di G.I.
Intervista a Marcello Pini – Si Cobas
Quando gli italiani erano poveri, per una famiglia contadina il possesso di un maiale rappresentava una fonte di vita essenziale. Chi ne aveva più di uno era fortunato. Chi ne possedeva molti un benestante. Il giorno in cui si scannava la bestia, era una festa familiare e di vicinato. Nessuno si scandalizzava per l’operazione truculenta a cui i bimbi erano chiamati ad assistere: il livello di coscienza nella quotidianità rurale era quello che era, soprattutto davanti alla memoria della fame e della penuria, che è durata come un fantasma fino a pochi decenni fa. I maiali allevati per l’autoconsumo vivevano dignitosamente: condividevano con il padrone umano gli ambienti e l’alimentazione – il famoso “pastone”, che era composto sostanzialmente dagli scarti della mensa familiare. Naturalmente questa era la piccola economia di sussistenza da cui dipendeva la nutrizione di milioni di famiglie italiane. A partire dall’inizio del ‘900, gli allevamenti e i macelli conquistano dimensioni via via più estese scoprendo i vantaggi crescenti delle economie di scala. Comincia la storia degli allevamenti intensivi e della macellazione industriale: una condizione in cui il rapporto uomo-animale subisce una torsione inedita e spaventosa, rispetto a otto millenni di domesticazione. In parallelo maturano enormi cambiamenti, anch’essi inediti, nelle abitudini alimentari delle masse: per la prima volta nella storia umana le proteine animali sovrabbondano su tutte le tavole. E così le malattie cardiovascolari prendono il posto dell’anemia e della sottonutrizione.
Gli allevamenti intensivi e i macelli interrogano da anni la parte più consapevole dell’opinione pubblica, resa più sensibile dall’uscita dall’era del bisogno e della scarsità, almeno qui, nel “primo mondo”: è lecito considerare la vita animale come merce di consumo o semilavorato industriale? E l’applicazione dei metodi tayloristi al ciclo allevamento/macellazione, quali esiti può avere sulla salute dei consumatori e sul lavoro di chi dentro a quel ciclo è obbligato a prestare la sua opera? Da qualche tempo a Modena, una vertenza sindacale sta squadernando questi temi all’attenzione collettiva, cortocircuitando ragioni e contesti che fino ad oggi si erano piuttosto ignorati. Ne parliamo con Marcello Pini, esponente modenese del Si Cobas.
La vertenza del macello Opas è finita spesso sulle pagine dei giornali cittadini. La macellazione è una fase sconosciuta al consumatore moderno, che vede la carne sul bancone del reparto macelleria o dentro i frigoriferi degli ipermercati, ignorando tutto quello che viene “prima” dell’esposizione sugli scaffali. Ci racconti qualcosa sulle dimensioni dell’impianto Opas?
Opas è il più grande macello suino d’Italia, un grosso stabilimento nelle campagne di Carpi, in provincia di Modena. Lì dentro vengono scannati e macellati tra i 6.000 e gli 8.000 maiali al giorno, numeri impressionanti. La proprietà fino al 2018 era divisa al 50% tra Opas e Alcar Uno (l’azienda della famiglia Levoni, quella della famosa vertenza e delle montature giudiziarie contro il SI Cobas). Fino a qualche anno fa si chiamava Italcarni, prima di finire dentro un pesante crack finanziario; una vicenda giudiziaria che, nonostante un buco di 38 milioni e il fallimento della società, per i cui dirigenti la procura ha ipotizzato la bancarotta fraudolenta onde favorire l’acquisizione da parte di OPAS, è finita in prescrizione a gennaio di quest’anno (qua).
Com’è la composizione della forza lavoro? E l’azienda è sindacalizzata?
Dentro Opas lavorano circa 600 persone, di cui una sessantina (impiegati e capi-reparto) dipendenti diretti, tutti gli altri precari in capo a quattro diversi appalti – due dei quali gestiti dal medesimo titolare. Questi appalti applicano ovviamente contratti diversi: alimentare, trasporti, pulizie/multiservizi, oppure una commistione tra loro. Come sindacato, la nostra prima rivendicazione è stata: contratto alimentare per tutti. Che significa non solo “giusta” applicazione contrattuale rispetto alla prestazione e alla filiera, ma anche unificazione della forza lavoro, in contrasto con la tendenza allo spezzettamento che è la forza motrice del capitalismo italiano. Il clima sindacale in azienda è sempre stato complicato. Basti pensare che un RSU della ex Italcarni, oggi è il presidente di una delle società in appalto! Non risultano agli atti vertenze pregresse, se non individuali, all’interno di Opas. Nel 2020 avevamo costituito un primo Cobas tra i lavaggisti notturni e, nel confronto con la cooperativa in appalto che gestiva le pulizie, avevamo ottenuto anche qualche risultato in termini di aumenti. Poi un nostro iscritto, Samuel Remuel, morì stritolato da un nastro trasportatore, mentre operava dentro una macchina. Appena un mese prima, purtroppo solo verbalmente, avevamo segnalato alla ditta la pericolosità di quelle operazioni di lavaggio, chiedendo che fossero sempre due gli operatori presenti. L’inchiesta alla fine non ha trovato responsabilità dirette a carico di Opas, circa il mancato funzionamento dei dispositivi autobloccanti. A proposito di quella tragedia l’azienda ventila addirittura (è successo davanti al sindaco in settembre, durante un tavolo vertenziale) la fantasiosa ipotesi di un assassino misterioso che azionò il nastro per poi dileguarsi… I colleghi di Samuel, il giorno della tragedia, uscirono in silenziosa protesta fuori dai cancelli subito dopo la morte del loro compagno. I carabinieri li denunciarono per violazione delle norme anti-Covid. Samuel morì infatti il primo giorno di lockdown, mentre in cielo volteggiavano gli elicotteri: erano le stesse ore in cui, dentro al carcere modenese di Sant’Anna, una rivolta della disperazione sarebbe finita con nove vittime tra i detenuti.
Il vostro sindacato si è insediato stabilmente dentro ai reparti?
Oggi abbiamo costituito un Cobas formato da circa 55 operai, divisi tra tre diversi appalti e con tre diversi contratti. Chiediamo buste paga regolari, senza trattenute di fantasia, dove vengano conteggiate tutte le ore ordinarie, notturne e straordinarie. Il minimo sindacale, come si suol dire. E per chi ha i salari da fame delle cooperative multiservizi rivendichiamo un percorso di aumenti salariali, eventualmente anche mediante premi e welfare, diretto all’equiparazione del salario con quello dei colleghi più fortunati, quelli inquadrati mediante il contratto alimentare. E’ la solita storia: le aziende ci dipingono come sabotatori o addirittura eversori, mentre noi stiamo rivendicando concretamente la normalità contrattuale e perfino la legalità, dentro settori di cui tutti conoscono le criticità croniche.
L’azienda come ha reagito alla vostra presenza?
Il dialogo con le società in appalto e con la proprietà Opas è sempre stato conquistato attraverso gli scioperi. Ad ogni sciopero con picchetto e blocco delle merci è seguita la convocazione di un tavolo sindacale o istituzionale – come i due tavoli con il sindaco uscente di Carpi, Belelli, e con il nuovo sindaco, Righi. In ogni occasione non sono mancate le promesse e gli impegni, sempre puntualmente disattesi.
Parallelamente abbiamo tentato di coinvolgere l’Ispettorato del Lavoro e lo SPSAL (Vigilanza sanitaria), con svariati esposti e richieste di intervento, senza mai ottenere nulla. Questo per chiarire che le vertenze sindacali cercano sempre uno sbocco negoziale, per quanto le controparti spesso le dipingano come moti pretestuosi o inspiegabili…
E arriviamo a metà ottobre, le giornate in cui la vertenza è finita sulle pagine della cronaca cittadina.
Il 17 e il 18 ottobre (in occasione dello sciopero nazionale indetto dal Si Cobas) è stato convocato un picchetto davanti ad Opas. Per circa 9 ore abbiamo bloccato oltre 40 camion, di cui molti con animali vivi – almeno 2000 i suini coinvolti. La produzione si è fermata. Verso le 13:00 abbiamo visto uscire un piccolo corteo di operai dallo stabilimento, guidati in prima fila da tutti i capi-reparto, i preposti, i responsabili del personale e dirigenti di Opas e delle sue società in appalto. I colleghi dei nostri iscritti ci hanno spiegato come i capi avessero girato per i reparti chiamando tutti a seguirli ed uscire – scene già viste in molti altri contesti vertenziali.
L’anomalo corteo si è diretto verso il presidio degli scioperanti con fare minaccioso: la prima fila di capi e capetti ha tentato di aggredire il picchetto, che nel frattempo si era assottigliato ad alcune decine di partecipanti. Tra i due schieramenti si è frapposto un cordone di polizia, che i capi-reparto hanno tentato addirittura di sfondare: un tentativo che, a parti opposte, sarebbe finito a manganellate e denunce – il doppio standard non vale solo in politica estera, evidentemente… A quel punto c’è stato l’intervento del prefetto che ha portato al tavolo istituzionale del 22 ottobre.
I tavoli istituzionali si tengono, ma a cosa portano?
All’incontro convocato dal Prefetto, Opas ha sottoscritto un verbale in cui si impegna su tre punti chiave: trattare – ma solo con CGIL e CISL – un premio di risultato che incrementi i salari: una volontà evidentemente prodotta dagli scioperi, non certo dalla benevolenza del padrone; vincolare i cambi di mansione a criteri di salute, competenza e non discriminazione (il modo più comune di operare rappresaglia contro i lavoratori poco “ubbidienti” è collocarli in fasi di lavorazione che accentuino eventuali problemi di salute); e infine convenire su un obbligo di risposta al sindacato circa le problematiche di salute e sicurezza, a cui finora è sempre stato negato riconoscimento e riscontro.
E poi si arriva ai rapporti “anomali” che avete costruito per allargare il fronte solidale.
Per raccogliere fondi per sostenere la vertenza abbiamo provato a contattare alcuni collettivi per organizzare una serata benefit. Il risultato è stato inaspettato e assolutamente originale: un apericena vegano, con proiezione del documentario sugli allevamenti intensivi Dominion; una iniziativa animata da diverse organizzazioni antifa, ambientaliste, femministe e anti-speciste (Extintion Rebellion, Lotta antispecista, Le Ludoviche, Non Una Di Meno, Carpi Antifascista) a favore dei lavoratori del macello. Un inedito assoluto con pochi precedenti in Italia. È seguito un intenso dibattito, in cui due mondi che non si erano mai parlati tra loro – lavoratori del macello e animalisti – si sono conosciuti, scoprendo di avere molte più cose in comune di quanto probabilmente pensavano. I lavoratori, quasi tutti stranieri, hanno dimostrato di non essere “aguzzini”, ma vittime a loro volta dell’inumanità capitalistitica che degrada a mezzi di lavoro tanto la vita umana quanto quella animale. Gli interventi dei lavoratori hanno spiegato bene che non svolgono quel lavoro per il piacere di infliggere dolore o per noncuranza verso la sofferenza animale, anzi non si riconoscono nel ruolo di “cattivi” che alcuni (pochissimi) partecipanti volevano cucirgli addosso; hanno piuttosto parlato del ricatto del permesso di soggiorno, della scarsità di alternative, della mancanza di formazione e istruzione che impedisce loro di trovare altri sbocchi, del caporalato industriale che li indirizza verso quel tipo di imprese. Cioè, hanno raccontato le dure condizioni materiali della loro vita, a persone che ne sapevano poco, mostrando che la sofferenza animale non è l’unica sofferenza prodotta dall’industria della carne.
E’ brutto da dire, ma avete parlato del “benessere animale” e del “benessere operaio”: o meglio del comune malessere che mortifica la nuda vita ogni giorno dentro quei posti.
I lavoratori si sono resi conto del dolore degli animali, delle loro condizioni: abituati dall’impresa a considerare le bestie come “merce viva”, sono inorriditi nel vedere le crudeltà degli allevamenti intensivi, riconoscendo sé stessi come parte di quel meccanismo, che non solo li sfrutta ma li rende complici dell’immenso olocausto di animali sull’altare del profitto.
Molto si è parlato quindi del privilegio, anche nelle scelte di lavoro e di dieta, così come della necessità di unire le istanze e le lotte antispeciste e sindacali, all’interno del medesimo fronte di lotta per l’abolizione del sistema capitalista.
Agli animalisti che ci chiedevano: “ma quando avrete ottenuto i risultati sindacali, proseguirete nella lotta animalista?” abbiamo girato la domanda: “quando saremo tutti vegetariani, continuerete ad interessarvi degli operai sfruttati?”. Una domanda retorica, ovviamente, che serve a tenere vivo il reciproco interesse tra questi mondi. Degno di nota è che la serata si è svolta all’interno delle sale della Parrocchia del Quartirolo di Carpi (in via Carlo Marx!), grazie al supporto del sacerdote e della comunità parrocchiale: le femministe di NUDM, associazioni animaliste e Si Cobas ospiti di una parrocchia – una solidarietà così trasversale non si vede tutti i giorni!
La collaborazione con gli antispecisti ha avuto un ulteriore passaggio proprio durante l’ultimo picchetto, con la partecipazione di una ventina di attiviste di Animal Save, che hanno documentato il pessimo stato di salute dei maiali sui camion, distribuendo loro anche acqua ed allertando i veterinari dell’ASL (che invece premevano per farli entrate dentro lo scannatoio con la orwelliana motivazione di “tutelare il benessere animale”). Paradossalmente le autorità ci hanno comunicato che probabilmente i partecipanti al blocco riceveranno denunce per “maltrattamento agli animali”…
L’allevamento intensivo (e ovviamente la macellazione industriale) non sono più sostenibili, né per l’ambiente né per la salute umana. Nel nostro paese tale “insostenibilità” riguarda anche la sfera sociale e contrattuale, visto che dentro questi segmenti di filiera dell’agroalimentare, continuano a riprodursi le condizioni di lavoro più dure e deregolate. Sono ormai più di dieci anni che in questi settori cruciali per l’economia e l’export italiano, sono scoppiate lotte e vertenze emblematiche: qualcosa sta cambiando – le lotte pagano – ma ad un ritmo ancora troppo lento. Allargare la comunicazione, le alleanze e la consapevolezza dentro l’opinione pubblica, è il modo migliore di sostenere il fronte del cambiamento.