di Costantino Paonessa

Antonio Senta, Pane e Rivoluzione. L’Anarchia migrante (1870 – 1950), elèuthera, Milano 2024, pp. 200, € 17,00

È una storia avvincente quella che Antonio Senta racconta nel libro Pane e rivoluzione. L’anarchia migrante (1870 – 1950). Seguendo infatti i percorsi di vita di anarchici e anarchiche italiane, l’autore ricostruisce le vicende del loro militantismo in un ampio scenario geografico che dalle Americhe, passa per l’Egitto, la Russia e l’Australia e naturalmente l’Europa. Mi sembra che il principale merito dell’opera sia quello di mettere in evidenza un punto spesso trascurato, anche dalle narrazioni sull’attualità – si pensi allo slogan “refugees are welcome” -, ossia la comunanza di traiettorie tra emigrazione ed esilio mostrando come separare i due aspetti sia spesso una forzatura storiografica che non corrisponde alla realtà del vissuto delle persone concernées (interessate). Nella maggior parte dei casi infatti ci si sposta, per brevi periodi ma anche per tutta la vita, in luoghi in cui si giudica esistano migliori condizioni politiche, ma anche economiche e sociali. Un esempio sono i due viaggi di Malatesta in Egitto (1878 – 1882), dove già viveva il fratello Aniello, esistevano attivissime cellule internazionaliste ed era relativamente facile per un europeo trovare delle fonti di reddito. In altri casi, come quello di Bartolomeo Vanzetti e molti altri simili a lui, gli ideali anarchici o di altre componenti del cosiddetto “radicalismo di sinistra” vengono abbracciati direttamente nel paese d’arrivo, nei luoghi di lavoro, di socializzazione, durante gli innumerevoli spostamenti ma anche e soprattutto nelle lotte politiche di tutti i giorni. Attraverso tutta una serie di racconti di vita, il testo introduce chi legge dentro una rete di relazioni globale ma informale, per questo versatile, costituita da contatti e legami le cui strutture stanno spesso solo nella mente di governi e regnanti, della stampa e soprattutto della polizia che attraverso la caccia all’anarchico “si internazionalizza” proprio a partire dalla fine del XIX secolo.

I cinque capitoli di cui è composto il libro, ognuna delle quali tratta di una o più aree geografiche, giustificano bene la scelta del titolo “l’anarchia migrante”. A fare da filo conduttore è la scelta dell’autore di adottare una lettura storiografica diffusa ormai da qualche anno che interpreta internazionalismo ed anarchismo in quanto movimenti “transnazionale”. Nel caso specifico, la transnazionalità si riferisce non solo al senso letterale che fa riferimento al superamento dei confini nazionali anche perché parte, come detto, del fenomeno migratorio, quanto anche alla capacità di portare con sé teorie e pratiche nei vari contesti di arrivo. L’immagine che ne emerge è quella di un movimento “magmatico e dalle mille teste”, scrive Senta, “che sembra eclissarsi in una parte del continente (l’Europa N.d.R.) per riemergere inaspettatamente da un’altra”. Sebbene questa lettura sia pienamente condivisibile e supportata da un crescente numero di fonti documentarie e letteratura scientifica, a mio avviso presenta alcune debolezze nel momento in cui occorre situare il transnazionalismo, prestando particolare attenzione alla specificità dei contesti europei e non europei, e alle singole esperienze di vita e di lotta di migranti ed esuli all’interno di quest’ultimi. Diventa quindi rilevante che le narrazioni si interessino alla questione dell’appartenenza etnico-nazionale dei militanti non tanto al fine di formulare semplici quanto spesso anacronistici giudizi, quanto per riflettere su come questo attributo ascritto e fortemente rifiutato, non sia soltanto un soggetto teorico, ma rimanga pur sempre un elemento fondamentale della struttura sociale e dei rapporti umani e intercomunitari, influenzando le lotte e la vita quotidiana. Se è vero che “l’attitudine transnazionale degli anarchici italiani vive lo spazio al di là dei confini nazionali”, è altrettanto vero che in molti casi, nella tradizione internazionalista e anarchica, il metro di riferimento culturale, quindi politico, e sociale era (e continua ad essere) l’Europa.

L’approccio biografico, microstorico, adottato dall’autore restituisce con grande leggerezza la vita delle “comunità militanti”, aprendo uno spaccato molto affascinante sulle attività quotidiane dei migranti ed esuli anarchici. Le vite si articolano allora tra rivolte e rivoluzioni, azioni individuali violente e dimostrative, scioperi e manifestazioni, fabbriche e campi, carceri ed evasioni, tribunali e commissariati, scuole ed università libere in molte parti del mondo. Ma emerge anche una dimensione diversa della politica, vissuta spesso all’interno di comunità riunite su base linguistica, nazionale o regionale in cui donne e uomini trascorrono il loro tempo. È proprio facendo dialogare questi due aspetti che a mio modo di vedere, Senta riesce pienamente a mostrare come traiettorie militanti e vita migrante siano difatti parallele, intrecciate e difficilmente separabili se non attraverso un processo di astrazione analitica che prescinda dalla realtà.

L’utilizzo della biografia non è tuttavia privo di problematiche, soprattutto quando viene applicato alla storia di un movimento che fa della lotta alle gerarchie e al potere che queste esercitano un’aspirazione di fondo e una pratica imprescindibile di vita. Il rischio è infatti duplice. Un primo, a cui purtroppo tanta letteratura sul e del movimento anarchico non ha sempre saputo sfuggire, in particolare quella sul periodo cosiddetto “classico”, è di focalizzarsi troppo su alcuni specifici personaggi, trascurandone altri – e soprattutto altre – rilegati ai margini delle narrazioni. Il secondo rischio, strettamente legato a questo discorso, è una sorta di idealizzazione in senso epico di personaggi, luoghi e periodi anche questa non proprio coerente con gli ideali e le pratiche professate dall’anarchismo.

Nonostante Senta sia pienamente consapevole del fatto che “l’ossatura del movimento” è costituita da “una miriade di militanti poco noti”, a mio modo di vedere non riesce a rendere pienamente l’idea enunciata nell’introduzione secondo cui vicende e vite “straordinarie” fossero davvero “comuni” nel movimento. Il che, sia ben chiaro, non costituisce un limite dell’autore ma riflette piuttosto le insufficienze di parte della letteratura esistente e, ancor prima, delle fonti primarie stesse, quando queste provengono dagli archivi delle polizie, dei tribunali o di certa stampa. Questo è tanto più evidente quando si parla della storia della presenza femminile dentro il movimento anarchico. Nonostante, infatti, i propositi dell’autore e la giusta osservazione riguardo all’importante presenza femminile “al contrario di quanto ancora si pensi”, si faticano a trovare nomi, storie di vita e di lotta. Le eccezioni sono poche e, in molti casi, si tratta di figure che agiscono insieme a figure maschili. In questo senso avrebbe sicuramente aiutato avere una lista dei nomi alla fine del libro.

Detto ciò, bisogna riconoscere che è inevitabile lasciarsi trasportare nelle peregrinazioni di personaggi come Malatesta, Galleani, Fabbri, Tresca, Vasai, Converti, Fedeli, Premoli, Giacomelli e altri ed altre ancora, che la prosa vivace di Senta rende particolarmente coinvolgente, considerata la statura e il reale fascino degli uomini e delle donne di cui stiamo parlando. Tuttavia, come già accennato, il rischio che si corre è di contribuire a creare un’epopea dei “cavalieri erranti dell’anarchismo” che, basata su vicende reali, finisce per romanzarla un po’ troppo. La vera sfida per chi narra, è di riuscire a trasmettere che le storie che si raccontano non sono solo elementi narrativi ma vissuto reale, concreto. Questo principio, valido per tutti i racconti storici, mi pare sia ancora più opportuno quando si parla di uomini, donne e movimenti che hanno messo la lotta politica al centro delle loro esistenze. In questo senso, se una minuta nota critica può essere fatta al volume di Senta è quello di non aver tracciato un ponte con l’attualità, proprio partendo dalle vite esuli e/o migranti di cui è ancora composto il movimento anarchico in Italia come nel resto del mondo. Le vite “straordinarie ma comuni” di anarchici e anarchiche che per diverse ragioni – tra cui una spietata repressione da parte degli Stati – si spostano lungo i sentieri dell’emigrazione, tracciando e dissolvendo reti fluide, non sono una caratteristica di un’epoca che solo la storiografia ha voluto definire come “classica”. Al contrario, esse rappresentano una delle caratteristiche distintive del movimento anarchico e di tutti i gruppi politici sovversivi, rivoluzionari o semplicemente contestatari che nei suoi principi e nelle sue pratiche hanno trovato fonte di ispirazione.