose.
È quella dimensione in cui ci si perde volentieri e di cui giusto lo sguardo dell’infanzia può rendere pienamente conto.
Bambini lo siamo stati tutti.
Chi più chi meno, molti di noi lo sono rimasti in strane fogge.
Ma a quello torniamo ciclicamente, costantemente. Pena il sentirci appassire altrimenti.
A otto anni basta un ramo o una spada di plastica per essere un cavaliere templare. Una dozzina d’anni dopo questo potere non c’è più. Ma quel bambino di otto anni che veste i panni del monaco guerriero torna sempre, nascosto, a respirare nell’elettricità di una piazza in tumulto o nel caos di un abitacolo stipato di corpi.
E a quello si rimane in fondo fedeli. Anche se ciò che rimane non pareggia mai i conti di quanto è andato perso.