di Jack Orlando

Avvertenza: quella che segue è la traccia di un intervento, tenuto nell’aprile 2024 al DopoLavoro Ferroviario di Velletri, durante un’iniziativa sulla salute all’interno delle esperienze dello zapatismo e delle pantere nere. L’intento alla base dello scritto non è quello di fornire una breve panoramica su una storia ormai già raccontata, più e meglio di così, da testimoni, storici e protagonisti.

Piuttosto il tentativo è quello di far emergere le connessioni interne di una vicenda politica che ha lasciato suggestioni potenti dietro di sè, separando l’immaginario e la storia dall’essenzializzazione delle sue categorie. Termini quali mutualismo, comunità, autodifesa sono stati strumenti potenti nelle mani delle pantere, eppure il loro recupero dentro i movimenti sociali sfocia spesso in una pratica debole. Questo, a nostro avviso, è dovuto ad una visione della politica che tende a focalizzarsi sulle forme senza tenere conto del processo che le ha generate. Ragionare sull’esperienza del BPP in relazione a pratiche di recupero comune può diventare allora anche esercizio di metodo analitico in grado di potenziare la pratica.

Una storia (afro)americana.
Nella lunga storia del movimento afroamericano il Partito delle Pantere Nere Per l’Autodifesa segna un punto di svolta: zenit dello sviluppo teorico-pratico dei movimenti di lotta e nuova codificazione della politica.

Fondato a Oakland nell’autunno del ’66 raccoglie l’eredità radicalizzata del movimento per i diritti civili e delle due lunghe estati di riot spontanei nei ghetti (Watts ma anche Chicago, Detroit, Harlem) così come della predicazione di Malcolm X, che per primo aveva portato alla ribalta una diversa declinazione del processo di liberazione nera, intesa come processo di autodeterminazione autonoma ed indipendente tanto dalle istituzioni americane che della società WASP.
È inoltre il periodo della decolonizzazione: larghe aree di quello che chiamiamo Sud Globale arrivano per la prima volta ad avere il controllo sulle proprie istituzioni e risorse. Molto spesso a seguito di un aspro conflitto armato. È il momento dei Dannati della Terra, di Patrice Lumumba, dell’Angola, dei Vietcong, di Fidel Castro, dei Tupamaros, di Mao Tze Dong e del Nazionalismo anticoloniale.

Le Pantere, sulla scia di X, sono la prima formazione afroamericana a collocarsi esplicitamente come parte di questo processo globale di decolonizzazione: la comunità nera, sparsa nei ghetti delle metropoli e negli insediamenti della provincia americana è intesa come una Colonia interna; ovvero il popolo di zone dove il dominio statale esercita una pressione violenta su base razziale, la polizia agisce come una truppa d’occupazione mentre gli assistenti sociali entrano invadono nel privato della vita delle famiglie; lo Stato si limita al controllo pervasivo, tralasciando ogni prerogativa di welfare e quindi privando i territori di tutte le infrastrutture strategiche utili ad una autodeterminazione personale e collettiva: le scuole, gli ospedali, i lavori, le case. Tutto è poco, tutto è scadente, manchevole.
Agli occhi delle giovani pantere i ghetti, come le citè di Fanon, sono cittadelle fatiscenti ripiegate su sé stesse. Buone per sfornare manodopera a basso prezzo per i lavori peggiori, oppure criminali per alimentare l’enorme macchina dell’industria carceraria, sono popolate di una popolazione semianalfabeta, infantilizzata, brutalizzata ed umiliata: quando i bambini escono di casa le mamme raccomandano “stai attento alla polizia”.
Le comunità nere degli Stati Uniti sono insomma brandelli di una nazione dispersa e oppressa dal capitalismo imperialista bianco.

L’analogia con le colonie d’oltreoceano è però qualcosa di più che esercizio retorico, ed è quindi facile guardare più a queste che ai movimenti della new left, per lo più bianchi e piccolo borghesi.
Si diceva che i movimenti d’oltreoceano si sono imposti spesso attraverso un lungo conflitto violento, la guerra di guerriglia che è una pratica in quella fase in pieno vigore.
A dominarne il percorso c’è uno schema, una strategia di fondo che si ripete e che è stata messa nero su bianco dal maestro assoluto della guerra popolare, Mao Tze Dong.
La guerra di popolo si articola in tre fasi: la prima è una fase prerivoluzionaria, dove il partito si radica in una zona remota in cui può rafforzarsi e crescere, si arma e organizza la popolazione, la dota di personale politico e di ideologia.
La seconda è una effettiva fase di guerriglia, il partito sufficientemente forte può mandare piccole bande ad attaccare il territorio in mano al nemico per liberarlo ed estendere così il controllo su nuove “zone liberate” che inizieranno ad amministrare secondo principi comunisti e collettivisti.1 L’ultima fase, quella insurrezionale, prevede l’attacco finale al cuore del potere nemico dopo avergli sottratto sufficiente territorio e risorse da potersi dotare di un vero e proprio esercito, una dimensione di potenza contro potenza in uno scontro “simmetrico”.

Ovviamente è uno schema di massima e fa riferimento al contesto cinese, ovvero ad un paese dove gli spazi geografici, la demografia, i rapporti sociali si rivelano su scale enormi e quasi senza paragoni; non di meno fornisce la base su cui si svilupperanno tutte le successive esperienze di liberazione nazionale.
Le lezioni sulla guerriglia di Mao sono riassunte anche nel celebre Libretto Rosso, che ne corona la fortuna a livello planetario, e se possono sembrare una divagazione in realtà sono assai centrali perché saranno alla base della strategia delle Pantere Nere.

Il Black Panther Party For Self-defence ovvero le Pantere Nere.
Al momento della loro fondazione le Pantere sono costituite da due studenti: Bobby Seale e Huey P. Newton, autonominati rispettivamente Presidente e Ministro della Difesa, si sono dotate di un ambizioso programma in dieci punti. L’obbiettivo è non meno che l’emancipazione del popolo afroamericano nel segno di una rivoluzione socialista.
Il primo nucleo operativo è invece costituito da meno di una decina di persone, quasi tutte raccolte tra gli amici e i vicini. Una partenza che non lascia minimamente presagire gli enormi sviluppi che verranno.
vedondosi come movimento anticoloniale, i loro riferimenti teorici principali sono Malcolm X per l’analisi della situazione specifica del nero americano, Robert Williams2 per la necessità di una pratica di difesa attiva che superi la nonviolenza del movimento e il disordine dei riot, Franz Fanon per la teoria politica anticoloniale e Mao Tze Dong per la strategia del partito.

Così, dato che la militanza costa soldi, si inventano un escamotage tanto banale quanto geniale che tenga insieme finanziamento, formazione e propaganda. Sotto l’altisonante nome di Operazione “Books for Guns”, si presentano a un negozio cinese, comprano un grosso pacco di copie del Libretto Rosso di Mao e se ne vanno a venderle al campus universitario.

In realtà quei libretti non finanzieranno l’acquisto di armi ma di codici di legge, la stampa di poster e volantini e poi, dopo un po’, l’affitto di una piccola sede e la nascita del proprio giornale.
Frattanto lo sparuto partitino fa qualcosa che non aveva fatto nessuno: il patrolling.
Pattuglia le strade del ghetto per monitorare gli abusi di polizia: quando una volante ferma un nero, loro non impediscono le operazioni ma osservano a poca distanza, fotografano, gridano al malcapitato quali siano i suoi diritti e possibilità.
In sostanza non fanno nulla di particolarmente eclatante, esercitano semplicemente i propri diritti di cittadini americani, sotto gli occhi increduli e inviperiti degli agenti abituati a farsi ubbidire, appunto, come truppe occupanti in una colonia.
L’idea è quella di creare dei cortocircuiti tra diritto formale e diritto concreto sfruttando tutti i margini legali possibili per mostrare al popolo afroamericano che può sollevarsi dalla propria misera condizione.
E per rendere più chiaro il concetto lo si fa con una certa dose di stile: se ne vanno in giro con una divisa a metà tra il guerrigliero e il gangster, vestiti total black con giacche di pelle, occhiali da sole e baschi in testa, e soprattutto armati di pistole e fucili in bella vista.

Anche quello del porto d’armi, come si sa, è un diritto costituzionalmente riconosciuto negli Stati Uniti. Ma che lo facciano dei neri organizzati è al tempo qualcosa di dirompente, tanto da spingere l’allora governatore della California Ronald Reagan a discutere una legge che ne limiti la circolazione. Un braccio di ferro che porterà alla celeberrima invasione del Capitol di Sacramento del 2 maggio del ’67.
Pur mantenendosi strettamente nell’ambito della legalità (Newton è un pedissequo studente di giurisprudenza), l’assertività nelle pratiche e ancor di più nella prosa, truce e colorita, spinge gli apparati federali ad una pressione sempre più stringente sulle pantere e sul loro tentativo esplicitamente rivoluzionario.

Qui sta un primo punto focale: essi si intendono come partito armato (pur non praticando la lotta armata per come l’abbiamo conosciuta in Europa) per una rivoluzione socialista e anticoloniale. Seguendo le regole di Mao, su cui ogni militante studia quotidianamente, si trovano nella prima fase della guerra di popolo: il radicamento.
Ecco allora che devono guadagnare consenso nella propria base, rafforzarsi, tutelare il partito da perdite non strettamente necessarie e cominciare a tessere nel territorio i propri organismi di autogoverno coinvolgendo la popolazione stessa.
In altre parole, si tratta di preparare fin da subito dei programmi di sussistenza, per garantire la sopravvivenza della comunità e dei militanti in previsione dello scontro definitivo col potere.


  1. Quello dell’amministrazione delle zone liberate è in realtà un tema più antico e presente in molte storie di guerriglia, un esempio tra tutti è quello delle Repubbliche Partigiane in nord Italia durante la Resistenza del ’43-’45. Cfr.  M. Siena, Guerriglia e Autogoverno, Guanda Editore, Milano 1970 

  2. Ex membro della NAACP della North Carolina, primo ad organizzare un servizio armato di autodifesa contro i raid del KKK in contrasto con la dirigenza dell’organizzazione. All’inizio dei ’60, a causa della pressione giudiziaria, è costretto a fuggire latitante riparando prima a Cuba e poi in Cina. Il suo libro Negroes Whit Guns e la sua trasmissione radiofonica (trasmessa dall’estero) Radio Dixie, avranno un impatto potente sui giovani afroamericani in via di radicalizzazione. 

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