di Jack Orlando
Sotto torchio.
C’è un ulteriore elemento che va tenuto a mente.
Il BPP si è sviluppato, nei brevi anni in cui ha rappresentato una vera forza politica, secondo una dialettica interna che cercava di tenere in equilibrio i suoi due tratti principali: la propaganda armata e il lavoro sociale.
L’ala più dura del movimento si era formata su di un immaginario e un discorso particolarmente duri, spesso truci. Il richiamo costante alla guerra rivoluzionaria, l’appello a cacciare la polizia dal ghetto e imbracciare il fucile, la stessa pratica del patrolling, rendevano l’elemento militare centrale nella testa di ogni pantera.1
Ma era anche un aspetto facilmente demonizzabile dai media e respingente per la parte più moderata degli afroamericani. I programmi sociali erano fondamentali nell’immediato soprattutto per colmare questa lacuna.
Se nella strategia tali programmi dovevano rappresentare delle infrastrutture di resistenza per affrontare la guerra, nonché dei germi di organizzazione collettivista della società; nella tattica essi erano fondamentali al consenso.
Attraverso le mense e gli ambulatori le pantere non erano solo dei militanti armati che proteggevano dalla polizia e dai razzisti, ma coloro che si caricavano sulle spalle i bisogni concreti della società nera. Che nutrivano i bambini e curavano i malati. Lancia e scudo.
Ogni madre o padre del ghetto poteva riconoscere in loro quelli che al mattino davano la colazione ai figli prima della scuola, che nel pomeriggio gli permettevano di avere davvero un’educazione completa tenendoli fuori dalla strada e alla sera li tenevano al sicuro.
Questa ricerca del consenso, di per sé necessaria ad ogni partito, diventava via via più necessaria man mano che la repressione si stringeva attorno al BPP.
Tanto il partito cresceva, tanto la pressione degli apparati si faceva feroce, più acuta di giorno in giorno.
Da minacce, molestie e arresti arbitrari si passò rapidamente ad una vera e propria offensiva militare coordinata dal FBI: vengono infiltrati decine di provocatori e informatori, i militanti di spicco sono incarcerati in massa, vengono uccisi in scontri a fuoco o in veri e propri omicidi mirati, le sedi sono attaccate, date alle fiamme o distrutte con esplosivi.
Anche i programmi sociali vengono sabotati: poliziotti disturbano le colazioni per bambini, commercianti che forniscono risorse vengono minacciati, le tipografie sequestrate, addirittura si progetta di avvelenare il cibo che le pantere distribuiscono nei quartieri.
È una guerra totale e sporca, condotta fuori da qualsiasi parametro e controllo legale: il famigerato programma controinsurrezionale COINTELPRO di cui nell’immediato non si sa nulla ma che emergerà nel medesimo 1971, quando verranno alla luce una serie di documenti sequestrati in un blitz di cittadini in una base federale della Pennsylvania.
Quando si parla della brevissima stagione delle Pantere e della loro metodologia politica bisogna tenere sempre a mente che tutta la vita del BPP è stata condizionata pesantemente dal dover fare i conti con questa repressione barbara.
Nel sabotarne il cammino, il COINTELPRO ha viziato pesantemente la dialettica interna, spingendo una parte delle Pantere a radicalizzarsi ulteriormente spingendo per una prassi più insurrezionale (coloro che, dopo la scissione, daranno vita al Black Liberation Army), e portando un’altra parte più “moderata” ad arroccarsi sulla via elettoralista e l’incremento dei programmi sociali (questa sarà la parte che avrà la guida del partito, con scarsi risultati fino al suo scioglimento).
Nessuno dei due elementi poteva bastare a sé stesso senza il suo contraltare: venuta meno la loro compresenza, tutta la strategia ha finito per crollare su sé stessa.
È probabile che in ogni caso, anche senza il peso della repressione, le Pantere non sarebbero riuscite a fare il definitivo salto di qualità; ma c’è un episodio significativo, che illumina il senso della vicenda: nel 1969 Fred Hampton, giovanissimo dirigente del BPP di Chicago e plausibile successore di Newton, appena 21 anni, viene ucciso nel sonno durante un raid della polizia nel suo appartamento.
Tralasciando gli inquietanti dettagli sul suo omicidio, non possiamo fare a meno di notare come gli apparati non persero un momento a spezzare la prima vera possibilità di balzo in avanti che si era presentata.
Hampton infatti era il leader di una delle sezioni più forti del partito e soprattutto architetto di una strategia innovativa; non solo era riuscito a tenere in equilibrio il lavoro sociale e le armi, ma aveva superato la tradizionale base di riferimento.
Alleandosi con la League of Black Revolutionary Workers, sindacato degli operai neri, era riuscito a garantirsi una testa di ponte all’interno del settore delle fabbriche, fondamentale nella città, era la prima pantera ad affrontare in modo esplicito, seppure abbozzata, la contraddizione capitale-lavoro ed il ruolo dei sindacati.
Non solo, facendo leva sulla composizione delle bande giovanili, era riuscito a politicizzarne diverse e a portare attraverso queste l’esempio del BPP nelle altre comunità svantaggiate: portoricani, bianchi poveri del sud, messicani. L’agglomerarsi di partiti simili (Young Lords, Young Patriots, Brown Berets ecc.) in una alleanza (la Raimbow Coalition, poi ripresa anni dopo in chiave elettorale dal reverendo Jesse Jackson) faceva di Hampton la possibile guida definitiva del BPP e il detonatore di un’offensiva congiunta dei segmenti di classe finora tenuti separati dalla linea del colore.
Venne ammazzato per prevenire lo stabilirsi di una strategia unica per un fronte allargato con reali possibilità di vittoria.
Per concludere, l’analisi delle pratiche politiche del BPP2 non può esimersi dal partire dagli elementi fondamentali che l’hanno generato e che ne hanno determinato lo sviluppo. Abbiamo qui portato brevemente alla luce i tre nodi determinanti: la strategia (e l’immaginario) politica, la comunità storica d’appartenenza e la contingenza politica.
Più esplicitamente, le forme di lotta ed organizzazione delle pantere possono essere lette solo considerando A) il loro inserirsi in una strategia di lotta anticoloniale novecentesca, la guerra popolare, che prevedeva istituti di sussistenza dell’avanguardia rivoluzionaria e dei suoi territori; B) l’innestarsi all’interno della tradizione nera che, dalla schiavitù in poi, ha sviluppato forme di cooperazione mutualistica per sopperire agli scompensi della segregazione; C) la loro valenza di strumento di propaganda e consenso, tanto più necessario quanto più era forte l’attacco repressivo cui erano sottoposte.
Nota a margine.
Spesso e volentieri nei movimenti occidentali degli ultimi vent’anni3 , una certa dose di entusiasmo si accompagna all’adozione di pratiche politiche, sopperendo spesso a una lacuna di visione strategica, ossia la capacità di vedere lontano e inserire le singole pratiche all’interno di un percorso articolato, mutevole e non lineare.
È così che ciò nasce come tattica finisce per essere strategia, da mezzo a fine; ciò che era secondario assume l’importanza della parola d’ordine.
Allo stesso tempo questo si accompagna ad un innegabile senso orientalista: lotte distanti geograficamente e culturalmente da noi vengono assunte come modello senza considerarle nella loro specificità.
È stato così per le comunità zapatiste, per il Rojava dei kurdi. Lo è anche per le pantere nere ed il BLM.
Spesso non si considera la cultura indigena e la dimensione coloniale del sud del Messico, oppure la turbolenza geopolitica che ha investito il popolo kurdo nel terzo millennio; dei loro contesti dove la civiltà tardocapitalista non ha imposto il controllo né la sussunzione pervasivi assunti in Europa, né la centralità assunta dallo stato sociale qui (anche nel suo smanetellamento); solo in minima parte si guarda a come si siano dati in condizioni di frattura o insufficienza dell’ordine statale sui propri territori.4
Soprattutto non si considera il loro essere dotarsi di strutture organizzative pensate per agire e guardare sul lungo periodo; laddove in Europa si è assistito piuttosto all’esplodere ciclico di mobilitazioni popolari anche importanti, al fiorire di piccoli gruppi ed esperienze, ma solo in minima parte alla costruzione di strutture politiche durevoli e articolate.
In questa adozione quasi spasmodica di linee frammentate il mutualismo è tornato alla ribalta come uno degli ultimi ritrovati, trasmutato da mezzo a fine.
Questo in parte è spiegabile con la lunga presenza di pratiche sociali simili, specialmente nei movimenti di derivazione libertaria e orizzontalista; in parte con la necessità, dopo la fine del movimento operaio storico, di riadattare strumenti per una soggettività orfana.
Ecco che si sono assunte le categorie dei movimenti extraeuropei per colmare un’insufficienza tutta occidentale, con la tendenza molto occidentale di poterle utilizzare a prescindere dalla loro genesi.
E questo è tanto più evidente se si pensa che allo stesso tempo si è andata dimenticando la dimensione europea del mutualismo, altrettanto lunga e profonda.
Se il socialismo è un prodotto della cultura europea dell’800, questo non è nato semplicemente dentro la mente geniale di Marx e Engels.
Quello che è emerso nella prima internazionale e nel Manifesto è il picco di un percorso di lungo periodo che lì trovava compimento e si evolveva in qualcosa di altro.
Un percorso disordinato e contraddittorio dove filantropia, aspirazioni nazionali, rivolte locali e tutti i processi materiali e simbolici innescati dalla resistenza all’estendersi della rivoluzione industriale finivano per agglomerarsi in un’opera di categorizzazione teorico-politica.
Furono non pochi i tentativi di dotare la nascente classe operaia di istituti di sopravvivenza e opere mutualistiche. A volte da parte degli appartenenti alla classe dirigente, animati da spirito filantropico e sentimento cristiano; altre volte da aggregati popolari in autonomia (senza dimenticare che tra Rivoluzione Francese e Manifesto del Partito Comunista corrono appena cinquant’anni).
Questa eredità verrà raccolta dai partiti socialisti e poi da quelli comunisti. Si articolerà in una fioritura di progetti diversissimi tra loro che copriranno praticamente tutto lo spettro delle attività umane. Scuole per i figli degli operai, orti per i loro quartieri, casse di assistenza reciproca, cooperative di lavoro, centri ricreativi.
I partiti presero in carico tutte le esigenze della classe, spesso attraverso articolazioni associative piuttosto che direttamente, ma nel cammino verso “il sol dell’avvenire”, utilizzarono il lavoro sociale per popolare e dare profondità al mondo che incarnavano.
Far parte di un partito socialista significava, per un operaio, essere partecipe di un vero e proprio universo materiale e simbolico.
Il tempo lungo della storia ha disegnato un percorso estremamente ricco e sfaccettato, lo ha portato al suo apice e poi al suo declino.
Durante il suo corso, ha condizionato lo sviluppo delle nazioni innervandole di uno Stato Sociale che altrove è impensabile, nonostante i pesanti attacchi del neoliberismo.
Intanto, svanito il sogno rivoluzionario, quelle classi dirigenti che avrebbero dovuto gestire il mondo socialista, si sono convertite in ceto amministratore della miseria presente.
Tutto ciò non vuole essere in alcun modo una riproposizione nostalgica di una tradizione ormai bell’e morta; né tantomeno si cerca di svilire le esperienze rivoluzionarie extraoccidentali, che anzi hanno rappresentato il maggior terreno di innovazione e sperimentazione degli ultimi sessant’anni.
Piuttosto vogliamo qui spingere verso un metodo di analisi, di interpretazione della realtà che, con qualche approssimazione, possiamo definire come “storicizzare i processi politici” per orientarne la prassi.
Se non consideriamo l’onda lunga da cui proveniamo non possiamo interpretare la realtà, ogni innesto che verrà tentato si svilupperà su un terreno arido e sarà quindi sterile, incapace di mettere radici.
Ribadiamo la specificità dell’uso delle armi nel programma del BPP, mai utilizzate in una pratica offensiva ma come elemento anzitutto simbolico di propaganda e in secondo luogo come strumento di difesa in caso di attacchi di polizia e suprematisti. ↩
Ma analogamente vale per l’analisi di qualsiasi fenomeno politico. ↩
nello specifico possiamo parlare di quelli italiani ma crediamo che qualcosa di simile sia vero per la restante parte del mondo in cui siamo inseriti ↩
guerra civile siriana, narcoguerre e debolezza endogena dello Stato messicano alla sua periferia. ↩