di Luca Baiada

Si è sentito rappare, qualche giorno fa in Toscana, nel Museo nazionale Casa Giusti. Proprio nella casa del poeta risorgimentale Giuseppe Giusti, quello della Terra dei morti, dello Stivale e dei versi famosi già prima del 1848. Quello di Sant’Ambrogio, con «Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco / per que’ pochi scherzucci di dozzina…».

È successo al convegno Giacomo Matteotti, martire e maestro. C’erano persone serie, strutture ammodo, rappresentanti di amministrazioni, scuole.

E allora. Rap? in un museo? davanti a studenti e studentesse? Ecco qui.

 

Un mondo di violenza è un mondo che è già morto.

A quelli che sonnecchiano, a quelli che ridacchiano,

a quelli che vivacchiano nel comodo sconforto,

non piace chi ha progetti e intanto cambia i fatti.

È meglio le riforme o la rivoluzione?

Se aspetti il tuo futuro facendoti domande,

il mondo a muso duro ti insegna la lezione,

e coi concetti astratti ti gratti le mutande.

Se guardi il tuo ombelico non cambi il tuo destino;

la storia non si annuncia, la vita non aspetta,

non puoi svuotare il mare usando il cucchiaino.

Ma a volte c’è qualcuno che guarda avanti e lotta.

 

È nato nel Polesine, Giacomo Matteotti,

è terra di lavoro, braccianti nei casotti,

casotti con la paglia, col fango e con le frasche,

si muore di pellagra, si vive fra le mosche.

Bruciava per lo sdegno, fremeva nell’impegno,

non si fermava mai, andava dritto ai guai,

per questo non dicevano «il nostro deputato»,

dicevano «il Tempesta»: Tempesta, l’incazzato.

Lui non faceva sconti, lui non voleva tonti;

lui controllava i conti, le regole e i contanti;

se uno poi sgarrava, Giacomo, stai sicuro,

appena lo scopriva tirava calci in culo.

 

Ragazzo timidone, sportivo con la gente,

amava le persone, però ragazze niente.

Ma un giorno è all’Abetone, vacanza di montagna,

ed ecco che conosce la Velia, la compagna.

Compagna della vita, la Velia fa poesia,

si scrivono per anni, prima che amore sia.

Ma poi è amore grosso, ma poi è amore vero,

e se lo porti addosso, lo senti, che è sincero.

L’amore di una vita non muore con la morte,

anche la malasorte, non è una vita vuota.

Soltanto se non ami, non sai che cosa sei;

lui scrive: «Cosa guardano, adesso, gli occhi tuoi?»

 

Tempesta studia legge all’università,

ma per il bene pubblico, contro la povertà.

Lo vogliono i colleghi, può fare il professore,

lui sceglie chi lavora con fame e con sudore.

Tempesta scrive e studia, di lingue ne sa quattro,

si attira tanta invidia, lavora come un matto.

Il mondo delle leggi è fatto a ragnatele,

il torto si fa dritto col trucco di parole.

Giacomo la sa lunga, lui sa le cose, è in gamba,

e dentro la sua scienza ha sveglia la coscienza;

per questo fa paura, per questo ha vita dura,

lo notano i padroni, preparano i bastoni.

 

Tempesta è socialista, si sa che cosa costa:

se non si resta uniti, un gesto e si è finiti.

Si sa che il tradimento è un pozzo senza fondo,

è aperto ogni momento, il buco dentro il mondo.

Lui nota un estremista che non muoveva un dito,

un falso, un egoista: lo chiamano Benito.

La Grande guerra arriva, il tritacarne grida,

è il ’15-’18 e il sangue copre tutto.

Tempesta è coerente, vuole salvare gente,

lo fanno soldatino, lo mandano al confino.

Invece Mussolini si vende agli assassini,

faceva il pacifista, adesso è interventista.

 

La guerra tutto sbrana, la terra tutta frana,

perché, sia dopo o prima, se muoiono persone,

la rima messa in croce è sempre guerra e terra,

e dice che la voce è quella del cannone.

Ma se tu vuoi la pace, se senti che ti piace,

attento, nell’oscuro c’è sempre un buco nero,

c’è sempre qualche verme per carognate eterne,

qualcuno fa le chiavi per fare tutti schiavi.

Tempesta è tutto tosto, è sempre in ogni posto,

sui campi, nei mercati, in mezzo ai sindacati,

a volte si traveste da donna, anche da prete,

lui sa che gli squadristi gli tendono la rete.

 

Tempesta è sui giornali, in piazza, in Parlamento,

denuncia tutti i mali e smaschera l’imbroglio.

Capisce che il fascismo è morte dell’Italia,

e vede l’affarismo di cricche e di petrolio.

Lui vuole pace e vita, lui vuole Europa unita,

non tace, alza la voce, sa che per lui è finita,

fa i conti anche allo Stato, si batte con lo slancio,

e sputa sui fascisti: è falso, quel bilancio!

Ci sono pochi anni, ci sono troppi inganni,

tra guerra e finta pace, tra fabbrica e arsenale.

I fasci hanno paura, detestano il Tempesta

e il grande socialista ci muore di pugnale.

 

È tanto, quel che resta di Giacomo, il Tempesta:

un cielo di giustizia, un velo di mestizia,

un volo di ottimismo, il vero pacifismo,

lo scritto che ti scotta, la forza della lotta.

Adesso che il pianeta diventa spazzatura,

chi specula avvelena, chi accumula devasta,

ma il libro della vita, la pagina futura,

ripete che ora basta, ci vuole più Tempesta.

Tempeste, se lo vuoi, burrasche siamo noi.

La storia di domani l’abbiamo nelle mani,

la linfa nelle vene è fare il bene insieme,

il faro nella notte è fare ancora lotte.

 

Il testo è mio, le voci sono digitali e il beat è frutto di intelligenza artificiale generativa, aggeggiata e strapazzata.

Ho debiti. Per esempio, col Giorgio Caproni di Fatalità della rima (guerra / terra, morte / sorte), e con Paolo Pietrangeli per la canzone in cui dice: «Non ci s’impegola con, con chi si scaccola al bar, con chi si grogiola al sol, con chi si sbrufola il cul…» (più o meno, sono quelli che sonnecchiano e ridacchiano).

Alcune cose. Velia Titta, la moglie di Matteotti, era compagna di vita, non seguiva il marito in politica ma condivideva i rischi con lui.

Sulle motivazioni del delitto è ancora controverso il peso, oltre che di tutto l’impegno politico del socialista, della sua attenzione a specifiche ruberie fasciste sul commercio di petrolio.

La falsità del bilancio dello Stato fu denunciata da Matteotti il 5 giugno 1924, alla Camera. È più famosa la seduta del 30 maggio, considerata determinante nella decisione di ucciderlo e messa in apertura del film Il delitto Matteotti di Florestano Vancini. Le parole con cui Matteotti concluse, il 30 maggio, suonano proprio risorgimentali: «Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi [fascisti] volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano al quale mandiamo il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità».