di Franco Pezzini

Innesti da raccapriccio e mamozzi di cera (racconti 1905-1908)

Abbiamo lasciato Meyrink a Vienna: nel frattempo si è risposato con Philomena Bernt, ma per evitare tre anni di galera in Austria per le sue posizioni antimilitariste si trasferisce con la moglie a Montreaux in Svizzera (1905-1906, dove nasce la figlia Sibylle Felizitas). In qualche modo all’Austria renderà la pariglia rifiutando di considerarsi uno scrittore austriaco: come chiarirà a Korfiz Holm della casa editrice Langen (lettera 2 aprile 1915), Gustav non accorda alcun valore al criterio della nazionalità. Altro schiaffo, in fondo, alle letture ultradestrorse dell’autore.

Continua a scrivere racconti, anche se ha in testa l’idea di un romanzo. La sua scrittura si consolida coi connotati che abbiamo imparato a riconoscere – una vena fortemente visionaria, immaginifica: spesso i suoi racconti si reggono su alcune immagini di forte impatto, che fanno pensare alle trovate del futuro espressionismo cinematografico tedesco. Del resto a Praga Gustav era stato amico di artisti (pittori, scultori), a Vienna di Adolf Loos, uno dei pionieri dell’architettura moderna, e di Fritz Wärndorfer, banchiere e mecenate di studi artistici – che l’aveva aiutato economicamente dopo l’uscita di prigione – e le concezioni artistiche di quegli ambienti, per esempio lo Jugendstyl, influiranno la sua scrittura. Importante sarà poi anche la lunga amicizia e la stima per Alfred Kubin, poi richiamato in uno dei suoi racconti. Come spiegherà Gustav stesso nel saggio Immagini nello spazio aereo (Bilder im Luftraum, “Berliner Tagblatt”, 1927) il suo pensiero è costituito principalmente da immagini, e questa caratteristica sarà poi evidentissima anche nei romanzi.

È questa la stagione di alcuni racconti molto noti, a partire dall’inquietante Bal macabre (Bal macabre, “Simplicissimus”, 12, 1905) che in tono grottesco alla Poe evoca un ritrovo in una sorta di locale notturno da fantasia di Otto Dix, il Club Amanita: qualcuno vi affabula di una comunità di soggetti considerati morti ma conservati in stato di catalessi dall’inquietante gobbo Arum Maculatum – il nome di una pianta velenosa – che con un certo procedimento permetterebbe alle loro anime di vagare e darsi ai vizi più corrotti, attaccandosi come zecche ai viventi per causarne la degradazione, e derubando “le masse delle loro sensazioni per arricchirsene esse stesse”. In un clima delirante, i presenti finiscono tutti intossicati: il narrante sembra l’unico a salvarsi, ma sospetta che gli altri siano finiti, solo apparentemente morti, sotto le cure di Arum Maculatum. Il fatto che personaggi e gruppi richiamino al mondo vegetale è di nuovo parallelo alla presenza di vegetali senzienti come quelli di Cinderella o in qualche modo la tossica Mercedes di Lacrime bolognesi.

Seguono un paio di deliziose favole con animali largamente antropomorfizzati (come peraltro spesso nelle favole). Chitrakarna (Tschitrakarna, das vornehme Kamel, “Simplicissimus”, 17, 1905) vede in scena alcuni predatori (Pantera, Leone, Volpe, Corvo) intenti a giocare a carte, domandandosi perplessi il senso di quella moda del bushido – intesa come eleganza cavalleresca – giunta dal Giappone. Arriva tra loro, prima preoccupato e poi sussiegoso, Enrico S. Chitrakarna, il Cammello comme il faut, che dopo aver letto Oscar Wilde importa tra gli animali proprio quella moda: diventa tanto fastidioso che, con la stagione delle piogge a esasperare i carnivori, troveranno un modo molto beneducato di mangiarselo. “Già, Bushido non è proprio roba da cammelli”.

La storia del leone Aligi (Die Geschichte vom Löwen Alois, “Simplicissimus”, 31, 1905) è una fiaba lieve e sottilmente beffarda: in Afghanistan, un leoncino – è il leone asiatico, meno noto dell’africano – rimasto senza madre viene adottato da un branco di pecore. L’incontro con un vecchio leone starebbe per convincerlo della verità, ma “il dottor Simulans, il signor Pastore” lo convince trattarsi di un inganno del Nemico e lo esorta a sposare la pecorella che gli piaceva, Scolastica Ceterum. Segue lieto fine…

Di nuovo agghiacciante, Le piante del dottor Cinderella – o Cenerentola (Die Pflanzen des Doktor Cinderella, “Simplicissimus”, 43, 1905) prende le mosse dall’ossessione per una statuetta egizia in bronzo dissepolta accidentalmente a Tebe, che un vecchio collezionista arabo spiega essere imitazione di un geroglifico a indicare “un ignoto stato d’estasi”. Il narrante è colto dall’intuizione di dover imitare la postura della statuetta: dopo aver provato a lungo finisce in stato catalettico e vive un’esperienza di uscita dal corpo, ma da allora soffre di sempre più frequenti accessi tormentosi di una forma simile alla follia. Ode suoni strani, vede luccicare colori, gli appaiono esseri enigmatici e la sua anima viaggia di continuo nell’oscurità. Come una notte, strappato dal letto da qualcosa che lo spinge nelle tranquille, sinistre stradine della Kleinseite. Lì avverte di essere occhieggiato da qualcuno – dal basso, come farebbe un cane – e poi si scopre a spingere la porta accostata di una misera casa asfittica, dove attraversa un corridoio e scende in cantina come fosse casa sua. Qualcuno è seduto su un gradino, ma con le mani piegate in modo stranissimo, quasi fosse un cadavere; lui riprende a camminare a tentoni e si trova a sfiorare un graticcio per piante rampicanti: tocca anzi “un oggetto tondo della grandezza di una noce, freddo al tatto e che subito si ritrasse”. Ma un balenio di luce plausibilmente dall’esterno gli permette l’orrenda visione del muro completamente “coperto da una rete di tralci di vene turgide di sangue da cui sporgevano, come acini, centinaia di occhi spalancati”. Non spoileriamo oltre sugli orrori della cantina – “Chi poteva essere il diabolico giardiniere che aveva concepito quell’orrenda creatura?” – ma alla fine eccolo portato al commissariato e interrogato per il suo comportamento sospetto. Biascica qualcosa circa “un assassinio in una cantina della Tuschengasse”, ma il commissario gli ribatte che è assurdo, “il dottor Cinderella è un grande studioso, un egittologo e coltiva molte piante nuove che si nutrono di carne”… finché un personaggio con l’aria da ibis d’un dio egizio non appella il protagonista stesso come dottor Cindarella. Tutto ciò tre settimane prima: da allora, a scissione ormai consumata della sua identità, si trova “il volto diviso in due parti differenti e trascin[a] la gamba sinistra”. Ma non ha più trovato quella casa, e al commissariato nessuno sa niente di quella notte.

È a questo punto che Meyrink si trasferisce a Monaco (1906) dove l’anno dopo pubblica la sua terza raccolta e inizia la stesura del Golem. Sta continuando a scrivere racconti, ancora spesso per il “Simplicissimus”. Non è che ne condivida in toto le vedute, in particolare politiche, che in fondo gli interessano fino a un certo punto: del resto, sui suoi obiettivi non ci sono equivoci.

Castroglobina (Schöpsoglobin, “Simplicissimus”, 7, maggio 1906) vede il batteriologo di fama mondiale professor Domiziano Dredrebaisel, che ha appena fatto una scoperta sbalorditiva, convocato dal ministro della Guerra. In realtà di invenzioni in giro ce ne sono varie, compresa quella del capitano di fanteria Gustavo Comodini in tema di parola d’onore, “un codice automatico d’onore per gli ufficiali, ad acqua compressa” che semplifica in chiave meccanica le speculazioni sul tema. Ma dell’invenzione di Dredrebaisel, spedito apposta in Borneo, non si sa nulla. Finché un telegramma non giunge ad annunciare che lo studioso e molti membri della sua spedizione sono stati fatti a pezzi dagli orangutan. Da una lettera a un collega di tale dottor Egon Ipse emerge che questi ha conosciuto l’ex-assistente del morto, che ha anzi cercato invano di piazzarne la scoperta. La sintesi di un vaccino, la Castroglobina, per far montare l’istinto di difendere la patria, e la somministrazione agli oranghi li ha spinti a cercarsi un capo – l’esemplare che in cattività s’era fatto notare per cretineria –, a marciare in cupa estasi, a costringere un renitente ad allinearsi e a ornarsi di carta dorata il sedere. Le offerte del vaccino agli stati europei conducono qualcuno a rifiutare per osservare l’azione degli altri o invece a declinare perché i propri cittadini sarebbero già attestati a quel livello di patriottismo. In attesa di vaccinare un rinoceronte, hanno comunque badato a non correre più rischi con le scimmie ornandosi a loro volta il sede con carta dorata e avendo “cura di sopprimere ogni dimostrazione d’intelligenza”, il che li ha resi molto considerati.

Clima ben diverso è quello di “Buddha è il mio rifugio” (Der Buddha ist meine Zuflucht, “Simplicissimus”, 16, 1906), ispirato alla lunga immersione dell’autore nei filoni del pensiero orientale: lì un vecchio musicista impoverito, abbandonato dalla moglie e privato del figlio da una malattia non curata proprio per la sua povertà viene a conoscere le parole di Buddha sul distacco dagli oggetti d’amore e da ogni tipo di desiderio, pena o gioia. Prima cupo, poi più sereno prende allora a mormorare tra sé “Buddha è il mio rifugio”. Raccoglie anzi i soldi per recarsi nelle terre dell’asceta Gautama, ma a una raccolta di fondi per bambini privi di sostentamento versa tutto quanto ha guadagnato. Visitato dalla visione del Buddha e poi dalla luce della Conoscenza, realizza – lui musicista – che tutto è stato originato dal suono, dal battito nascosto dell’universo a quello del proprio cuore, e finalmente trova la pace. Il racconto, come vedremo, si proietta idealmente nel futuro dell’autore, che proprio in Buddha troverà rifugio ancora nelle ultime sofferenze della vita.

Hilligenlei (Hilligenlei, “Simplicissimus”, 24, 1906) è un’altra parodia farsesca – “Da leggere con i guanti di cotone e con la voce stridula” – di un romanzo del corrucciato Gustav Frenssen (Hilligenlei, 1905).

Il cervello svaporato (Das verdunstete Gehirn, “Simplicissimus”, 33, 1906) parla delle disavventure dell’inventore Hiram Witt, capace di produrre da cellule animali, tramite campo magnetico e rotazione meccanica, dei cervelli umani perfettamente formati. Dopo aver tentato invano di far riconoscere alla scienza le sue scoperte, deve contentarsi di fornire i cervelli (o per meglio dire le cervella) a una trattoria. Dopo una notte di accanite sperimentazioni, riesce infine a produrre un piccolo cervello con un inizio di midollo spinale: il cervello si comporta rispetto a esso come la gravitazione rispetto alla forza centrifuga, e Witt intuisce che dietro tutto ci siano astratte quantità matematiche. Serviva poco, come pure lui ha fatto in una versione aggiornata delle teorie di Frankenstein, produrre un intero corpo da piccole cellule. Una serie di convulsi avvenimenti – prima l’arrivo di un vagabondo e del suo babbuino in uniforme da ufficiale, poi l’irruzione, con alcune guardie e un cannone, di un ufficiale che posa il proprio elmo sul cervello sopra la tavola – precede la bizzarra scoperta che mettendoci l’elmo sopra il cervello sparisce e si muta in una bocca spalancata. Forse effetto, chissà, della punta metallica dell’elmo chiodato…. L’inventore finirà con l’impazzire, intonando l’inno tedesco al manicomio.

Se, com’è stato detto, il grottesco di Meyrink è legato allo scetticismo e alla disperazione, l’ironia all’angoscia, non è però così vero che “la sua satira, politica non lo era affatto” (Gianfranco de Turris). Il modo corrosivo di Meyrink di vedere le istituzioni, la società e quei feticci che una certa politica conservatrice – e diciamo pure di destra – sorreggeva, pur non essendo satira politica nel modo più banalmente inteso, ha direzioni ben precise – inevitabile pensare alle tavole terribili dello spartachista George Grosz contro gli stessi obiettivi – e una forza critica che a Gustav causerà anche qualche problema.

Meyrink sarà per esempio contrario alla prima guerra mondiale, il che lo porterà ad essere denunciato dai nazionalisti tedeschi; il giornalista tedesco “Völkisch” Albert Zimmermann (1873-1933) lo definirà “uno degli oppositori più abili e pericolosi dell’ideale nazionalista tedesco. Influenzerà – e corromperà – migliaia e migliaia di persone, proprio come fece Heine”. E questo riguarda anche i racconti: nel 1916 Des deutschen Spießers Wunderhorn verrà bandito in Austria. Satira non politica?

Per venire a un registro diverso, davanti all’angosciosissimo L’urna di San Gingolph (Die Urne von St. Gingolph, “Simplicissimus”, 42, 1906) verrebbe da pensare che Meyrink conoscesse L’innocente di D’Annunzio (1892, edito in tedesco nel 1896). Ma certo qui la situazione – un sogno angoscioso del narrante, non sappiamo quanto fondato – richiama più il gotico o il romanzo d’appendice, con il terribile coniuge che confermato nella scoperta della colpa della moglie dalle sue stesse manifestazioni di disperazione ai piedi di una croce, chiude il figlio adulterino a morire in un’urna di pietra – e le ne coglie solo vagamente il pianto.

Il segreto del castello di Hathaway (Das Geheimnis des Schlosses Hathaway, “Simplicissimus”, 48, 1906) combina invece il tema del sonnambulismo – poi di grosso successo nell’espressionismo – con un montare di cupezze gotiche che volge infine in beffa sulle grandi famiglie squattrinate. In un dialogo davanti al sonnambulo Ezechiele von Marx, si discute lo strano caso della famiglia dei conti di Hathaway: il giorno in cui ciascuno di loro compie il ventunesimo anno, all’improvviso una melanconia invincibile gli piomba addosso. Lo scozzese che parla ha conosciuto l’attuale erede, Viviano, un giovane pieno di vita e la madre Lady Ethelwyn, afflitta che il marito passi tanto malinconicamente e da solo il suo tempo a caccia sui monti. Ed è lei che narra la storia della stanza segreta – nota solo al conte e al vecchio, sinistro custode – dove il giovane erede dovrebbe restare dodici ore al fatale compleanno per uscirne pallido, distrutto. La dama aveva fatto appendere capi di bucato a ogni finestra e quella che resta senza biancheria doveva corrispondere alla stanza irreperibile. Ma si parlava anche di un ospite invisibile del castello: e una notte di plenilunio la dama aveva visto il custode condurre “in giro segretamente una figura spettrale, scimmiesca, d’una bruttezza raccapricciante che emetteva delle specie di rantoli”. Quando poi si inizia ad avvertire la presenza dell’invisibile ospite si diffonderebbe un’esalazione che un servo aveva avvicinato all’odore di cipolla…

Ma alla fine anche Viviano ha dovuto soccombere alla malinconia. E mentre i presenti s’interrogano sulla natura del problema, il sonnambulo cade in trance e viene posto in comunicazione magnetica (per permettere d’interrogarlo su tali misteri, sulla base delle presunte abilità che a lungo sono state atribuite a sonnambuli e magnetizzati). Eccolo dunque citare un primo nome, che risulta un banchiere di Budapest; poi identifica la creatura scimmiesca come il dottor Max Lederer (in apparenza quello dell’altro racconto), che risulta essere l’avvocato socio del banchiere. E in ultimo spiega che nel luogo fatale gli eredi vengono iniziati ai conti di famiglia…

Nel 1907 Meyrink riceve la cittadinanza bavarese. Lo strappo la suo passato è ormai sempre più netto.

Ne L’automobile (Das Automobil, “Simplicissimus”, 11, 1907) Tarquinus Zimt, divenuto progettista di automobili, di passaggio a Greifswald va a trovare il suo vecchio professore di fisica e matematica, ottusamente ripiegato in conoscenze soltanto teoriche che gli fanno rifiutare le novità della tecnica. La surreale esplosione di tre cilindri dell’auto confermeranno il vecchio arcigno nelle sue posizioni.

Il racconto intitolato Il libro di Giobbe (Das Buch Hiopp : oder wie das Buch Hiob ausgefallen wäre, wenn es Pastor Frenssen und nicht Luther übersetzt hätte, “Simplicissimus”, 22, 1907) è tutto scritto in un tedesco dialettale, e reca il sottotitolo Come sarebbe riuscito il “Libro di Giobbe” se l’avesse tradotto il pastore Frenssen e non Lutero. Si tratta di una divertita parodia del libro biblico, con qualche frecciata al solito razzista Gustav Frenssen e ammiccamenti al mondo contemporaneo.

Anche più nel profondo di una suggestione espressionistica ci conduce il racconto Il baraccone delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, “Simplicissimus”, 35, 1907): non solo in grazia del film che diciassette anni più tardi il regista tedesco Paul Leni dirigerà, appunto Il gabinetto delle figure di cera (Das Wachsfigurenkabinett, stesso titolo con trama differente), 1924, ma per il nesso classicamente espressionistico, prima fiabesco e poi cupamente onirico tra un baraccone, figure-manichini più o meno perturbanti (la narrativa di Meyrink ne sarà piena), il topos del Tiranno e un materiale, la cera, che – come in fondo l’argilla del Golem di altri film del filone, o il gesso del terribile racconto L’albino – permette di plasmare simulacri d’uomo. Nel racconto troviamo di nuovo degli amici preoccupati – il chimico Christian Sebaldus Obereit, Sinclair (forse quello già apparso ne “Il preparato anatomico”) e Melchior Kreuzer chiamato da loro – nonché il terribile persiano Daraschekoh alla terza apparizione, stavolta proprietario di un Panokticum al Baraccone presentato da “Mr. Congo Brown”.

Il colpo d’occhio è inquietante fin dall’ingresso, di fronte al quale una figura femminile di cera muove la testa e ogni tanto si contorce per effetto di un meccanismo elettrico. Scopriamo un’orribile storia pregressa: alla deriva di una malattia mentale, tal Thomas Charnoque tormentava con scenate di gelosia la moglie Lucrezia; era nato loro un figlio, ma Charnoque l’aveva rapito ed era scomparso con lui. Avvistato in compagnia di Daraschekoh – e poi più volte anche del bambino – Charnoque era stato infine trovato impiccato, e i suoi accompagnatori s’erano defilati. era stato plagiato dal persiano? Costui comunque, a detta di Charnoque, sarebbe stato “l’unico essere vivente iniziato agli orribili misteri di una specie d’arte segreta preadamitica, in base alla quale (gli scopi sono incomprensibili) si può decomporre l’uomo in diverse parti viventi”.

Lo spettacolo inizia, e dopo il numero “Fatme, la Perla dell’Oriente” la gente vaga esaminando il materiale in cera, dal turco morente che attraverso un sistema di molle mostra un respiro pesante, agli Obeah Wanga, i teschi magici del Vudù – tre orrende teste umane che potrebbero non essere di cera (i due termini obeah e wanga hanno in realtà un significato assai più complesso nel panorama dei culti sincretisti afroamericani). Gli amici pensano di interrogare l’artista che si è appena esibita, ma ecco c’è un nuovo numero, i gemelli magnetici Vayu e Dhanándschaya di otto anni. Mentre Kreuzer comunica di aver scoperto che “il persiano vive a Parigi sotto altro nome” ed esorta a recarvisi, davanti al pubblico raccapricciato si esibisce cantando una sorta di cadavere d’affogato vestito da paggio, mentalmente ritardato, alto come un adulto a dispetto degli otto anni, con un fagotto in mano: è Vayu e nel fagotto compare Dhanándschaya,

 

una testa grande quanto un pugno con occhi penetranti: un viso attraversato da una rete bluastra di vene, un viso da neonato, eppure un’aria senile con un’espressione così malignamente malvagia e deformata dall’odio, così colma di una viziosità indescrivibile che gli spettatori istintivamente indietreggiarono.

 

Kreuzer sta per svenire e viene portato fuori: il neonato ha il viso di Charnoque buonanima. Kreuzer esorta i due amici a partire per Parigi e far arrestare il persiano.

Si ritroveranno a distanza di tempo, e Kreuzer dovrà dare lunghe spiegazioni. I due non sono riusciti a mettere le mani sul persiano, ma Lucrezia è morta e Congo Brown è scappato di prigione portandosi dietro i propri misteri. Il fatto è che i medici legali non potevano credere a quanto emerso, parlando di mere suggestioni e menzogne. Congo Brown aveva rivelato di aver ricevuto in regalo dal persiano tutto il baraccone delle attrazioni per i suoi precedenti servigi. I gemelli sarebbero “una doppia creatura prodotta artificialmente da un unico bambino”, appunto quello di Charnoque, “preparato” dal persiano otto anni prima con l’uso di “diverse correnti magnetiche che ogni essere umano possiede”, e che si potrebbero separare, scomporre e manipolare con surrogati animali, fino a trarre da un corpo due con coscienze diverse. Anche le teste Obeah Wanga erano state vive per molto tempo; mentre Congo Brown a tratti si immedesimava nel persiano fino a mutare i tratti del volto (lo spunto di una sinistra plasticità di connotati ritornerà ne La notte di Valpurga), irradiando una forza magnetica tale da mietere vittime tra i più piccoli, far perdere i sensi al giudice istruttore che lo interrogava e rivelare nel corpo di Brown un’elasticità senza pari. Anzi il tipo teorizzava che la vita dell’uomo sia composta di diverse correnti magnetiche interne ed esterne, il cui predominare spieghi le diverse caratteristiche psichiche… Comunque i raccapriccianti gemelli sono ora morti: il liquido in cui uno dei due era immerso per parte del giorno si era prosciugato.

Di nuovo a cavallo tra occulto e satira, L’anello di Saturno (Der Saturnring, “Simplicissimus”, 44, 1907) vede un gruppo di discepoli d’un professore, il Maestro, arrivare di soppiatto nel suo osservatorio astronomico. Uno tra loro, più sensibile, nota senza neppure porre l’occhio al telescopio che questo deve puntare verso Saturno, il cui influsso soffocante satura la stanza.

 

Chi – come io faccio da molto tempo – chi vigila la notte coi sensi in agguato, non impara soltanto a sentire il lieve, inafferrabile respiro degli astri, ed a distinguerli; non percepisce soltanto il loro fluttuare, il loro ondeggiare, e come si impadroniscono del nostro cervello con tacita presa annullando i nostri propositi e cacciandone altri al loro posto – e come queste forze maligne, piene d’odio, lottano in silenzio per avere il predominio nel dirigere il vascello della nostra sorte…; egli impara anche, vegliando, a sognare ed a vedere come in certe ore della notte i fantasmi inanimati dei morti corpi celesti si insinuino, avidi di vita, nel regno della realtà, e illudano misteriosamente l’intelligenza per mezzo di strane mimiche esitanti, che destano un vago, indicibile raccapriccio nell’animo nostro…

 

Con i discepoli, preoccupati, c’è il medico alienista Mohini: dovrà osservare di nascosto se il loro Maestro sia impazzito o invece in una condizione di spirito ignota. Gli indicano la grande boccia che due poli metallici alle pareti avvolgono in un campo elettrico (si rammenti la goccia tra due punte d’argento del racconto La goccia di verità), dove il Maestro avrebbe a lungo conservato un’anima umana, affinandone le forze e scoprendo poi che è fuggita… il dottore è perplesso, li sente “parlare dei misteri d’un regno verde, occulto, e di abitanti invisibili d’un mondo violetto”… ma a questo punto si accorgono grazie al telescopio che Saturno ha un nuovo anello.

Arriva però il Maestro, spengono la luce e si nascondono, lo sentono borbottare che l’anello cresce, “ha persino formato dei denti, è spaventoso”. Poi sposta la boccia vicino al telescopio, posa a terra tre oggetti e si inginocchia “prendendo con le braccia e col petti delle posizioni strane, simili a figure geometriche ed a triangoli”, mormorando frasi monotone con singole “vocali strascicate come ululi”. I discepoli comprendono che sta cercando di rimprigionare l’anima sfuggita, se non riuscisse si suiciderebbe. Ha smesso di litaniare.

 

Poi, improvvisamente, un molleggiare a tentoni traverso la stanza, come d’un corpo floscio, invisibile, che sfuggisse in fretta, a corti rapidi salti.

Sul suolo comparvero delle palme di mano violette, luminose; sdrucciolarono incerte, brancolando, di qua e di là, vollero stendersi dalla superficie verso i corpi, e ricaddero senza forza. Degli esseri sbiaditi, fantomatici – resti macabri, senza cervello, di uomini – s’erano staccati dalle pareti, ed erravano in giro, senza senso, senza meta, semicoscienti, con le mosse barcollanti, a strattoni, dei cretini storpi, gonfiando le gote fra risate misteriose da mentecatti – adagio e furtivamente, come se volessero mascherare qualche perfido, inesplicabile progetto – o guardavano con fissità maliziosa in distanza per lanciarsi avanti all’improvviso – fulminei come vipere – di qualche passo.

Senza rumore, cadevano dal soffitto dei corpi vescicosi, si svolgevano e strisciavano in giro: gli orribili ragni bianchi che popolano la sfera dei suicidi, e tessono, dalle croci mutilati, la rete del passato che cresce incessantemente d’ora in ora.

 

Ma mentre spira quest’orrore, l’alienista piomba a terra morto. e la situazione precipita: la sfera si frantuma, “le pareti proiettano ombre fosforescenti. / Sul bordo dell’abbaino e nel vano delle finestre, per un strano processo di putrefazione, la pietra dura si cambia in una massa tumida, come di esangui gengive degenerate, e questa putredine” si allarga velocemente a mura e tetto. Il Maestro balza in piedi, e si pianta in petto un coltello sacrificale. I discepoli accorrono, ma la ferita è mortale: in compenso tutte le stranezze che hanno visto sono scomparse. A quel punto il Maestro morente prende a confortarli: ancora un istante, e tutto sarebbe divenuto putredine, mentre le tracce di bruciato a terra sono state lasciate dagli abitanti dell’abisso che hanno tentato di afferrare la sua anima. L’intervento dei discepoli ha spezzato il fenomeno,

 

“Poiché tutto ciò che è ‘durevole’ sulla terra, come dicono gli stolti, prima è stato fantasma – fantasma visibile o invisibile – e non è altro che fantasma ‘immobilizzato’.

“Perciò qualunque cosa, il Bello o l’Odioso, il Sublime, il Bene o il Male, la Serenità con la morte nascosta in cuore, o la Tristezza con la serenità nascosta in cuore, tutto conserva sempre qualcosa del fantasma.

“Se anche pochi nel mondo sentono il lato fantomatico, pure esso c’è, continuo ed eterno.

 

Per acquistare una più alta sapienza ed esaminare un’anima, il Maestro ha cercato un essere umano da sacrificare – ma ne cercava, bontà sua, uno “proprio inutile sulla terra”. Dopo aver indagato tra avvocati, medici e militari, aveva quasi afferrato un professore di liceo ma alla fine si risolveva a lasciar perdere. Finché non ha messo a fuoco l’esistenza di un’intera categoria che soddisferebbe la sua ricerca, “Le beghine!”. Ne ha tenuta d’occhio tutta una serie:

 

le ho viste continuamente “rendersi utili”, tenere riunioni “per il progresso dei domestici”, fare delle orribili calze calde per i poveri bimbi negri che si godono la divina nudità, distribuire regole di buona condotta e guanti di cotone protestante; e molestarci, noi povera travagliata umanità: su via, raccogliete pezzi di stagnola, sugheri vecchi, ritagli di carta, chiodo storti e altre porcherie, perché “niente vada perduto”!

Ma quando le vidi disporsi a procreare nuove società di missionari, e ad assottigliare, con lo spurgo di delucidazioni “morali” i misteri dei Sacri Libri, allora la coppa della mia collera fu colma.

 

Sta per sacrificarne una, “una bestiola ‘tedesca’ d’un biondo stoppa”, ma desiste quando si accorge che è incinta. Così “una seconda, una decima, una millesima”, tutte incinte. Finché non ne becca una che ha appena partorito, “una lepretta sassone coi capelli lisci e spartiti e degli occhi azzurri da oca”: la tiene imprigionata nove mesi per scrupolo, e quella riesce a scrivere di nascosto un grosso volume Parole del cuore come dote per le fanciulle tedesche al loro entrare nel numero delle persone adulte… che lui brucia subito. Separata poi l’anima dal corpo e isolatala nella boccia, un giorno sente “un odore indistinto di latte di capra andato a male” e capisce che l’anima è fuggita: cerca allora di recuperarla coi più “potenti mezzi d’attrazione”, piazzando alla finestra “un paio di mutandine di fustagno rosa (marca di fabbrica ‘Lama’), un raschiaschiena d’avorio, persino un album da poesie in velluto azzurro con borchie dorate”, invano.

 

Ora, essa vive libera nell’universo, e insegna agli ingenui spiriti planetari l’arte infernale dei lavorini donneschi.

E oggi persino attorno a Saturno… essa ha fatto un nuovo anello all’uncinetto!!!

 

Realizza così che se sull’essenza di una beghina agisce uno stimolo, lei lavora all’uncinetto, se lo stimolo non c’è si moltiplica soltanto. Poi il Maestro si spegne. Come spiega un discepolo: “Egli è entrato nel regno della pace; sia l’anima sua eternamente beata!”. Dove attenzione, in questione in questa feroce satira impastata di fantastico allucinatorio non è tanto l’umanitarismo contro cui si scaglia Evola, ma un certo moralismo borghese, che svilisce la spiritualità ad asfittici discorsi moraleggianti e buonistici. Per Meyrink una certa mania religiosa è del resto un fenomeno parallelo al materialismo, sorta di Scilla e Cariddi.

Sapienza del bramino (Die Weisheit des Brahmanen, “Simplicissimus”, 48, 1907) è un’esilarante parodia, condotta con un ritmo cantilenante fintoindiano a base di continue ripetizioni, dei racconti sapienziali dell’oriente. Quale il significato del lugubre grido che echeggia e terrorizza tutti, e si suppone vada attribuito a una temuta effigie del demone Madhu? Gli eremiti attendono di rivolgere la domanda agli Swami, i santi pellegrini, attesi per celebrare la festa del Bala Gopala; ma quando questi arrivano – quattro Swami “senza gioia, senza pena, che hanno respinto da sé i pesi dell’emozione” – tre di loro si rivolgono al “quarto, vecchissimo, della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome. Della casta dei Brahamini, del quale nessuno sapeva più il nome”. A più riprese gli pongono la domanda su chi stia urlando, finché lui spiega che non si tratta del demone, ma di un “penitente, cui manca la conoscenza. Cui manca la conoscenza”. Passa un anno, ma il grido continua senza interruzione e dunque si chiede al sapiente Brahmino di intervenire. Lui allora parte, viaggia fino a trovare il penitente urlante, la cui mano “stringeva spasmodicamente una pesante palla di ferro irta di punte, e quanto più le dita la stringevano, tanto più profonde penetravano nella carne le punte. Nella carne le punte”. Il Brahmino si ferma lì per cinque giorni, con l’altro che continua il suo ululato. E finalmente, chiedendogli scusa con un piccolo colpo discreto di tosse, il Brahmino gli domanda cosa lo spinga “a dare al suo dolore uno sfogo incessante?… ehm, a dargli uno sfogo incessante?”. Il penitente indica la palla di ferro, allora il sapiente si immerge in una riflessione lunghissima, attraverso i Veda, poi sempre più profonda – intanto viene l’autunno. E la salamandra spiega alla forbicina e a sua moglie che lo conosce, quel maestro tanto sapiente, nel centro della terra ha letto il suo “certificato di vaccinazione, tutto ingiallito” ed è vecchissimo… poi la salamandra si mangia i due piccoli interlocutori. Ma il sapiente si è riscosso ed esorta l’asceta “La… la… lasci andare la palla, Signore!”, quella rotola via e il dolore finisce. “Juch-hu, gridò il penitente, alla tirolese, e tutto contento, diritto e libero dal tormento si allontanò a salti. Si allontanò a salti”.

Ma Meyrink continua a scrivere su varie testate: e i suoi Orienti paradossali vengono per esempio richiamati su due numeri di “März”, un mensile letterario con cui collaborerà fino al 1908, in Fachiri (Fakire, “März”, 1907) e Il percorso dei fachiri (Fakirpfade, “März”, 1907).

Nel segno dell’orrido, si dipana invece  L’albino (Der Albino, prima pubblicazione invece nella raccolta Das Wachsfigurenkabinett, 35, 1907): nella sede di un Ordine esoterico – una massoneria di frangia? – nell’attesa di celebrare festosamente alla mezzanotte i cent’anni dalla fondazione, il Gran Maestro Ariost vive i propri rovelli: l’Ordine è in declino, i confratelli commentano ironicamente la cosa ma Ariost soffre. A gravare sul tutto è anche un’oscura profezia sulla terribile punizione di chi aprirà l’ultima reliquia dell’Ordine, la Lettera sigillata di Praga, prima che l’ora sia compiuta: “Il suo volto sarà inghiottito dalle tenebre da cui non si libererà più […] cancellato dal mondo dei contorni […], simile al gheriglio nella noce”. A confortare il vecchio è il giovane Corvinus, fidanzato con sua figlia, che poi si allontana con gli altri giovani per farsi fare una maschera di gesso – per una burla, dice – da uno strambo scultore albino che lavora solo la notte, lo straniero Iranak-Essak.

Trovatosi solo con gli altri vecchi, Ariost confida allora un suo vecchio peccato: trent’anni prima Gran Maestro era il dottor Kassekanari, un nero di Trinidad, mentre lui era il suo primo Arcicensore. Ariost aveva tradito il superiore assieme alla di lui moglie Beatrice, e uno dei figli di Kassekanari, Pasqual, era in realtà figlio suo. Scoperta l’infedeltà della moglie, Kassekanari aveva lasciato Praga assieme ai due figli, meditando una tenebrosa vendetta e lasciando sprofondare nella follia la bellissima Beatrice. Kassekanari  aveva poi inviato ad Ariost una lettera in cui si diceva convinto che, dei due figli, fosse suo il più piccolo Pasqual, e che invece Manuel fosse figlio di Ariost – che inizialmente è sollevato. Salvo inorridire quando prendono ad arrivargli resoconti e foto di terribili “esperimenti fisiologici e di vivisezione” a carico del piccolo Manuel, non figlio del dottore come Ariost aveva tacitamente ammesso. Tormentato da orrore, sensi di colpa e sordido sollievo che così il dottore si accanisse contro il proprio figlio, Ariost non si suicida solo per la speranza di liberare un giorno la vittima. Gli esperimenti – proseguiti fino alla morte di Kassekanari  – comprendono “trasfusioni con il sangue di animali bianchi degenerati, di quelli che schivano la luce del giorno”, a sbiancare la pelle nera, ed estirpazioni di particelle di cervello fino a rendere il paziente un “essere spiritualmente morto”.

Alla fine le disperate ricerche di Ariost lo portano a rintracciare il figlio, che però si fa chiamare Emanuel Kassekanari – non era Pasqual? sostiene di non essersi mai chiamato così – cioè il giovane Corvinus. Col risultato che da allora perseguita Ariost il dubbio che la vittima degli esperimenti sia stato Pasqual e non Manuel… ed emerge il sospetto che gli esprimenti con gli animali bianchi possano aver condotto all’albinismo. Quello magari dello scultore Iranak-Essak…

Intanto Corvinus e i suoi compagni sono andati da Beatrice, si fanno passare per burla la famosa Lettera sigillata di Praga di cui poi fantasticherebbero gli effetti con gli anziani, e con la ragazza si recano dallo scultore , “che aveva fatto una preziosa invenzione, una maschera di gesso che all’aria diventava immediatamente dura e indistruttibile come granito”. Arrivano infine a una casa tra viuzze storte e palazzi in rovina ed entrano nella tenebra assoluta di una dimora labirintica. Beatrice ha paura, e non migliora la situazione la voce atona, sinistra di Pasqual Iranak-Essak. Comunque Corvinus scompare dietro una porta, e gli amici spiegano alla ragazza come si prepari un maschera, con cannucce per bocca e narici che fuoriescono dal gesso. Solo pochi minuti, li informa come da lontano l’albino con un tono tanto spiacevole e sinistro da lasciarli paralizzati: ma si rendono conto che ha citato il giovane con il suo nome massonico, Corvinus, che non potrebbe conoscere. E in quel momento echeggia una violenta scossa come per la caduta di un enorme peso, che fa precipitare calchi di gesso e maschere mortuarie appese alle pareti; quindi gran fracasso di porte abbattute, qualcuno che corre – e da uno squarcio nella stoffa alla parete spunta una figura con la testa coperta di gesso, “il corpo e le spalle trattenuti da sbarre e da assicelle incrociate”. Gli amici riescono a farlo entrare, è Corvinus, agonizzante per il soffocamento – l’albino (nel frattempo dileguatosi) ha tolto le cannucce e coperto di gesso la bocca: i giovani tentano invano di spezzare quella materia pietrificata. Corvinus muore soffocato e Beatrice si dispera. Nell’impossibilità di sfondare quella ricopertura, la vittima della vendetta che rimonta alla generazione prima finirà sepolta – come diceva la profezia – con “il volto invisibile e racchiuso, / simile al gheriglio nella noce”.

Dell’anno dopo è A cosa serve la merda di cane bianca? (Wozu dient eigentlich weißer Hundedreck?, “Simplicissimus”, 15, 1908), ancora uno scherzo surreale. Febbre (Das Fieber, “Simplicissimus”, 44, 1908), dai toni nuovamente concitati e surreali, è coronato da un incipit alchemico. Parte in modo vagamente fiabesco, “C’era una volta un uomo che odiava talmente il mondo che decise di non levarsi più dal letto”: ma finirà con l’alzarsi per inseguire nella città un sembiante di ala di corvo visibile in cielo. Dialogherà di temi esistenziali con un corvo nero e con uno bianco (qui la simbolica alchemica è ben avvertibile), prenderà coscienza della propria avidità, e poi, tornato a letto, si vedrà prescrivere da un medico un farmaco antifebbre. Il cinghiale Veronika (Das Wildschwein Veronika, “Simplicissimus”, 52, 1908), porta invece in scena il successo artistico di una scrofa, in spirito ancora una volta beffardo.

E ancora, L’assalto a Sarajevo (Die Erstürmung von Sarajewo, “März”, 1908) è un sarcastico racconto su una fantomatica guerra nei Balcani: ovviamente Meyrink non può sapere che pochi anni dopo proprio Sarajevo vedrà accendersi la Grande Guerra. Come al solito, oggetto di frecciate parodistiche sono i militari, come quello che conclude ineffabile:

 

Da parte mia, non vorrei per nulla al mondo perdere il ricordo del periodo trascorso durante la guerra. Quando penso a me stesso in questo modo e mi accarezzo i baffi marziali, mi sento sempre così speciale, non puoi davvero esprimerlo a parole. – Sei semplicemente qualcuno, e se un capo dei vigili del fuoco o qualcosa del genere ti incontra da lontano e vede la decorazione più alta, ti farà un forte saluto o ti dirà “Attenti!”. E se calpesti l’erba in un luogo pubblico o qualcosa del genere, nessuno osa dire nulla. No, e soprattutto i vermi!

 

(2-continua)