di Mauro Baldrati
Entrare nella grande mostra di Tina Modotti è come iniziare un viaggio nel tempo. Le stampe, circa 120, coprono il periodo di un decennio, dai primi anni ’20 ai ’30, il segmento temporale in cui Tina si occupò a tempo pieno di fotografia.
La tecnologia dell’epoca – gli albori della fotografia moderna – produceva stampe dai toni morbidi, con ridotta profondità di campo per cui se erano a fuoco il naso e gli occhi le orecchie iniziavano a sfumare nei contorni. Per dire, in era analogica questo effetto fu ripreso e perfezionato dalle stampe Polaroid, che assumevano suggestioni antiche, diciamo pure vintage.
Questa caratteristica, soprattutto nelle prime stampe di piccolo formato, potenzia la percezione onirica, per cui sembra – forse sogniamo? – di udire i suoni, le grida, le musiche del Messico rivoluzionario, dove Tina ha vissuto parte della sua vita convulsa e veloce, proprio come la candela di Blade Runner.
Tina Modotti appartiene a quella fratellanza artistica in cui la vita e l’opera si fondono in una osmosi perfetta, spesso dominata da tensioni e contraddizioni, proprio come l’arte rappresenta la vita, con tutte le sue gioie e i suoi conflitti.
Per conoscere o approfondire la sua biografia è fondamentale il libro di Pino Cacucci, Tina, un testo bellissimo e terribile, una biografia romanzata ma precisa che ci introduce in quei tempi eroici e violentissimi in cui Tina è passata come una meteora. Un corpo celeste che, mentre sfrecciava rapido, iniziava perdere velocità e luminosità, fino a spegnersi nella morte precoce, nel 1942 a 46 anni.
Ha vissuto gli entusiasmi e la creatività selvaggia della rivoluzione, ha conosciuto e frequentato quella specie di orco buono di Diego Rivera, che l’ha sempre amata e sostenuta, difendendola dalle calunnie degli agenti stalinisti, che in Messico, come in Spagna durante la guerra civile (qui le pagine di Cacucci sono atroci), avevano come unico scopo far fallire le rivoluzioni che non sottostavano al controllo del Comintern, e di assassinare i leader e gli attivisti.
La sua casa di Città del Messico era un ritrovo di rivoluzionari, di anarchici, di trockisti, poeti come Machado e Octavio Paz, artisti come Frida Kahlo, dove si festeggiava, si ballava e si discuteva senza fine.
Durante questa golden age Tina ha affinato la sua tecnica fotografica, sotto la guida dell’americano Edward Weston, forse l’amore più grande della sua vita, iniziando quel lavoro di fotografa militante alla quale si può attribuire la nascita del reportage sociale e politico. Fotografi come Robert Capa, Gerda Taro e David Seymour le devono molto. Ha viaggiato in Messico in tutte le latitudini e ha fotografato una moltitudine di personaggi del popolo, documentando le dure condizioni di vita proletaria e contadina. Del suo lavoro scrisse il critico Egon Erwin Kisch:
Il suo segreto è riuscire a rendere una visione della realtà attraverso l’immagine che lei ha del mondo. Ciò significa che gli occhi tristi di un bambino riesce a renderli più belli dello sguardo di una reginetti. E i paesaggi industriali, i mezzi di produzione, le mani, le chitarre… appaiono più affascinanti delle verdi strade svizzere (il riferimento di Kisch si riferisce a una fotografia che Tina probabilmente scattò durante un viaggio clandestino in Svizzera per conto di Soccorso Rosso Internazionale ndr). Ma gli uomini del suo mondo non sono felici. Perché? E’ questa la domanda che sorge dalle sue fotografie.
La mostra espone le famose foto delle donne indio coi cesti sulla testa, i contadini, i bambini del Messico profondo e rurale, immagini in still life dell’estetica rivoluzionaria, la falce e il martello sopra una chitarra, o sulle pannocchie di mais. Non mancano i ritratti e i nudi realizzati da Weston, i volti e il corpo della “bellissima rivoluzionaria italiana” come la definivano le informative dell’OVRA, la polizia segreta fascista che la spiava, la schedava e la inseguiva.
Nessuno, forse, neanche un attento e sensibile biografo come Cacucci, può penetrare in profondità nella decisione di Tina di abbandonare la fotografia, che pure viveva come una militanza non solo artistica, per tuffarsi nell’attività rivoluzionaria vera e propria. Diventa un’organizzatrice instancabile di Soccorso Rosso Internazionale, l’ente che si occupa dell’assistenza ai rivoluzionari in difficoltà, poi, in Unione Sovietica, funzionaria del Comintern.
Sottoposta, nonostante l’impegno sincero e la serietà che la distingue, alla politica del sospetto paranoide del terrore staliniano, braccata dall’OVRA, viaggia per il mondo a fianco di uno dei più pericolosi agenti del regime stalinista, col quale ha una storia sofferta e per certi aspetti incomprensibile, il demoniaco “italiano”, Vittorio Vidali.
Non riprenderà mai più in mano la macchina fotografica, bloccata da un senso di rifiuto che nessuno potrà scalfire, neanche Robert Capa e Gerda Taro, che in Spagna tentano di convincerla sull’utilità della fotografia militante.
Resterà sempre una rivoluzionaria totale, nonostante i ripetuti tradimenti, le involuzioni, i crimini, chiusa in se stessa “silenziosa, malinconica nella sua cupa impenetrabilità”, fino alla fine, quando, a Città del Messico, sola, in un taxi, un infarto la stroncherà.
Ma le circostanze sono e restano esposte a molti dubbi e forse non saranno mai liberate dal pesante sospetto di “classica eliminazione stalinista”, come scrisse un giornale dell’epoca.