di Francesco Festa

Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, Bari-Roma, 2024, pp. 116, € 14.00

Ha senso parlare di storia dal “basso” o di storia di persone comuni? I vinti, gli ultimi, i «dannati della terra», per dirla con Frantz Fanon, possono avere cenno in un libro di storia? Per meglio dire: i senza nome e i senza volto, gli uomini e le donne delle classi “inferiori” possono trovare menzione nei libri di storia alla pari dei protagonisti ufficiali della Storia?
La Storia è una materia assai strana: le conversazioni pubbliche spesso tendono a trattare temi storici infarcendoli di luoghi comuni, di miti popolari e giornalistici; ed è anche la materia con meno fondi di ricerca universitari proprio col fine di mantenerne i temi nell’incertezza e appannaggio delle vulgate – mentre nel mondo anglosassone proprio le discipline storiche sono tenute in grande considerazione, in particolare nei dipartimenti di italianistica. In questa ambivalenza è facile scivolare nell’uso pubblico di categorie e slogan pregni di immagini, stereotipi, metafore e messaggi che sono materia per la “cultura di destra”, come ha mostrato Furio Jesi, e che sono argomenti per i partiti, le formazioni di destra, di governo e neofascisti, così come, in una corsa al massacro, argomenti della sinistra social-democratica.

D’altronde la conoscenza storica si differenzia dalle scienze naturali per il suo orientamento verso l’individualità in luogo della generalità; in altri termini, lo storico coltiva la consapevolezza degli avvenimenti al fine di vivificarli e di azzerare la distanza tra la cronaca (historia rerum gestarum) e la Storia (historia res gestae), e rendendo quest’ultima sempre contemporanea. Ciò nonostante la Storia – con la maiuscola, e non è un vezzo ma un valore distintivo – viene narrata dai vincitori e scritta dagli intellettuali espressione delle classi dominanti, i “mediatori” come li definiva Gramsci fra le classi subalterne e la borghesia. E non a caso, la Storia divulgata dai programmi ministeriali, nei libri di scuola, oppure quella su cui vengono stampate pagine e pagine di libri per riempire vetrine natalizie o impilate agli ingressi degli Autogrill, fra un noir, un peluche e un dopobarba, sono saggi di storia politica e sociale su personaggi arcinoti, i “grandi uomini” che hanno fatto la Storia. In realtà non è proprio così.

I nomi sconosciuti, il “signor nessuno” o la “signora nessuno”, gli episodi marginali sono il tessuto connettivo sul quale si innestano i grandi avvenimenti. È la “gente comune”, di cui non se ne parla, che ha un ruolo fondamentale nella Storia. Certo, avverte Carlo Ginzburg in Il formaggio e i vermi, quando ci si proponga di studiare la cultura popolare, occorre mettere in conto che essa è una «cultura imposta alle classi popolari». Ciò nondimeno, come soddisfare la curiosità di conoscere non tanto la storia dei Mazzini, dei Garibaldi o dei nomi dei monumenti e delle strade famose, o le gesta dei re, ma le storie minori, rispondendo alla domanda del «lettore operaio» di Brecht, «Chi costruì le sette porte di Tebe?»

Con queste domande, apparentemente insondabili, eppure profondamente affascinanti e più diffuse di quanto si immagini, che vale la pena di leggere il libro di Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia. Il titolo è un ribaltamento delle intenzioni dell’autore: leggere i molteplici modi tramite i quali lo storico distante dalle vulgate ufficiali e accademiche, con uno sguardo critico, cerchi di umanizzare la Storia, ossia, di parlare delle storie vive, di persone ordinarie che hanno fatto la Storia.
Il libro si presenta come una sorta di manuale di metodologia storica, introducendo il lettore nello studio dello storico, fra carte, libri, fonti, mappe concettuali, tutto ciò che vada vagliato per ricostruire percorsi e gesta di gente comune – anche Greppi ha così titolato un libro del 2016, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile – nel rapporto con le più generali e note vicende storiche, ossia, nel tentativo di spostare di lato i personaggi ingombranti che oscurano la vista alle persone comuni che hanno realmente prodotto quelle storie, eppure non sono menzionati, né riconosciuti come gli artefici.

La ricerca storica scava, indaga, spolvera, interroga; ripropone a chi è vivo oggi storie di chi ha vissuto ieri: vecchie conoscenze sedimentate e inediti percorsi, di norma anche grazie alla scoperta di nuove fonti, su vicende che qualcuno, per forza di cose, in passato deve avere conosciuto. Fosse anche solo la comunità umana di riferimento – la famiglia, il quartiere, il paese – del “signor nessuno” o della “signora nessuno.” (p. 16)

A dir il vero la storiografia italiana è ancora ostaggio dello storicismo di scuola crociana e gentiliana, nell’accademia in particolar modo e, di riflesso, negli apparati ministeriali ed istituzionali, così come nella redazione dei libri di testo e nei programmi d’insegnamento. È dunque impensabile che una «storia dal basso» possa avere cittadinanza in tale contesto storico-politico; d’altro canto le discipline storiche sono un termometro dello stato di salute di un paese: riflettono i rapporti di forza nella società, la composizione di classe e dei rapporti di produzione, delle posizioni politiche e delle idee maggiormente diffuse. Il modo in cui viene narrata la storia passata al presente è la cifra della condizione di una società. Ciò detto la gente comune non può avere spazio, oggi come oggi, nei programmi e nella pubblicistica a patto che non se ne faccia battaglia culturale e politica.

Vi è poi un aspetto ermeneutico da considerare: la storia della gente comune non rientra nei piani teleologici di una Storia volta verso il progresso, come una freccia proiettata verso l’alto, verso il miglioramento continuo. A ben vedere è il contrario. Il Novecento o anche gli avvenimenti a noi più prossimi mostrano come la Storia sia frammentaria, discontinua, per dirla con Walter Benjamin, composta di rotture radicali, e le civiltà non siano affatto proiettate verso il miglioramento: il progresso è un mito. Questa, in realtà, è la biografia del capitalismo: la Storia volta verso il regresso e l’estinzione. Altro che Storia giunta alla fine, com’ebbe a dire il politologo neoliberista Francis Fukuyama, quale vittoria del capitalismo sul comunismo, dell’individualismo sulla società, con la celebrazione del self-made man, della proprietà privata, del modello statunitense e della democrazia neoliberista. Forse quella di Fukuyama è stata la previsione della fine, il capolinea del sistema-mondo capitalistico.

L’incubo sociale è la guerra mondiale ormai imminente, ma invero la guerra permanente non ha mai abbandonato la storia contemporanea: le Twin Towers, l’invasione dell’Afghanistan sono state il superamento della soglia, anche se la soglia è stata violata ripetutamente con le guerre in Iraq e la guerra latente all’“orientalismo”, come denunciato alla fine degli anni Settanta da Edward Said, mostrandone il dispositivo alla base delle persecuzioni contro il popolo palestinese e, complessivamente, contro la diversità e la differenza. Certo va anche detto che tali avvenimenti sono narrati attraverso l’uso di svariati mezzi di comunicazione: in particolare, con la diffusione delle serie televisive si sono moltiplicate le fiction su personaggi storici, più o meno noti, ma quasi sempre integrabili nel mainstream e mai fuori l’ordine del discorso. Così le storie ricostruite nelle serie della Rai sono edulcorate, annacquate, biografie di personaggi popolari, di “grandi” politici il cui effetto è una sorta di distrazione se non di detournement o di straniamento dalla realtà. Un po’ meno, va detto, nelle fiction di Netflix e di altre Pay Tv, dove ad esempio avvenimenti degli anni Settanta e Ottanta su organizzazioni extraparlamentari, casi giudiziari, e tanto altro ancora, sono narrati dal “basso”; il che è anche l’esito della diffusione di romanzi e racconti definiti da Wu Ming 1 New Italian Epic, ossia, quel particolare tipo di narrativa metastorica con tratti peculiari derivanti dal contesto italiano di fine e inizio secolo e millennio.

Tuttavia Greppi definisce un discrimine nel suo parlare di uomini ordinari e di donne ordinarie, un fattore che li faccia uscire dall’anonimato: la capacità di ricostruire il vissuto di coloro che hanno avuto una funzione sociale e politica peculiari vicende storiche. Il che richiede di coltivare un punto di vista definito, di parte, politico.

Se la storia si prende cura innanzitutto dei vivi – osserva Greppi – suggerendo loro cosa è degno di essere ricordato e in che modo, chi se ne occupa deve essere il più possibile consapevole del fatto che il suo lavoro ha anche una funzione politica, in senso esteso. Non è un caso che, in scia al celebre invito di Benjamin a “passare a contrappelo la storia”, l’ondata di interesse di storici e storiche per il “basso” impennatasi in particolare nell’ultimo terzo del Novecento ha avuto proprio delle motivazioni, anche esplicitamente, politiche. (p. 91)

In tal senso i postcolonial studies e i subaltern studies hanno contribuito profondamente a decostruire il pensiero occidentale e le grandi narrazioni, ossigenando la Storia tramite l’introduzione di piccole storie, come avverte la scrittrice indiana Arundhati Roy nel suo romanzo postcoloniale, Il dio delle piccole cose. Oppure come si chiede la filosofa anglo-indiana, Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak? Un processo di decostruzione che ha minato le basi dell’eurocentrismo, anzi, prova a «provincializzare l’Europa», a partire dall’analisi della condizione del subalterno nella concezione gramsciana di Storia: fronteggiare la frammentarietà dell’organizzazione sociale e politica dei subalterni e contenere l’assoggettamento culturale all’egemonia dei ceti intellettuali quali mediatori della borghesia proprietaria.

Il libro di Greppi ci invita sì ad umanizzare la storia, ma ci chiede anche di prendere posizione, consci che parlare dei vinti anziché dei vincitori, delle persone in carne e ossa, dei lavoratori e dei subalterni è anche e soprattutto una lotta politica che chiama in causa i movimenti sociali e di classe. Senza una presenza politica di tale spessore – e numerica e di idee – tale invito diventa testimoniale, parziale e di nicchia.
In ultimo un ricordo personale. Nel leggere storie che non fanno la Storia ho pensato a un episodio in cui mi sono imbattuto durante la ricerca sulla storia del terremoto in Irpinia del 23 novembre 1980, raccolto nell’introduzione al secondo volume, Gli autonomi. Storia dell’Autonomia operaia meridionale, che ho curato con Antonio Bove per i tipi di Derive Approdi. L’episodio narra di un contadino, un “povero Cristo”, che aveva perso tutto e che con un gesto tanto inconsulto quanto concreto cercò di attivare l’attenzione e, chissà, smuovere la coscienza del Presidente della Repubblica italiana. Ne riporto integralmente il testo che rende testimonianza più di tante parole.

Raccontano che il 24 novembre ‘80 il presidente Sandro Pertini, in visita ai paesi terremotati dell’Irpinia sia stato colpito da una pietra lanciata da un uomo di Laviano. Chissà cosa gli sarà passato per la testa, a quell’uomo. Sarà stato un turbinio di emozioni ad armarne il braccio, la rabbia mista a disperazione e sconforto dinanzi alle macerie. Il bersaglio di quella pietra era preciso, però, non solo un lancio disperato e liberatorio ma un atto consapevole contro «lo stato di cose presente». Quello stato di cose che non è il frutto di una catastrofe inaspettata ma il prodotto di una stratificazione di colpe e di assenze che hanno fatto da contorno a quell’evento epocale e sconvolgente. Quella pietra era scagliata contro un’entità assente e lontana ma responsabile: lo Stato italiano. Avrà pensato, l’uomo con la pietra, che proprio l’entità rappresentata da quell’uomo con la pipa e non la catastrofe improvvisa, era colpevole, a distanza di un secolo dall’unificazione, della povertà di quelle “terre dell’osso” e di riflesso di tutto il Meridione, tradotto nella «modernità» ma tenuto ai suoi margini, dentro quel processo chiamato “boom economico” che ha solo lambito il Sud, giunto nell’entroterra tramite la radio e la televisione in bianco e nero, e alle volte grazie ai racconti e, soprattutto, alle rimesse degli emigranti, che come una sorta di welfare familistico ha permesso di fronteggiare miseria e inedia. Delle promesse di progresso e ricchezza nemmeno l’ombra. Avrà pensato a tutte queste cose, l’uomo con la pietra.

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