di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Attraverso Il golem (I)
La luce della luna batte sul fondo del mio letto e vi posa come una grossa, piatta pietra luminosa.
Quando la luna piena prende a raggrinzirsi e il suo lato destro comincia a sfaldarsi, come una faccia che va incontro alla vecchiaia da prima smagrisce e si solca di rughe su una sola guancia, verso quell’ora della notte s’impossessa di me un’inquietudine torbida, tormentosa.
Non dormo e non veglio, e nel dormiveglia si vengon mescolando nella mia anima cose vissute con cose lette e udite, al modo che correnti varie per colore e trasparenza confluiscono insieme.
Inizia così Il Golem (trad. di Carlo Mainoldi, Bompiani 1977), avventura narrata come nel dormiveglia, a render vane le pretese di credibilità dell’una o dell’altra asserzione di un narrante più o meno inaffidabile. Dove l’immagine della pietra offre similitudine per lo scorcio illuminato dalla luna, ed è insieme eco di una lettura della sera dalla vita di Buddha (la roccia con l’aspetto di un pezzo di grasso, abbandonato da una cornacchia accortasi dell’errore: “così […] lasciamo l’asceta Gotama, poiché non sappiamo più godere di lui”). E quell’immagine cresciuta mostruosamente nel cervello fino a riempirne il dormiveglia – traghetta fino alla coscienza che il corpo
giace addormentato nel letto e i miei sensi sono sciolti e non più legati al mio corpo.
Chi è adesso “io”, questo vorrei chiedere a un tratto; poi mi prende la paura che la stolida voce si ridesti di nuovo e di nuovo cominci l’interrogatorio senza fine sulla pietra.
E do un altro corso ai miei pensieri.
Tutto avviene a Praga – práh, etimologicamente “soglia” o “guado”, con tutta la nebulosa di simboli sull’idea di passaggio – nel cui vecchio ghetto il Nostro si ritrova: vediamo con la bottega di un rigattiere ebreo, il turpe Aaron Wassertrum, e la scala verso casa occupata dal voluttuoso ingombro della procace Rosina, imparentata col rigattiere. Un mezzo piano più in basso, in quel brulicare di locali tra scale e anditi vari, è appostato Loisa, che freme per il corpo di Rosina e teme solo che il narrante le apra la porta – lui e il gemello sordo Jaromir sono coetanei di lei ed entrambi vogliosi, ma Loisa ha la meglio rispetto al fratello cui riserva crudeli malignità. Chiaro che in questo ambiente depresso – una Praga nera contrapposta all’absburgica Praga d’oro – il narrante non riesca a trovare la concentrazione per il suo delicato lavoro di restauratore. Vero, giungono anche risa allegre: un giovane signore distinto (il dottor Savioli, scopriremo) ha preso in affitto un laboratorio dal vecchio burattinaio Zwakh… ma a un tratto una donna irrompe mezza nuda e scarmigliata nella stanza del narrante chiedendo che la nasconda (al cattivo Wassertrum, naturalmente). Così il narrante scopre di aver nome Athanasius Pernath: o meglio, quel nome è riportato nel cappello scambiato per errore, e che sembra aver innescato un curioso scambio d’identità. Identità, sogno, fissazioni patologiche, pulsioni sessuali: siamo, a tutti gli effetti, in un contesto modernista.
L’origine del complesso del Golem come Doppelgänger dell’eroe e anima collettiva del ghetto risiede dunque nel sogno dello scrittore provocato da uno scambio di cappelli, che a sua volta rappresenta lo sdoppiamento dell’io narrante su tre piani di realtà: la realtà fittizia della cornice, la realtà del sogno del racconto e la realtà del sogno nel sogno, ossia delle visioni dello schizofrenico protagonista nella trama. La conoscenza della propria identità può avvenire soltanto in uno stato di semisogno intermedio tra veglia e sonno profondo, ossia in uno spazio di meditazione in cui il sogno è rivelatore dell’aldilà e assume caratteristiche più vere della stessa realtà. Non è un caso che il primo capitolo, il piano della cosiddetta realtà, sia intitolato Schlaf [“Sonno”], mentre il secondo capitolo, che introduce il lettore in una dimensione onirica, Tag [“Giorno”]. La duplicità dei piani narrativi prosegue fino alla fine del romanzo e legittima lo sconcerto dell’io narrante, che spesso si domanda se ciò che ha vissuto sia sogno o realtà [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, “Studia austriaca” XX (2012), 33-53]
Ma è allora che il narrante riceve una misteriosa visita, un tipo che si comporta come a casa propria e apre davanti a Pernath un libro dalla copertina di metallo incastonato con colore e pietre. Poi addita un capitolo, Ibbur (più precisamente Jbbur), “la fecondazione dell’anima” e lo incarica di restaurarne la grande iniziale I (o J) in rosso e oro: Pernath inizia a guardare, poi a leggere e le parole gli volteggiano davanti “come schiave dalle vesti variopinte […]. Sperava ognuna per un attimo che avrei scelto lei” e a un certo punto gli trascinano davanti una figura vagamente felliniana (le ragioni del sogno, ancora),
una donna tutta ignuda, dalle proporzioni gigantesche di un colosso di bronzo […] Il polso le batteva con palpiti tellurici, ed io sentii che la vita di tutto un mondo era in lei.
Di lontano si veniva appressando un corteo di coribanti.
Un uomo e una donna si avvinghiarono. Li vidi arrivar di lontano, sempre più vicini echeggiavano gli schiamazzi della processione.
Di quegli esseri in estasi udivo ora il canto fragoroso, e i miei occhi cercarono la coppia allacciata..
Ma la vidi ormai trasfigurata in una figura unica, metà uomo, metà donna: l’Ermafrodito era assiso su un trono di madreperla.
La visione prosegue, come onirica o lisergica, fino alla percezione che il libro gli parli, con “una voce che da me voleva qualcosa, che non comprendevo, per quanti sforzi facessi”:
non un libro ero venuto sfogliando, ma il mio stesso cervello.
Tutto ciò che la voce mi aveva detto io l’avevo portato dentro di me, nascosto e obliato, celato sino ad oggi alla mia mente.
Perché la crisi dell’io che reca da un lato lo sgomento di una perdita d’identità, dall’altro reca l’emergere straniante di un altro io, l’inconscio, insieme ritorno del rimosso e Perturbante presago di morte.
Uno straniamento che in fondo vale per la genesi stessa del romanzo, la cui revisione finale disorienta l’autore. Si rivolge dunque per aiuto all’amico Felix Noeggerath (1885-1960, filosofo e mitologo, ammirato da Benjamin come “genio universale”) per chiedere aiuto, e ne riceve un prezioso input: l’amico delinea una sorta di mappa stellare, con un punto per ogni personaggio del Golem e linee di collegamento con gli altri. Dei personaggi irrilevanti per il percorso e il significato del libro l’amico raccomanda l’eliminazione. Salta fuori così che l’elenco contiene ben 120 nomi, 90 dei quali completamente inutili. A rimuoverli, il quadro confuso diventa a Gustav chiarissimo. A questa struttura di punti e linee dovremo tornare.
Ma ora l’uomo che ha portato a Pernath il libro è sparito: tornerà a prenderlo dopo il lavoro? Ha lasciato il proprio indirizzo? Quali erano i suoi tratti? Di lui Pernath non ricorda nulla. Allora fa un tentativo interessante e surreale: si veste, esce di casa e rientra cercando di ripetere andatura e gesti dello sconosciuto. E inaspettatamente la mimesi funziona quasi a fissare una possessione, riesce a imitare il movimento dell’uomo e il viso cambia – “una faccia estranea, senza barba, con zigomi sporgenti, e guardavo con occhi obliqui” (inevitabile pensare allo straordinario golem interpretato da Paul Wegener in più pellicole espressioniste). E torniamo all’idea, già presente nella faccenda dello scambio di cappelli, che un indossare i panni altrui permetta – come una maschera nel pensiero antico – più che una mimesi, una vera identificazione, che gli reca persino momenti di angoscia. Di nuovo l’identità, il Doppio, il gioco “io è l’altro”… Poi però “le dita dello spettro” smettono di palpargli il cervello. Dell’interlocutore ha capito comunque
che lui è come in negativo, un’invisibile figura cava, di cui non so cogliere i lineamenti, ma nella quale è forza ch’io entri se voglio aver coscienza della sua figura e della sua espressione dentro di me.
[…]
La voce che s’aggira nelle tenebre per tormentarmi con la storia della pietra grassa mi è passata accanto e non mi ha veduto. E io so che viene dal regno del sonno. Ma quel che ho vissuto era la vita reale, era realtà, per questo non le è riuscito di vedermi e mi ha appostato invano, lo sento con certezza.
E questo lui – ipotizzerà tra poco l’amico Zwakh –, questa “invisibile figura cava” è probabilmente il golem.
Nel capitolo successivo la scena si apre, da titolo, su Praga, sulle sue vie dalle case incombenti e misteriosamente frementi e su tutto un mondo di abitanti – “come fantasmi, come esseri – non nati da madri – che in quel che pensano e fanno sembrano consistere di tanti pezzi messi insieme a casaccio” come appunto il golem della leggenda. Sarebbe affascinante scoprire quale selva di personaggi – una novantina, raccontava – l’autore abbia defalcato, ma i rimasti sono figure di grosso impatto: lo studente Innozenz Charousek che sembra leggergli nel pensiero, il ributtante Wassertrum e il defunto, potente e predatorio figlio dottor Wassory, il dottor Savioli che è stato uno strumento dell’oscuro Charousek per far cadere Wassory e spingerlo al suicidio… Più avanti facciamo la conoscenza degli altri deliziosi amici di Pernath: non solo il burattinaio Zwakh, ma il musicista Josua Prokop e il pittore Vrieslander, che sagomando un burattino si intrattengono a parlare del golem – una sorta di ebreo errante psichico, proiezione di paure e angosce represse di quegli immiseriti abitanti del ghetto che come lui crollerebbero (viene da pensare) quali fantocci inanimati al cancellare dalla loro mente i rituali della tradizione ebraica – e di lanterne magiche: come quella con cui forse il sapiente rabbino animatore dell’uomo artificiale ha evocato per l’imperatore Rodolfo le ombre dei trapassati.
La necromanzia riletta insomma in chiave di protocinema: una provocazione interessante dell’autore, che demisticizza in modo provocatorio un romanzo in ipotesi tanto esoterico (al punto che, funzionalmente, Meyrink stesso, animatore del Golem in quanto romanzo, si fa Doppio di quel Rabbi Löw che avrebbe fatto sollevare l’uomo d’argilla).
Così come proprio l’approccio suggerito da Felix Noeggerath all’autore, una struttura di punti e linee funzionale a portare ordine nel viluppo della storia, solo accidentalmente potrebbe evocare a livello di struttura visiva l’intreccio grafico, geometrico, dell’Albero della Vita cabalistico, l’Etz haHa’yim. È possibile che Meyrink, che collega/oppone i personaggi a coppie polari, triangoli e quadrati simbolici, sia stato colpito dalla suggestione, ed è pur vero che la storia del Golem potrebbe in quella struttura mistica ravvisare un efficace affresco generale: ma pretendere di spiegare i singoli nodi del romanzo in stretto rapporto ai gangli dell’Albero, a evocare una presunta verità criptata per sussiegosi iniziati, sarebbe davvero troppo.
Certo la vicenda muove attraverso un complesso reticolo di relazioni geometriche: quasi a evocare (di nuovo una suggestione, non un feticcio esoterico) le sfaccettature prismatiche di quelle pietre preziose che Pernath per professione intaglia, e che richiamano a un ricco simbolismo mistico-religioso. Se il sensibile Pernath è al centro della storia, i personaggi principali si combinano con lui e tra loro in ideali coppie di opposizione polare, triangoli e quadrati simbolici. A partire dai legami con Rosina, calamita nel ghetto degli istinti sessuali più torridi e bassi, e che trova in altre due figure della zona, i gemelli Loisa e Jaromir, referenti ideali (triangolo della miseria); con l’amico Zwakh, latore perplesso di storie su Praga, vertice di un ulteriore, impagabile trigono coi due compari, il musicista Prokop e il pittore Vrieslander, complici in vivaci serate all’osteria (triangolo degli amici) – e proprio il tema dei burattini che Zwakh porta in scena finisce con l’alludere a una dimensione più profonda e diffusa nel romanzo; con l’alleato Charousek, lo studente tisico legato al rigattiere da un torbido nesso di sangue e nondimeno votato a essere sua nemesi (triangolo del confronto col Male). Astuto e machiavellicamente rassicurante coi buoni quanto terribile con i cattivi (con Wassertrum e il suo losco figlio dottor Wassory forma un ideale triangolo dell’odio), Charousek si contrappone polarmente a Wassertrum nel segno della tragedia.
E questi sono solo alcuni dei triangoli ravvisabili nel Golem, altri li troveremo via via. Al netto della relativa interpretazione cabalistica, semmai più interessante un altro distinguo strutturale, quello da qualcuno proposto tra i tre stadi di maturazione di Pernath: si potrebbe cioè raccogliere i personaggi (compresi quelli disincarnati) in tre sfere, materiale, immateriale e spirituale. Ma va pur detto che tutti i personaggi sono in fondo funzioni di Pernath, e particolarmente Charousek e Laponder, a loro volta doppi del protagonista a diversi strati di coscienza.
Però tutto torna, non solo il golem: Rosina ripropone “sempre lo stesso viso” della madre e della nonna, e lo stesso nome: “l’una è ogni volta la resurrezione delle altre”, anche nelle abitudini di vita. Gli amici sospettano che Pernath (che credono sia addormentato) si sia sognato tutta la storia del libro Ibbur: in fondo, poveretto, è stato in manicomio… e si sforzano di non richiamargli dolorose memorie connesse alla sua follia. Il problema è che non stava dormendo, e ha sentito tutto. Come nel ghetto esiste “una stanza, uno spazio di cui nessuno riesce a trovare l’entrata – un essere umbratile che vi abita e solo qualche volta si aggira a tentoni per i vicoli, a suscitare l’orrore e il raccapriccio tra la gente”, così è la finestra della sua anima, chiusa come da inferriate. Al punto che Pernath si sente diventato il burattino che Vrieslander stava sagomando – ed è riuscito curiosamente simile alla maschera del golem – per essere poi lanciato con noncuranza giù nel vicolo.
Gli amici portano il Nostro al Loisitschek dove ascoltano musica e antiche storie, come quelle sul “battaglione” del giurista infelice e pietoso dottor Hulbert, frequentatore di quel locale dopo l’esplosione della sua vita privata, e consulente dei poveracci sul filo della malavita (“mendicanti e vagabondi, ruffiani e prostitute, ubriaconi e cenciaioli”) contro le oppressioni di polizia. Il “battaglione” ha una cassa comune e propri riti; e quando Hulbert viene trovato morto su una panchina, i membri si dissanguano per organizzargli un funerale solenne. In suo ricordo, a mezzogiorno, ogni membro del “battaglione” riceve nel locale una minestra gratis. Si è osservato un certo dickensismo del mondo criminale del Golem, frutto dell’influenza del maestro inglese di cui ha tradotto vari romanzi, ma anche in fondo, della repulsione di Meyrink per divise e poliziottismi.
Però arriva la polizia, che contesta danze abusive e la chiusura del locale. La presenza sul posto di un principe indurrà l’arrogante commissario a rimangiarsi le minacce: ma lasciato il gran sabba di Loisitschek con Rosina ubriaca, Pernath ha un cedimento psichico, e gli amici lo affidano alle buone mani dell’archivista Hillel, “è pratico di queste cose”. L’incontro per Pernath si dimostra prezioso, e l’interpretazione offerta da Hillel sull’apparizione del tipo col libro (“il risveglio del trapassato ad opera della vita spirituale”, del resto “Tutto ciò che è divenuto forma, prima era uno spettro”) prelude alla rivelazione che leggendo il libro la sua “anima è stata fecondata dallo spirito della vita”. Se finora ha percorso una via seguendo la propria libera volontà, ora viene chiamato da se stesso: e con la sapienza, a poco a poco, “torna anche la memoria. Poiché sapienza e memoria sono la stessa cosa”. Tranquillizzato da Hillel, Pernath resta “in uno strano stato intermedio, che non era sogno né veglia né sonno”: e nella lucidità raggiunta, ha l’euforia di riuscire a cogliere una serie di soluzioni a problemi che s’era posto. Non riesce però a tornare ai ricordi del proprio passato oltre l’immagine di un portone ad arco, e al nuovo passaggio della mano di Hillel sui suoi occhi si assopisce profondamente.
La storia prosegue con la lettera e l’appuntamento offerto da una misteriosa “signora che lei conosce”, a suo tempo allieva di suo padre, e la sorpresa che si rivolga a lui. Si incontrano alla cattedrale, riconosce la donna che aveva cercato ospitalità da lui, mezza nuda, contro la malignità di Wassertrum. Questi ora la minaccia: Savioli, il suo amante, è malato e non può difenderla. Lei chiede dunque a Pernath di trattare con Wassertrum e consegnargli gioielli per rabbonirlo, evitando che scoppi uno scandalo che, in ragione del suo matrimonio, le farebbe portar via la figlia. Se si è rivolta a Pernath, è stato in grazia di due parole da lui spiccicatele tanti anni prima: e all’improvviso il Nostro ricorda. “[…] un amore troppo sconvolgente per il mio cuore aveva roso, roso per anni il mio pensiero, e la notte della follia era venuta a stendersi come un balsamo sul mio spirito ferito”. Intanto un avviso murale sulla sparizione di un anziano signore viene affisso in città.
Indeciso su come salvare la dama – si chiama Angelina – e deciso a non infastidire una “figura così gigantesca” come Hillel con simili vicende mondane, quella notte Pernath sente qualcuno che armeggia nelle stanze di Savioli e della dama: vi si reca, fa scattare il chiavistello e trova Charousek che armeggia intento alle proprie indagini contro Wassertrum. Ecco, come suggeritogli da una sorta di visione alla cattedrale, colui che può essere suo alleato: e in effetti lo studente gli affida della corrispondenza delicata trovata nell’alloggio. Pernath è perplesso dell’odio che anima Charousek contro il rigattiere; ma soprattutto è perplesso delle strane forze che sembrano ora dominare la sua vita.
Fa un effetto così singolare quando degli oggetti che di solito giacciono immobili prendono a un tratto a svolazzare intorno. […] Un nero sospetto mi sorse allora; non poteva essere che anche noi mortali si sia come quei fogli di carta? Forse che un invisibile, inafferrabile ‘vento’ non spinge anche noi di qua e di là e fa che le nostre azioni sian quelle che sono e non altre, mentre noi, ingenui, crediamo di disporre di un tutto nostro libero arbitrio?
Torna dunque all’atelier di Savioli e spinto dalla curiosità scende giù da una botola che vi si apre: nel buio raggiunge un camminamento sotterraneo che probabilmente (riflette), come tanti altri nel ghetto, conduce al fiume. Procede con prudenza, per non compromettere con un improvvido incidente il caso della dama che a lui si è affidata; e finalmente trova i resti di una scala a chiocciola. La risale e si imbatte in una botola di legno a forma di stella, emergendo in una stanza piccola e semivuota. Non sembrano esserci porte, ma c’è una fitta inferriata alla finestra, da dove s’intravede una via del quartiere ebraico. Alcuni vecchi vestiti e un mazzo di Tarocchi – riconosce il Bagatto – giacciono nella polvere di una stanza evidentemente abbandonata da decenni, e oltretutto gelida. Questa stanza senza porta – per occhieggiare la quale dalla finestra un tipo appeso a una fune sarebbe un giorno precipitato, morendo – è in fondo la mente stessa di Pernath, trattata (vedremo) da un medico con ipnosi a bloccare il motivo del dolore e dunque “murata”, gelida e coperta della polvere del tempo. Non è un caso che lì il golem, ombra del rimosso, vada a sparire.
Ma sempre per responsabilità verso la dama e le sue lettere, reagisce alla possibilità di morire di freddo lì: prende a gridare “Aiuto!” dalla finestra e indossa quegli abiti strani, sdruciti e fuori moda. E mentre sta pensando a come farsi soccorrere al mattino dai passanti realizza che quella è la stanza senza accesso “nel vicolo della Vecchia Scuola, che tutti evitavano!”, perché appunto vi scomparirebbe lo spettro del golem. E intanto la carta del Bagatto, illuminata dalla luce lunare, sembra riflettere il suo proprio volto e lascia emergere in lui antichi ricordi sui giorni di scuola – ma quando sentendo rumori in strada, si affaccia alla finestra con le inferriate, la gente atterrita lo scambia per il golem, nell’ennesimo gioco di rimescolamento identitario. Il romanzo di Meyrink è in effetti una delle grandi narrazioni classiche sul Doppio, tema battutissimo nella letteratura fantastica dell’Ottocento e ancora nel secolo dopo: dove il riferimento è al Doppio di Pernath, un narrante in travaglio identitario, e insieme alle maschere cangianti di quel golem che pure è un Doppio, un sosia e si rifrange illusionisticamente di continuo.
Per gli scrittori tedeschi di Praga, la capitale della Boemia austroungarica è un ossimoro che sintetizza due sentimenti dissonanti: la nostalgia di un passato aureo di crogiolo di popoli, lingue e religioni diverse (ceca, ebraica, tedesca, austriaca) e il rancore nutrito per i disordini causati dal violento antisemitismo del nazionalismo slavo. Come tutta la letteratura dell’orrore, il romanzo meyrinkiano diviene un’immagine speculare inversa della realtà storica, poiché mitizza la situazione di precarietà esistenziale nella dimensione dell’onirico, del patologico e del fantastico, in cui rifugiarsi dalle tensioni politiche e sociali. […] Nei primi anni del Novecento, la cultura mitteleuropea è teatro di una dissoluzione spirituale in cui l’io, lungi dall’essere simbolo di una visione del mondo panottica e antropocentrica, si scompone in una miriade di frammenti. Le ricerche scientifiche di Sigmund Freud, Jean Martin Charcot, Joseph Breuer e Ernst Mach testimoniano il vivo interesse per l’«uomo psicologico», antitetico all’«uomo razionale» della tradizione liberale in quanto creatura dotata di istinti e pervasa di emozioni, nonché aggregato di relazioni psichiche, scomponibile in unità minime di significazione. All’«insalvabilità dell’io», generata dall’assenza di un principium individuationis che riconduca la molteplicità del reale a un Tutto organico e conchiuso, si contrappongono, su un piano letterario, i frammenti di un’esperienza vissuta col cuore, che racchiudono un elevato potenziale di significazione, poiché cristallizzano in istanti di comunione mistica l’inarrestabile fluire delle cose. È soltanto in attimi epifanici, non volontariamente evoca-ti ma scaturiti da un inspiegabile processo di selezione fra le cose e gli e-venti del mondo, che l’io riconquista la «facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento» [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, cit.]
Certo discutibile – o almeno da intendere – è la definizione de Il golem come racconto dell’orrore (vediamo le reazioni della gente, vedremo l’incubo dello spettro acefalo). Sicuramente si tratta di una storia inquietante nel segno del Perturbante, ma la natura del riconoscibile non riconosciuto va a braccetto con un rimosso che ha caratteri personali (il passato di Pernath) e comunitari (la memoria culturale del ghetto), dunque di strazio e di spaesamento più che di paura in senso proprio o di orrore nell’accezione classica.
“Dovevo forse aspettare lì per ore o sino al giorno dopo che arrivassero dei poliziotti – questi furfanti di Stato, come li chiamava Zwackh”: e ci rendiamo conto che l’autore è sempre quello dei racconti, ostile alle divise e ai poteri costituiti che spadroneggiano.
Ma a quel punto, con i barbagli fiochi della luce del giorno, si arrischia a rifare la strada dalla botola e si ritrova nella scuola dei suoi ricordi. Prima di tornare a casa, involontariamente spaventa per strada un anziano passante e vari altri, tutti convinti di trovarsi davanti al golem. Allora, infilatosi in un portone, si strappa quei cenci di dosso e un attimo dopo una folla armata di bastoni lo oltrepassa urlando alla ricerca del mostro.
Pernath cerca invano Hillel, e parla con Mirjam, vagheggiando di scolpirne il ritratto su una gemma. Poi però sta per nascondere meglio le lettere della dama, una foto scivola fuori e gli occhi gli cadono sul nome di lei in una dedica, Angelina – e a quel punto “la cortina che mi velava gli anni della giovinezza si lacerò di colpo interamente”. La memoria torna a strappi, illumina passaggi prima non riconosciuti come in una seduta psicanalitica: Athanasius Pernath è il fratello più malinconico di Zeno Cosini, e la scoperta schiude un dolore che gli fa rimpiangere la “morte apparente di prima”. Ma a furia di fissare la foto, a poco a poco riesce a dominarne l’influsso.
Torniamo alle relazioni triadiche. Due insomma sono le donne da cui Pernath si trova attratto (triangolo dell’amore), cioè la sofisticata Angelina e la mistica, angelica Mirjam: la messa a fuoco da parte di Athanasius della profondità dei sentimenti per Mirjam procederà con il suo progresso interiore, ma lo sviluppo sentimentale apparentemente scontato viene gestito da Meyrink con delicatezza e sobrietà. D’altra parte Angelina e Mirjam costituiscono a loro volta una seconda struttura triadica (triangolo delle donne) insieme alla volgare e procace Rosina, a cui Pernath finirà più avanti col concedersi.
Pernath frequenta Mirjam ma anche il padre di lei, il santo e carismatico cabalista Schemajah Hillel, la cui azione di taumaturgo dell’anima permetterà al Nostro di avanzare nel proprio peculiare cammino iniziatico liberandosi da ombre e paure (triangolo delle relazioni di salvezza). Contrapposto polarmente a Hillel e punto di riferimento del Male con cui Pernath deve fare i conti (triangolo delle direzioni esistenziali) è invece il sordido Wassertrum, che pare incarnare fisicamente lo stereotipo del “cattivo giudeo” alla Werner Krauss, ma con uno spessore tragico e tormentato tale – vedremo – da far sovrabbondare il pathos sull’antipatia.
È Wassertrum a voler perdere Angelina, scatenando il meccanismo drammatico della vicenda: e un’altra relazione triadica lega Pernath e Angelina all’amante di lei, il dottor Savioli (triangolo degli amanti), affittuario come il protagonista di una stanza dall’anziano burattinaio Zwakh (triangolo della casa, cioè lo spazio dove si consumano da un lato il feuilleton dello scandalo da sventare, e dall’altro le visitazioni pneumatiche ad Athanasius).
Pernath resta però deluso quando Hillel torna a dargli del lei, dopo la confidenza vibrante dei loro primi scambi. Il fatto è che c’è anche Zwakh, stanno succedendo delle cose; è riapparso il golem, e anche stavolta tutto è iniziato con un assassinio, quello del grosso Zottmann, direttore dell’omonima Società di assicurazione; Rosina è scomparsa e Loisa è stato arrestato. Il sorriso di Hillel svela che non crede alla storia del golem, e neanche al legame con gli omicidi: “Quando spira il vento australe, qualcosa si sommuove alle radici. In quelle dolci come in quelle velenose”. Poi, a Zwakh che l’ha definito rabbino, Hillel offre una risposta interessante: “Io non sono ‘rabbino’, anche se potrei portare questo titolo. Sono soltanto un misero archivista al municipio ebraico e tengo il registro dei vivi e dei morti” (corsivo mio). Un ruolo, insomma, che la dice lunga, considerando che anche il golem – di volta in volta inteso come io vissuto e io vivente – intreccia queste dimensioni.
A quel punto Zwakh gli pone qualche domanda sul pensiero cabalistico e in particolare il Sohar. Libro dello Splendore, che – commenta – è troppo poco a disposizione della gente “comune”. Puntualizzando che contiene “solo alcune chiavi”, Hillel spiega però che occorre concentrare tutti i propri desideri se proprio si aspira a una simile meta di sapienza; e a Pernath che riflette che dovrebbe esserci “un libro contenente tutte le chiavi degli enigmi dell’aldilà, e non soltanto alcune” risponde con un sorriso:
Ogni domanda che un uomo possa fare ha già la sua risposta nell’istante medesimo in cui l’abbia posta al suo spirito. […] L’intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme, che hanno in sé il germe della risposta – e di risposte gravide di domande. Chi vi vede qualcosa d’altro non è che un pazzo. […] Colui che domanda riceve la risposta di cui ha bisogno: se così non fosse, le creature non prenderebbero la vita dei loro desideri. Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato – se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita.
Finiscono col parlare dei Tarocchi, dove – spiega Hillel – precipita un’intera conoscenza esoterica, e Pernath ripensa al mazzo trovato nella casa del golem. Ma Hillel cita anche la figura del Doppio, l’Habal Garmin, “soffio delle ossa”, che abiterebbe in una misteriosa stanza senza porte, c’è solo una finestra…
(4-continua)