di Gioacchino Toni

Leonardo Quaresima, La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 114, € 12,00

A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, tra gli studiosi di cinema si è palesato un rinnovato interesse per l’opera, soprattutto “pre-americana”, di Siegfried Kracauer (1889-1966), sociologo, teorico del cinema e scrittore tedesco, naturalizzato statunitense, che ha indagato i fenomeni culturali propri della società moderna focalizzandosi sul cinema. A confermare la ripresa di interesse nei confronti di Kracauer, è la ripubblicazione in Italia, nel 2022, dopo due decenni di oblio, del suo Teoria del Cinema. La redenzione della realtà fisica (Cue Press, 2022), tradotto da Paolo Gobetti e curato da Leonardo Quaresima, testo uscito originariamente in lingua inglese nel 1960 e pubblicato per la prima volta in italiano da Il Saggiatore nel 1962.

È in tale contesto di rinnovato interesse per lo studioso tedesco che Leonardo Quaresima, con il suo La realtà, esiste? Leggere Kracauer nell’era digitale (Mimesis, 2024), si propone di esaminarne il “saggio dimenticato” – o, forse, sarebbe meglio dire frettolosamente “rimosso” – rapportandolo con la produzione degli anni Venti ed in particolare con un suo scritto sulla fotografia del 1927 contenuto nella raccolta Das Ornament der Masse (1962), anche questa recentemente ripubblicata in lingua italiana (La massa come ornamento, Cue Press, 2023) con traduzione di Maria Giovanna Amirante Pappalardo e Prefazione di Emiliano Morreale.

La prima pubblicazione in Italia di Theory of film. The redemption of physical reality, agli inizi degli anni Sessanta, era corredata da un’ampia introduzione di Guido Aristarco che ne metteva dapprima in risalto analogie con la concezione zavattiniana del cinema per poi estendere l’idea di realismo che ravvisava nel testo del tedesco alla produzione cinematografica allora contemporanea e alla nozione di “cinema d’autore” in auge all’epoca.

A differenza di quanto era accaduto per il volume From Caligari to Hitler. A psychological history of the German film (1947), a livello internazionale, soprattutto nei paesi anglosassoni, Theory of film è stato considerato un testo incapace di relazionarsi con con il dibattito culturale e teorico e con le nouvelles vagues del periodo. Anche in Germania, a partire dalla rivista “Filmkritik”, l’accoglienza è stata negativa sia sul versante della critica che dei cineasti.

Un’importante tappa del lavoro di storicizzazione dell’opera di Kracauer, ricorda Quaresima, si deve alla grande mostra del Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar organizzata nel corso del centenario della nascita dello studioso tedesco, iniziativa che ha contribuito allo studio dell’opera di Kracauer da parte di nuove generazioni di studiosi. A Miriam Hansen, ad esempio, si devono importanti approfondimenti circa il rapporto tra Teoria del cinema e l’attività critica e saggistica di Kracauer nel periodo weimariano.

Kracauer sembra ammettere il cinema narrativo soltanto fino a quando questo asseconda le proprietà ontologiche del mezzo, finché è capace di restituire un’illusione della realtà, mentre a proposito del cinema documentario palesa una posizione decisamente articolata e complessa, tanto che a proposito dei “film di fatti” ragiona sul loro non esplorare l’intera realtà fisica. Kracauer, come André Bazin (Qu’est-ce que le cinéma, 1958), propone una lettura ontologica del cinema, convinto che in ciò risieda la sua “natura specifica” derivata “dalle qualità fotografiche” presenti in esso. Il rapporto con la realtà resta per il tedesco il fondamento della specificità della fotografia e del cinema.

Riprendendo gli studi di Claudia Krebs (Sur le roman «Ginster», ou de Siegfried Kracauer, 2001), Quaresima sottolinea l’importanza dei romanzi di Kracauer Ginster (1928) e Georg (1934) per la genesi del suo saggio sul cinema. In ambito letterario Kracauer opta per l’anonimato, cosa per lui consueta negli anni weimariani, inoltre non manca di riprendere l’esperienza espressionista pur criticandola per l’eccesso di soggettività. Ad essa riconosce però il merito di aver fatto della città un oggetto poetico, non a caso in Theory of film l’esperienza della città assume notevole importanza.

«Nel 1960, nel pieno del trionfo della nozione d’autore e della nozione di stile, inteso, quest’ultimo, come espressione della presenza e operatività del primo, Teoria del cinema propone un impianto che non è fondato sulla nozione d’autore, e non è fondato sulla nozione di stile. Di qui le valutazioni di anacronismo» (p. 46). Contestualizzato il rifiuto di allora, Quaresima riflette su come si possa guardare al testo di Kracauer oggi, quando ormai ad essere andata in crisi è quella stessa radicale nozione di autore (proposta, tra gli altri, da Roland Barthes) che, allora, condannava all’oblio lo scritto del tedesco.

Teoria del cinema non è un saggio sulla nozione di realismo in generale […], ma una teoria materialista del cinema. La formulazione non avviene a partire da una disputa ideologica, e un ruolo decisivo non è neppure giocato dalla concezione ontologica del nuovo mezzo: parte dalla individuazione di un residuo duro, grezzo, non addomesticabile dai sistemi di produzione e rappresentazione, un nocciolo che resiste, sopravvive loro e possiede una “vitalità”, una capacità di significazione ed espressione, inesauribile. (Che neppure il moderno universo digitale e virtuale, aggiungo, sembra in grado di ammansire e vanificare). Tanto meno risulta addomesticabile da ogni pretesa di rifunzionalizzazione e riordino in chiave estetica. […] “Un ‘buon film’ non dovrebbe aspirare all’autonomia di un’opera d’arte, ma ‘contenere errori, come la vita, come la gente’” [scrive, riprendendo Federico Fellini, Kracauer in Teoria del cinema]. (Un’esperienza di realtà aumentata senza errori, mi permetto ancora di aggiungere, si limiterebbe a farci entrare in un universo, il più affascinante, il più coinvolgente, ma non in quello della vita) (p. 78).

Dunque, al di là del piano storiografico, di una sistematizzazione delle “teorie classiche” sul cinema, cosa ha ancora da dirci oggi Teoria del cinema, in un contesto di digitalizzazione delle immagini? Per rispondere a questo interrogativo Quaresima parte dalle riflessioni più avanzate circa lo sviluppo e la teorizzazione del cinema moderno, al culmine dell’era analogica nel momento in cui ci si è trovati a fare i conti con la svolta digitale e con la dissoluzione dell’aura di cui godeva nella lunga stagione della cinefilia. Jean-Louis Comolli ha sottolineato come il digitale, con la sua perfezione offra una “falsa trasparenza assoluta”, in cui “la materia si dissolve nei numeri” proponendosi ai soggetti in maniera individuale.

Tra i cineasti che hanno messo in risalto la fine del cinema così come lo si è conosciuto nell’era analogica, Quaresima cita, come esempi, David Lynch (“Il cosiddetto film che si guarda in un telefonino è semplicemente un alieno”), Peter Greenaway (il cinema è morto “quando il telecomando è stato introdotto in salotto”) e Jean-Luc Godard – autori che hanno saputo evitare di rifugiarsi nella nostalgia confrontandosi con le possibilità offerte dal digitale – o lo stesso Chris Marker (“In televisione vediamo l’ombra di un film, il rimpianto di un film, la nostalgia e l’eco di un film, ma mai un film”), mentre tra gli studiosi, oltre a Comolli, fa riferimento a Raymond Bellour (“Il cinema è dappertutto, compresa l’arte contemporanea, ma non è cinema” ed a Jacques Aumont (“Ogni presentazione di film che mi lascia libero di interrompere o di modulare questa esperienza non è cinematografica”).

Tra coloro che hanno interpretato in altro modo la svolta digitale Quaresima ricorda Philippe Dubois: oggi “il cinema è più vivo che mai, più sfaccettato, più intenso, più onnipresente di quanto non lo sia mai stato”; “Qualunque immagine in movimento, qualunque sia la sua forma è parte integrante del medium cinema”; “La pellicola non è più il criterio, né la sala, né l’unico schermo, né la proiezione, e neppure gli spettatori. Oui, c’est du cinéma. Un cinema dai mille luoghi. Cinema al di fuori della ‘Legge’. Selvaggio, deregolato, proliferante ben altro che in via di scomparire”; “la pellicola scompare, ma il cinema persiste, perché la supremazia dell’immagine e dei processi digitali di post-produzione non hanno inciso in modo significativo sulle regole narrative tipiche del film di finzione.”

André Gaudreault e Philippe Marion (La Fin du cinéma. La résilience d’un media à l’ère du numérique, 2023) guardano invece al digitale come ad una sorta di ennesima rinascita del cinema «coincidente con una nuova ricerca di identità, ma che tuttavia, nella intermedialità e integratività che la caratterizza, comporta un “ritorno alla porosità, al pot-pourri, alla ibridazione, alla fertilizzazione incrociata, di cui il medium è intriso nella sua prima nascita”» (p. 88). David Norman Rodowick (The Virtual Life of Film, 2007) vede in Theory of film di Kracauer uno egli ultimi grandi lavori della “teoria classica” del cinema che si può proiettare al futuro più che al passato.

Quaresima riprende la questione dell’indexicalità, su cui si fondano tanto la fotografia quanto il cinema, che con la svolta digitale sembra venir meno. Dalla registrazione della realtà si passerebbe alla sua ricostruzione, il legame con il referente tenderebbe a dissolversi in favore di quello che (nell’introduzione di Theory of film di Kracauer) Miriam Hansen definisce il “regno della simulazione”. «Fiumi di inchiostro sono stati versati su questa nuova, artificiale, sintetica, qualità dell’immagine elettronica» (p. 89), ma Quaresima si dice convinto che tale certezza circa la perdita del legame con il referente possa essere messa in discussione, come del resto hanno fatto, tra gli altri, Mary Ann Doane (The Emergence of Cinematic Time: Modernity, Contingency, the Archive, 2002), Temenuga Trifonova (Archiving Time in the Post-Modern Condition, 2011), Marc Furstenau e Martin Lefebvre (Digital Editing and Montage. The Vanishing Celluloid and beyond, 2002).

Indipendentemente dai processi di generazione, resta il fatto che il visibile dell’immagine digitale è quanto di più realistico sia oggi possibile. «Presenta universi implicitamente (perché ricostruiti numericamente), e anche esplicitamente, fantastici, ma ce li sottopone alla percezione come universi coerenti, dettagliati, dalla evidenza fisica, costruiti per produrre gli stessi effetti percettivi di un’immagine reale (nella sua riproduzione fotografica, diciamo)» (p. 90). Dunque, scrive Quaresima, «Il digitale trasforma il fantastico in realtà “materiale”. Anche in una prospettiva essenzialista, se facciamo riferimento al modo di esistenza percettivo delle immagini in questione, restano in vigore tutte le qualità del film analogico» (p. 90).

Lutz Koepenick (In Kracauer’s Shadow: Physical Reality and the Digital Afterlife of the Photographic Image, 2012) sottolinea come la svolta digitale non comprometta affatto l’attualità della teoria fotografica proposta da Kracauer e, scrive Quaresima, contesta «l’idea di una “rottura con l’indexicalità” dell’immagine digitale, facendo riferimento al ruolo della luce che colpisce la superficie sensibile, all’inclusione del corpo del fotografo, e a una valutazione delle manipolazioni, rese possibile dal software, non diverse da quelle realizzabili nella camera oscura» (p. 90).

Certo, le immagini digitali possono falsificare il reale, come del resto poteva fare, ed ha fatto, la fotografia convenzionale, “ma nel momento in cui falsificano il reale, inventando nature alternative e allontanando gli osservatori da vedute preconcette, anche le immagini digitali fanno riferimento a nient’altro che la nostra fondamentale aspirazione a forme indeterminate di esperienza percettiva e corporea, aspirazione a ciò che è materiale e sensibile – e lo fanno in maniera forse più forte di quanto mai avesse fatto l’immagine analogica” (Lutz Koepenick, In Kracauer’s Shadow, cit.). Se è pur vero che la fotografia digitale “disintegra il corpo della realtà in reti di pixel”, continua Koepenick, “tuttavia i pixel non sono solo codici astratti o rappresentazioni immateriali di set di numeri. Essi, a loro volta, hanno un corpo, e in questo modo sono legati proprio alla realtà che evocano. Occorre partire dalla presa d’atto che le immagini fotografiche, digitali o no, portano con sé una certa promessa di tocco e contatto fisico, e segretamente contestano la totale dematerializzazione della natura e l’inquadramento scientifico della realtà fisica”

Nell’ultima parte del volume, Quaresima si sofferma sul significato che si può attribuire al termine “redenzione” presente nel sottotitolo (The redemption of physical reality) di Theory of film di Kracauer. In prima battuta si potrebbe affermare che «il cinema redime la realtà fisica, cioè permette alla realtà di manifestarsi attraverso la macchina da presa, realtà altrimenti come annebbiata, offuscata» (p. 94). Insomma, analogamente a quando riteneva Walter Benjamin (L’opera d‘arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica), anche Kracauer sembrerebbe pensare alla capacità del film di svelare aspetti della realtà altrimenti preclusi agli occhi; su ciò Quaresima riporta, come esempi, gli studi di Graeme Gilloch (Siegfried Kracauer. Our Companion in Misfortune, 2015) e Gertrud Koch (Siegfried Kracauer. Zur Einführung, 1996).

Theory of film è stato anche inteso come precursore della “filosofia del cinema” e nello specifico del tema della “redenzione”, riferimenti diretti, secondo Drehli Robnik (Among Other Things – a Miraculous Realist, 2012), si possono individuare in Gilles Deleuze (L’Image-temps, 1985) e Jacques Rancière (La Fable cinématographique, 2006). Quaresima evidenzia come in Kracauer il processo di redenzione della realtà fisica sembri derivare da presupposti teologico-messianici, dal desiderio di riscattare l’esistenza materiale dall’astrazione provocata dal processo di razionalizzazione del mondo.

Che Teoria del cinema non sia un testo semplicistico, come a lungo e diffusamente è stato ritenuto, risulta evidente soprattutto nella lettura dell’Epilogo e, scrive Quaresima, non lo è a maggior ragione in un periodo come quello contemporaneo

in cui l’immagine in movimento regna sovrana, e ben al di là dell’ambito della comunicazione e dell’“intrattenimento”, sorta di iconosfera che avvolge e permea la nostra esistenza. Il cinema, ciò che dell’immagine in movimento conserva la vitalità e la operatività del cinema, quello che “sì, è cinema”, esercita pienamente e trionfalmente la stessa funzione di redenzione della realtà. Nel continuum visivo, un’installazione ci tocca nel profondo, una serie ci turba e mette in discussione, un videoclip fa scattare una scintilla, un film (ne esistono ancora, certo, anche se per lo più fuori dal dispositivo classico – sullo schienale del sedile di un treno o di un aereo, quotidianamente dai nostri dispositivi “intelligenti”); un film investe il nostro inconscio ottico, un’esperienza di realtà virtuale ci fa entrare in vibrazione, fa scattare le nostre risposte psicofisiche, ci riporta a contatto con ciò che l’immagine digitale ha tutt’altro che archiviato in un’epoca ormai passata. Quella “cosa”, quelle “cose” possiamo chiamarle “realtà fisica”. Le immagini salvano ciò che ci circonda e la nostra esistenza. La redenzione è una riattribuzione di parola. Redimere la realtà significa riportarla a una esistenza non funzionale, non simbolica, ma “letterale”, “materiale” (p. 101).

Ci si è chiesti se, dopo una tragedia come quella dei campi di sterminio nazisti, esista ancora il cinema, se cioè il cinema possa far “aprire gli occhi” consentendo di guardare l’orrore e di redimerlo dall’invisibilità. Kracauer non segue il convincimento di Bazin che riteneva la morte irrappresentabile sullo schermo ma, conclude Quaresima, «Che si propenda per la linea Bazin o per quella dello studioso tedesco, è qui, anche, che si misura la possibile attualità di Kracauer, la capacità o meno del suo pensiero di interagire, in profondità e fruttuosamente, con l’universo attuale delle immagini in movimento» (p. 107).


Il reale delle/nelle immagini – serie completa