di Emilio Quadrelli
[Inizia oggi la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]
“È più piacevole e più utile partecipare alle esperienze della rivoluzione che scrivere su di essa.” (V. I. Lenin, Stato e rivoluzione)
La decisione del Governo ungherese di chiudere l’Archivio Lukács è un indicatore dei tempi.
Un indicatore che rimanda a quell’ora più buia già tristemente conosciuta dall’Europa. Riproporre Lukács allora è anche un atto, per quanto limitato, di resistenza. Limitato ma non inutile. La resistenza non nasce dal nulla ma da idee–forza in grado di armarla. Lukács è un’arma utile e attuale. Si tratta di imparare a maneggiarla.
Nel febbraio del 1924, a poche settimane dalla morte di Lenin, György Lukács dà alle stampe il pamphlet Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario. Un centinaio di pagine scritte di getto che, come proveremo ad argomentare, si mostrano uno dei testi più ricchi e densi della teoria politica marxiana dell’intero novecento. La sua complessità e ricchezza è tale da rivestire ancora nel presente molto di più di una semplice curiosità e ancor meno l’ennesimo omaggio malinconico al mondo di ieri. Se c’è una cosa che nel testo di Lukács sorprende e assieme stupisce è la sua attualità. Comunque prima di immergerci nell’esposizione del saggio lukácsiano è necessario dire qualcosa sull’autore: György Lukács è tutto tranne che una figura semplice, la sua condizione di militante costretto alla autocritica in permanenza racconta già qualcosa di non proprio irrilevante. In continuazione, e a questo destino non sfugge neppure il Lenin, Lukács deve far ricorso, per poter essere letto e pubblicato, a una qualche forma di ammenda. Paradossalmente ogni ortodossia instauratasi nel santuario comunista si è sentita in dovere di criticare Lukács almeno un poco, lasciandogli però sempre aperto lo spiraglio dell’autocritica. Figura intellettuale di prim’ordine cresciuto in quella fucina culturale, forse irripetibile, che è stata la crisi intellettuale del primo novecento europeo, ha una formazione ben poco in linea con ciò che diventerà l’ortodossia comunista1.
Weber e Simmel possono, a ragione, essere annoverati tra i suoi padri intellettuali tanto che non saranno pochi gli echi di questi autori che rimarranno presenti nelle sue opere2. A Marx giunge attraverso Hegel nei confronti del quale, anche nei momenti in cui lo stesso movimento comunista tratta il medesimo come un cane morto, continua a rivendicarne il tratto profondamente sovversivo racchiuso nelle sue opere, sottolineando in continuazione il debito contratto dalla teoria marxiana con la dialettica hegeliana3; del resto lo stesso Lenin rivolse qualcosa di più che un semplice apprezzamento alla hegeliana Scienza della logica, apprezzamento che gli epigoni fecero presto a riporre nell’oblio4.
L’oggettivismo e il determinismo, che iniziarono a farsi strada all’interno del movimento comunista, hanno il loro incipit proprio con la messa al bando della dialettica hegeliana che, ben presto, si mutuò in una messa al bando della dialettica tout court. Con questa, l’intera dimensione della soggettività di classe finì con l’essere crocefissa e sepolta nel folto mondo dell’eresia e, con lei, il partito dell’insurrezione normalizzato dentro la classica sociologia politica michelsiana5.
Paradossalmente l’ortodossia comunista, sempre prona a cercare influenze borghesi tra le righe dei pensatori scomodi, finì con l’assumere, proprio dentro il partito rivoluzionario, quel destino che non senza sofferenza Weber aveva profetizzato per il mondo moderno. Anche su questo Lenin, nella sua nota battaglia contro l’irrompere del dominio burocratico nei Soviet e nel partito, aveva avuto parole estremamente chiare. Come aveva ampiamente argomentato in Stato e rivoluzione, e su questo ci soffermeremo molto in seguito, compito della rivoluzione proletaria era, in primo luogo, spezzare la macchina statuale borghese, non riprodurla o addirittura ampliarla. Tra proletariato e borghesia vi è un salto storico, non un passaggio di consegne. Nella cuoca di Stato e rivoluzione Lenin sintetizzava al meglio l’essenza stessa della rottura rivoluzionaria. Cuore di questa rottura non può che essere la soggettività di classe. Il delinearsi e il rafforzarsi della gabbia d’acciaio non è un fatto tecnico ma politico. Non riconoscerlo significa negare alla classe il suo ruolo strategico e far riemergere e recuperare, sotto le spoglie della necessità oggettiva, l’apparato statuale tradizionale. In tale ottica, ovviamente, non vi può essere spazio alcuno per quel: “Bisogna sognare!” sul quale Lenin costruisce il programma rivoluzionario e che, nonostante le immani difficoltà che lo circondano, continua a far suo. L’ottobre è un cominciamento, “On s’engage…. puis on voit!”, qui è per intero Lenin. “Poi si vede!” ma dentro l’orizzonte della dialettica storica. In ogni cominciamento vi è solo una certezza, quella della radicale rottura. Questo, in fondo, è il Lenin che Lukács coglie e ci restituisce 6.
Autore difficilmente addomesticabile è stato costretto a vivere in una sorta di semi-clandestinità politica e intellettuale, trovando nel volontario confino dell’erudizione l’escamotage per poter continuare a scrivere e pensare, allontanando in tal modo da sé l’occhio vigile ma poco sveglio dei vari censori che si sono susseguiti nel vaglio dei suoi testi. Costretto, come si è detto, a criticare le proprie opere ogni qualvolta queste venivano nuovamente edite in realtà, tra le righe e le pieghe di ogni sua autocritica, vi è sempre la conservazione e la difesa del nocciolo duro di quanto sostenuto. Nella stessa introduzione a Storia e coscienza di classe del 1967, il testo nei confronti del quale, almeno in apparenza, sembra prendere con maggiore decisione la distanza, archiviandola come passaggio formativo dell’epoca giovanile, una lettura minimamente attenta mostra come gran parte delle tesi sostenute più che rinnegate vengano, per quanto in parte smussate, sostanzialmente riconfermate7. In ciò, inoltre, vi è una non secondaria finezza che sfugge per intero alle pletore dei censori. Nel legare Storia e coscienza di classe alla fase giovanile, avendo a mente quanto in quel testo Lukács civetti con Hegel, costruisce l’immagine di un giovane Lukács non poco affine al giovane Marx, quel giovane Marx che, dopo la scoperta e la pubblicazione dei noti Manoscritti insieme a tutta la sua opera giovanile, non pochi problemi stava dando alla teoria politica comunista mainstream. Il giovane Lukács, sembra dire il Lukács maturo, compie gli stessi errori del giovane Marx lasciando in sospeso, tra le righe, la domanda: ma questi sono stati veramente degli errori? In qualche modo, quindi, l’impressione è che Lukács rimodelli, nella forma voluta dai censori dell’epoca i suoi testi, continuando a mormorare eppur si muove.
Come tutti i pensatori di razza è rimasto pressoché immune alle insidie del tempo mentre, dei suoi solerti censori, se ne sono perse abbondantemente le tracce. Se già il nome di Zinoviev8, il grande accusatore di Storia e coscienza di classe, è forse ancora noto ai residui cultori della tradizione comunista, personaggi quali Deborin e Rudas9, grandi pubblici ministeri dell’ortodossia dell’epoca, difficilmente sono in grado di far sorgere un qualche ricordo mentre del grande ortodosso Ždanov tutti ricorderanno il valore militare mostrato a Leningrado, mentre stenderanno un pietoso velo di silenzio su tutto ciò che concerne teoria politica, arte, letteratura e filosofia10. Se il tempo del presente è spesso magnanimo con gli yes man, il filo del tempo è fortunatamente uso a parametri diversi. Al pari dei suoi vari maestri Lukács e i suoi scritti continuano a essere fonte non di risposte certe, bensì di continui interrogativi che, nella loro inattualità, continuano a mostrarsi attuali.
Con la rottura imposta dal ’68 Lukács conosce una non secondaria e profonda reinassance, le sue opere, dentro un movimento che non poteva che assumere le vesti dell’eresia, tornano attuali. Quell’Angelus Novus che è sempre alla base di tutte le insorgenze proletarie si scagliava, e non poteva essere altrimenti, equamente contro tutte le vestali dello status quo11, del quale il movimento operaio e il movimento comunista erano una componente non secondaria. Con il ’68 il tema dell’alienazione diventa centrale12, ma al contempo riaffiora prepotentemente, e ciò sarà particolarmente vero nel nostro paese, la questione della guerra di movimento che il movimento operaio ufficiale aveva, da tempo, riposto nell’archivio polveroso della storia di ieri13. L’attualità della rivoluzione torna a essere il qui e ora della lotta di classe. In tale contesto, l’autore che intorno alla attualità della rivoluzione aveva, al banco della storia, puntato tutto non poteva che ritornare attuale. Una attualità che non nasce in un qualche seminario, o tra le ristrette schiere dell’erudizione ma nell’insorgenza delle colonie interne occidentali, nella critica al socialismo reale, sulle barricate parigine per approdare e soffermarsi a lungo nelle lotte operaie e proletarie italiane, senza dimenticare l’apparire di quel soggetto, il colonizzato, che irrompe prepotentemente sulla scena storica ponendo questioni che il movimento operaio e comunista ufficiale è ben distante dal comprendere e ancor meno dall’accettare così come, a irrompere prepotentemente sulla scena politica, è la questione femminile e la critica al patriarcato, del quale l’ortodossia comunista rappresenta un pilastro non secondario. Proprio razza e genere saranno gli elementi che metteranno principalmente in crisi le retoriche dominanti all’interno dell’ortodossia comunista e che la renderanno del tutto estranea al riapparire prepotente dell’Angelo della storia. Non per caso tutti i partiti comunisti europei, e in special modo quelli di maggior peso politico come quello italiano e francese, si schierano apertamente contro il movimento e a difesa dello status quo. Puntualizzato ciò, riprendiamo il filo del nostro discorso.
(1 – continua)
Per una buona esposizione della complessa figura intellettuale di Lukács si veda, G. Bedeschi, Introduzione a Lukács, Laterza, Roma–Bari 1971. Sulla formazione di Lukács il bel lavoro di, F. Fortini, Lukács giovane, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003. Per un buon dibattito sulla figura intellettuale di Lukács e l’insieme di tradizioni filosofiche che precipitano nella sua elaborazione si possono vedere i saggi compresi in, AA. VV., Letteratura, storia, coscienza di classe. Contributi per Lukács, Liguori, Napoli 1977; T. Perlini, Utopia e prospettiva in György Lukács, Edizioni Dedalo, Bari 1968. ↩
Basti pensare al classico, G. Lukács, L’anima e le forme, SE, Bellaria (Rimini) 2012. Per una discussione su questi aspetti per nulla secondari della formazione intellettuale di Lukács si veda, A. De Simone, Lukács e Simmel. Il disincanto della modernità e le antinomie della ragione dialettica, Milella, Bari 1985. ↩
L’incontro con Hegel insieme all’influenza che questi esercitò costantemente nei suoi confronti è retrodatabile sin da quel, G. Lukács, Teoria del romanzo. Saggio storico–filosofico sulle forme della grande epica, SE, Bellaria (Rimini) 2015, iniziato nel 1914 e pubblicato nel 1920. L’interesse per la filosofia hegeliana rimase una costante dell’attività intellettuale di Lukács che lo accompagnò praticamente per tutta la vita. A Hegel e all’interpretazione della sua filosofia, e in particolare alle ricadute che La fenomenologia dello spirito, G. W. F. Hegel, 2 Vol., La Nuova Italia, Firenze 1973, avrebbero avuto per il materialismo storico – dialettico consacrò uno dei suoi lavori più importanti e significativi, G. Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, 2 Vol., Einaudi, Torino 1975 ↩
Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Editori Riuniti, Roma 1971 ↩
R. Michels, La sociologia del partito politico, Il Mulino, Bologna 1966. In questo testo Michels descrive il funzionamento del partito politico, indipendentemente dai suoi orientamenti ideologici, nelle società moderne. Una modellistica alla quale non sfugge alcuna forma politica organizzata la quale è del tutto interna alle retoriche proprie del mondo borghese. In ciò Michels ha sicuramente ragione. Tutti i partiti interni all’ordinamento borghese non possono fare altro che uniformarsi a questo ordinamento ma è esattamente qui che si situa la differenza e la rottura tra tutti i partiti della borghesia e il partito dell’insurrezione. Questi non è un altro partito che si presenta sulla scena della competizione borghese bensì il partito che si propone di affossare la borghesia, per questo la sua strutturazione non è commensurabile con quella degli altri partiti. Del resto, questo partito mira a spezzare la macchina statuale non a impossessarsene. La differenza con tutti gli altri partiti si colloca sul piano della rottura storico–politica con un’intera epoca, non con un programma di governo in competizione con altri programmi di governo. Il partito dell’insurrezione incarna la relazione classe contro classe e non, come solitamente avviene tra i partiti borghesi, quella tra ceti politici momentaneamente avversi. Prendendo a prestito Schmitt si può asserire che, mentre la relazione tra i partiti borghesi è riconducibile alla dimensione dell’inimicus, quella tra il partito dell’insurrezione e tutti gli altri partiti è contrassegnata dalla relazione amico/nemico in senso esistenziale. ↩
Questo è ciò che M., Cacciari, nella sua corposa introduzione ai testi lukacsiani pubblicati sulla rivista Kommunismus, Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917–1921, in G. Lukács, Kommunismus 1920–1921, Editore Marsilio, Padova 1972, sembra non cogliere. Cacciari, infatti, considera il destino weberiano come qualcosa di ineludibile e insuperabile per cui non può che ascrivere Lukács tra gli utopisti di ispirazione escatologica e millenarista. Ciò che sembra sfuggire a Cacciari è proprio quel cominciamento che la rivoluzione proletaria si porta appresso insieme a tutte le possibilità che un’era nuova, frutto di una rivoluzione di classe, apre. Cacciari rimane prigioniero del tempo del presente dimenticando che, quel tempo, non è un tempo impolitico ma è il tempo e lo spazio sedimentato dal capitale. Sfugge, ad esempio, a Cacciari, che la metodicità dei tempi, lo sfruttamento maniacale di questi non appartengono indistintamente alla società ma sono il frutto di una modellistica storico–politica che si è imposta attraverso quella religione, il protestantesimo, che, come ben argomenta M. Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991, meglio di altre incarnava lo spirito del capitalismo. In sostanza ciò che Cacciari nella sua critica a Lukács rimprovera è l’adesione incondizionata alle possibilità che la dialettica storica offre e, con ciò, il legame di Lukács con Marx. Non stupisce che, a partire da questi presupposti, Cacciari, con il suo realismo pragmatico, sia diventato uno dei principali alfieri delle società neoliberiste e se, tra le sue vene, scorre una qualche goccia di sangue hegeliano è quello dell’Hegel politicamente prono allo status quo e non l’Hegel dal quale Marx ricavò la possibilità dell’utopia comunista. ↩
Su questo aspetto si veda la bella introduzione di M. Spinelli, Storia e coscienza di classe cinquanta anni dopo, in G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973. ↩
G. E. Zinoviev diresse l’Internazionale comunista sino al 1925. Da quella postazione non irrilevante bollò di eresia Storia e coscienza di classe. ↩
A. B. Deborin filosofo e militante menscevico aderì al bolscevismo nel 1928 e divenne, anche se solo per breve tempo, un fanatico cacciatore di eresie. L. Rudas dirigente del partito comunista ungherese insieme al sopra ricordato Deborin fu tra i più accaniti avversari di Lukács e della sua eresia filosofica. Per una puntigliosa e anche ironica critica del loro operato si veda, G. Lukács, Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica, Edizioni Alegre, Roma 2007. ↩
A. A. Ždanov, vestale della cultura sovietica si mostrò, in realtà, assai prono a una cultura nazionalista e conservatrice. Intellettuale per nulla brillante si rivelò, invece, un organizzatore politico e militare di primordine dirigendo, con grande successo, le difese e la resistenza di Leningrado per tutto il suo lungo assedio sino alla liberazione. ↩
Il ’68 fu senza ombra di dubbio un momento di rottura storica che coinvolse tutti i sistemi politici. Oriente e Occidente furono scossi da un moto sovversivo dove il treno contro la storia sembrava nuovamente essersi messo in moto. Per una concettualizzazione di questa asserzione si veda il bel lavoro di G. Roggero, Il treno contro la storia. Considerazioni inattuali sul ’17, Derive Approdi, Roma 2018. La pubblicistica sul ’68 è sterminata e di difficile catalogazione per una sua ampia panoramica si può vedere, P. Ortoleva, I movimenti del Sessantotto in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988; volendo scegliere un paio di testi in grado di, in senso ampio, fornire l’humus culturale ed esistenziale del movimento occorre indicare in, H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999 il libro che ha sicuramente maggiormente segnato e influenzato tutta una generazione e F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007 che ha contribuito non poco a rompere con i dogmatismi in cui era precipitato il movimento comunista e a ridare fiato e respiro all’idea di rivoluzione totale che l’ortodossia comunista aveva da tempo seppellito dentro il pragmatismo imperante. Sia Marcuse che Fanon rilanciarono quel tratto escatologico che la stessa idea di rivoluzione si porta appresso. In questo senso non è neppure inessenziale ricordare, dentro il ’68, la scoperta di un autore come E. Bloch e i suoi, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2010 e ancor più, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 2005, edito proprio nel 1968, che ribadivano la necessità di pensare e praticare l’utopia marxiana del passaggio dalla preistoria alla storia. Fanon, inoltre, immetteva prepotentemente dentro il panorama politico occidentale il costante rimosso della “questione coloniale” un aspetto che, soprattutto in Germania, ebbe ricadute considerevoli, cfr. G. Bausano, E. Quadrelli, Ulrike Meinhof, Una vita per la rivoluzione, Interno 4 Edizioni, Rimini 2021. Infine, ma non per ultimo, va ricordato come proprio dentro il ’68 iniziò a imporsi prepotentemente il tema della questione di genere, sostanzialmente estranea alle retoriche del movimento comunista ufficiale, e come questo tema, nelle sue articolazioni più radicali, finì con il legarsi alle tematiche della razza scoprendo così il vaso di Pandora del colonialismo come non secondaria articolazione del dominio patriarcale. Patriarcato e colonialismo irruppero dentro il movimento del’68 creando non pochi problemi all’insieme della sinistra il cui volto bianco e maschilista, tanto che la famiglia ancorché in versione proletaria rimaneva un suo totem inamovibile, non la distingueva di molto dal mondo e dalla cultura borghese. Su questi aspetti si veda il bel saggio di A. Davis, Donne, razza e classe, Edizioni Alegre, Roma 2018. ↩
Di qua la renaissance di Lukács il quale, proprio intorno al tema dell’alienazione nella società capitalista, aveva incentrato parte delle sue opere giovanili e, conseguentemente a ciò, la ripresa di interesse per quell’umanesimo marxiano che, soprattutto le opere del giovane Marx, facevano albeggiare così come, l’aspetto etico dell’agire politico rivoluzionario, un tema che in Lukács compare in gran parte della sua elaborazione teorica, si impose come una vera e propria linea di condotta del ’68. Sotto questo aspetto, almeno come arco di senso, un’importanza sicuramente determinante lo rivestono i saggi lukacsiani raccolti in, G. Lukács, Scritti politici giovanili 1919–1928, Editore Laterza, Bari 1972. Quanto la renaissance di Lukács influenzò il ’68 è ben sintetizzabile in un testo, H. J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1983, una delle più importanti produzioni teoriche del ’68, il quale, proprio dai temi lukacsiani, prende le mosse. ↩
Al proposito si vedano, A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1994; P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944–1964, Einaudi, Torino 2014. Con Gramsci, che non a caso era stato posto ai margini dell’Internazionale comunista e dentro lo stesso partito comunista italiano viveva in una condizione di sostanziale isolamento politico, si fa strada l’idea che nei paesi a capitalismo avanzato la guerra di movimento, ossia la lotta rivoluzionaria violenta e insurrezionale, non potesse darsi e che, pertanto, il partito si dovesse attrezzare per una lunga guerra di posizione al fine di conseguire una egemonia culturale dentro la società civile. Di qui la teorizzazione dell’edificazione delle casematte della cultura che sarebbero diventate il cuneo attraverso il quale fare breccia nella società borghese. Un’ipotesi che Togliatti fece interamente sua dopo il suo ritorno in Italia nel 1944. Con ciò il movimento comunista rinunciava, per decreto, a qualunque possibilità rivoluzionaria imbracciando la mesta e fallimentare via del parlamentarismo. La deriva prima opportunista e poi apertamente collaborazionista e controrivoluzionaria che il PCI mostrò apertamente nell’era Berlinguer non è altro che il naturale approdo dell’assunzione della guerra di posizione come progetto strategico del movimento proletario. Una scelta che non ebbe sullo sfondo alcuna furberia tattica ma la reale e, occorre riconoscerlo, onesta rinuncia, in piena tradizione socialdemocratica, alla rivoluzione comunista. Un abbaglio e un malinteso, quello della furberia tattica, coltivato da molti sia nell’ambito della borghesia che in quello proletario. Su ciò si creò il mito della doppiezza di Togliatti il quale avrebbe ufficialmente optato per questa ipotesi continuando però a coltivare progetti rivoluzionari. Sull’inconsistenza di questo aspetto, diventato un luogo comune anche se del tutto privo di un qualche fondamento, si possono vedere, R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace 1943–1947, Editori Riuniti, Roma 1995; G. Bocca, Togliatti, Feltrinelli, Milano 2014. ↩