di Franco Pezzini
Arthur Machen, Un frammento di vita – Il popolo bianco, trad. dall’inglese di Elena Furlan, pp. 236, € 21,90, Hypnos, Milano 2018.
Tra i connotati che rendono così difficile considerare il weird un genere congruo alle tassonomie commerciali – a differenza di fantascienza, fantasy, horror… –, si è considerata la gestione paradossale della coordinata tempo (cfr. qui); ma merita qui esaminare almeno un altro aspetto. Con riguardo a uno degli autori più comunemente considerati weird, il grandissimo Arthur Machen: un raffinato simbolista, un animo genuinamente mistico e un potente visionario, che non è scorretto – ma solo limitante – ascrivere alla grande storia del fantastico. La sua produzione conosce varie stagioni, dunque è difficile pretendere di compattarla in un’unica formula: ma si può esaminarne una parte nota al pubblico italiano appunto con l’etichetta weird. Accantoniamo per ora i notissimi Il gran dio Pan (1894) e I tre impostori (1895), splendide prove ad alto tasso di “nero”, e soffermiamoci sulla stagione immediatamente a cavallo tra i due secoli.
Per farlo, prendiamo in mano un volume uscito anni fa un po’ silenziosamente per i tipi Hypnos con sempre ottima traduzione di Elena Furlan, e in realtà di straordinario interesse per la scelta di materiale proposto. Le due opere principali abbinate, il romanzo breve Un frammento di vita (versione 1906) e il notissimo racconto Il popolo bianco (1904) sono infatti accompagnati da due appendici, il mutato capitolo IV di Un frammento di vita (come nell’originale versione 1904) e il brevissimo Un doppio ritorno (1890) che ai due testi più lunghi prelude idealmente. Attenzione, seguiranno – necessariamente – spoiler.
Dipaniamo i testi in ordine cronologico a partire dunque da quest’ultimo, A Double Return, apparso su “The St. James’s Gazette”, 11 settembre 1890: il pittore Frank Halswell, reduce da un viaggio in Devon e Cornovaglia a fare bozzetti, sta tornando a Londra – e gli pare di vedere nello scompartimento di un treno passato in direzione opposta al suo nientemeno che un Doppio di se stesso. Gli eventi che a casa, a Londra, lo attendono, forniranno una sorta di sghemba conferma. In questo testo non è strano che il fulminante capoverso in cauda (informazioni quasi stenografiche sulla nuova partenza di Frank, vagamente misteriosa, e la morte della moglie) imprima una raggelante sterzata alla storia: per quanto le informazioni in chiusura contenute non trovino un nesso necessario con quanto precede, l’epifania del Doppio si è spesso associata a situazioni liminari rispetto alla vita. Certo ci è oggi difficile comprendere come il racconto, apprezzato da Oscar Wilde, possa aver dato scandalo al punto da far interrompere i rapporti tra Machen e la rivista: le storie di Doppi erano state frequenti in tutta la letteratura ottocentesca, quindi dobbiamo ravvisarne il motivo proprio in quel finale “scioccante”.
I siparietti con la moglie e con la cameriera ma soprattutto un certo tipo di costruzione narrativa introducono comunque idealmente a quelli che costituiscono il grosso di A Fragment of Life: un romanzo che in apparenza potrebbe sembrare al lettore una storia di costume – meravigliosamente tessuta – sulla banalità di una vita inglese all’inizio del secolo e i conati di reazione al grigiore da parte un soggetto fantasioso. Una storia in larga parte, diciamolo subito, ben difficilmente percepibile come weird. La vicenda di Edward Darnell, contabile nella City e della neosposa Mary Reynolds si consuma nel grigiore: i dubbi su come impegnare una cifra donata loro dagli zii e non investita in banca (forse arredando una certa stanza vuota della casa? E come ottimizzare le spese di arredamento?), i rimpianti per le spese inutili di lui da scapolo e le soluzioni per economizzare ora con decoro, l’atteggiamento molto convenzionale della moglie pur tanto innamorata, le bizzarrie dei vicini, i lunghi confronti sull’acquisto di una nuova cucina economica, i problemi con la distratta domestica Alice e la madre arpia del ragazzo di lei.
Così, giorno dopo giorno, viveva in quel grigio mondo spettrale affine alla morte, che è riuscito a ottenere di essere chiamato vita dalla maggior parte di noi. A Darnell la vera vita sarebbe sembrata follia, e quando ogni tanto le ombre e le vaghe immagini riflesse del suo splendore cadevano sul suo cammino, si spaventava e si rifugiava in quella che avrebbe chiamato la stessa “realtà” degli incidenti e degli interessi comuni e consueti. La sua assurdità era forse più evidente in quanto la “realtà” per lui era una questione di cucine economiche, di risparmiare qualche scellino; ma in verità la follia sarebbe stata più grande se avesse riguardato cavalli da corsa, panfili a vapore e lo spendere molte migliaia di sterline.
Così andava avanti Darnell giorno dopo giorno, scambiando stranamente la morte per vita, la follia per buonsenso, e spettri vaganti senza scopo per esseri reali. Era sinceramente dell’opinione di essere un impiegato della City, che viveva a Shepherd’s Bush – dimentico dei misteri e delle lontane glorie splendenti del regno che era sua legittima eredità.
Solo a un certo punto Darnell riesce a condividere ciò che confusamente trattiene in sé, quella fascinazione per un mondo altro in fondo più che a portata di mano: e racconta alla moglie l’incanto di lontani pellegrinaggi notturni carichi di rêverie, “come se stess[e] andando in esplorazione” nel tessuto urbano di una Londra minore, lasciando Mary sorpresa e affascinata, con “lo sguardo di qualcuno che desiderava e quasi si aspettava di essere iniziato ai misteri, che non sapeva quale grande meraviglia stava per essere rivelata”. Non è strano, i personaggi di Machen sono spesso flâneurs.
“C’era nella voce di Darnell un rapimento tale da rendere la sua storia quasi un canto”, e alla manifestazione entusiasta della moglie lui ribatte “ho sempre temuto che fossero tutte sciocchezze”.
La vita torna a ingoiarli con le sue banalità, e il rischio – per fortuna sfumato – che la quotidianità della coppia venga espropriata dalla temibile convivenza con una zia, che però si rivelerà vaneggiante (la storia è piuttosto divertente). Tuttavia qualcosa si è mosso nel cuore di Edward, che inizia a beneficiare del riverbero di una serenità nuova, e a maturare
la certezza che il “buonsenso”, che aveva sempre sentito esaltare come una delle massime facoltà dell’uomo, fosse, con tutta probabilità, l’articolo più infimo e meno considerato nell’equipaggiamento di una formica di intelligenza media. E con questa certezza, come corollario quasi inevitabile, venne la ferma convinzione che l’intero tessuto dell’esistenza in cui si muoveva fosse sprofondato, oltre ogni immaginazione, nella più crassa assurdità: che lui e tutti i suoi amici e conoscenti e colleghi si interessassero a questioni a cui l’uomo non si sarebbe mai dovuto interessare, che stessero perseguendo scopi che non avrebbero mai dovuto perseguire,
e che insomma la vita si esaurisse nella ricerca di qualcosa che non sapeva più identificare, i cui segnali indicatori si fossero persi nel tempo. Ma lentamente recupera ricordi lontani, e un giorno di pioggia si inabissa tra le carte di famiglia… Con un misto di meraviglia e preoccupazione della moglie riavvicina così storie delle proprie remote origini gallesi, vagheggia di trasferirsi laggiù nell’antica casa di famiglia in una zona solitaria e pittoresca, racconta del più lontano degli avi, Santo Iolo, e di suo padre e dei suoi amici, che “avevano tutti lo stesso sguardo, come se anelassero a qualcosa di nascosto”, mirando a “misteri che non ho mai capito” e disprezzando il denaro e i suoi problemi, perché “in un certo senso, il mondo intero non è che una grande cerimonia o sacramento”. Nonché iniziando a intuire
che se nella Nuova Vita c’erano gioie nuove e mai immaginate, c’erano anche nuovi pericoli mai immaginati […] C’erano accenni a una regione spaventosa in cui l’anima sarebbe potuta entrare, a una trasformazione mortale, a evocazioni che avrebbero potuto chiamare le somme forze del male dai loro luoghi oscuri; in una parola, a quella sfera che è rappresentata alla maggior parte di noi sotto il simbolismo crudo e un po’ infantile della Magia Nera.
E recupera il ricordo di un episodio dell’infanzia, quando si era recato con suo zio in una fattoria dove si erano verificati dei problemi. Lì erano stati accolti in una stanza piena di donne spaventate: e il canto di ragazza echeggiato all’improvviso dal piano di sopra – il cenno è fuggevole, ma sarebbe un peccato dir di più e occorre accostare il testo per capire come vi si sia vista un’anticipazione di The Exorcist di Blatty – richiama, con potenza liturgica ma invertita, le forze del male. Le donne sono terrorizzate, emerge che la ragazza “è stata lassù”, pur senza conoscerne la strada: un luogo dove ora non dovrebbe esserci più nulla, ma chi ci va si perde, viene preso… E ora quel ricordo terribile, una storia di cui Darnell non aveva saputo più nulla e aveva rimosso, riemerge dal suo passato.
E a questo punto, ecco la svolta:
Sarebbe impossibile continuare oltre la storia di Edward Darnell e sua moglie Mary, dato che da questo punto la loro leggenda è piena di eventi impossibili, e sembra indossare le vesti delle leggende del Graal. È certo invero che cambiarono le loro vite in questo mondo, come re Artù, ma questo è un lavoro che nessun cronista ha voluto descrivere in dettaglio.
Le poche informazioni successive mostrano una vita del tutto trasfigurata.
Mi pare che, al di là di quest’ultima suggestione, ciò che appare in prima misura weird, spiazzante, straniante, sia la tecnica di scrittura: un lungo racconto che parla di tutt’altro, assume caratteristiche da storia – e a volte commedia – di costume, e poi conduce un’improvvisa virata in chiusura a trasfigurare nel mistico, nel fantastico, nel poetico.
Interessante a questo punto è avvicinare il mutato capitolo IV di questa storia (come nell’originale versione 1904): non figurava l’incontro con il marito della zia – la conclusione della sua vicenda veniva riassunta – né il mutato approccio di Darnell verso il rischio di una convivenza con lei, né il recupero dell’episodio sinistro dell’infanzia, ma di nuovo veniva impressa una sterzata tale da lasciare il lettore stranito. “[…] da un punto di vista esteriore la fine della storia è ancora più chiara, dal momento che Darnell e sua moglie morirono entro un anno dalla visita della signora Nixon [la zia]”: polmonite doppia per Mary, e il marito la segue in una settimana. “Immagino che […] sarebbe possibile mettere in parallelo la vita di Darnell e sua moglie con altre migliaia di vite in tutto simili da un punto di vista esteriore”: vite, agli occhi del mondo, senza una “storia” o senza una “struttura” – quelle che agli amici al funerale danno la sensazione d’essere sfuggite tra le dita. E alle quali solo un maestro d’interiorità o uno scrittore dotato pensano di riconoscere una “forma”, ancorché non canonica.
Il testo proseguiva con alcune frecciate sulla scuola del tempo, si sottolineava la tragicità del profilo dell’impiegato nel grigiore dell’ufficio e soprattutto in quello proiettato a casa (con alcune riflessioni anche limitatamente condivisibili sulla sorte più felice di un servo della gleba medioevale – ma sono idealizzazioni comuni a tutto un filone d’epoca, e non certo marxista – al di là di singole interessanti provocazioni su un certo tipo di abbrutimento moderno).
Eppure fu da questa razza, assordata ammutolita e accecata, che venne un uomo il quale recuperò in larga parte il regno e il sacerdozio che sembrano essere stati non semplicemente perduti (quello ahimè è il destino della maggior parte di noi), ma completamente dimenticati, come se non fossero mai esistiti.
Affascinato da questo miracolo, il narrante ha raccolto, annotato e cucito gli scampoli della vita di Darnell in modo lontanissimo da quello della comune biografia. Ipotizzando che in grazia del sangue degli antenati quell’uomo sia riuscito a superare le esperienze tossiche del luogo e dell’epoca: e della storia pregressa della famiglia vengono fornite una serie di informazioni, compreso il matrimonio di un antenato con Mary Vaughan sorella del filosofo (merita ricordare l’infernale Helen Vaughan del gran dio Pan e la farlocca Diana Vaughan, satanista pentita del famoso “affare Taxil”, 1897) nonché la vicenda di un tesoro sepolto, invano cercato dal padre del Nostro. E che parrà rivelarsi essenzialmente spirituale.
Conviene peraltro considerare che soluzioni formali almeno simili si trovano in altre due opere macheniane dello stesso periodo. Il bellissimo, febbricitante La collina dei sogni (The Hill of Dreams, composto 1895-1897, pubblicato 1907), dopo aver trattato le crisi del giovane Lucian Taylor nell’aprirsi la strada attraverso la scrittura – anche qui si citano i Vaughan –, cita fuggevolmente inquietudini rispetto a un certo forte romano e dedica al suo scorcio sabbatico uno spazio ultimo prima del decesso del protagonista. Mentre Il segreto del Graal (The Secret Glory, composto 1899-1908, pubbl. 1922), con moto parallelo, vede il giovane Ambrose Meyrick affrontare le brutture delle scuola pubblica vittoriana, la scoperta del sesso e ricevere la visione che lo pone idealmente nelle schiere dei cavalieri graalici – e anche qui tutto termina con un finale straniante, crocifisso in oriente a ottenere il martirio rosso e portare a termine la Cerca. In queste chiuse crudeli di itinerari esistenziali (il lavoro, la scrittura, la formazione) e nell’evocazione di santità e ombre vertiginose, Machen mostra la capacità di spiazzare il lettore – che a un certo punto si domanda cosa stia leggendo.
Per capire invece meglio il riferimento alla scena sinistra dell’infanzia di Darnell alla fine del romanzo, la raccolta abbina opportunamente il racconto The White People (composto 1899, in odore di Gran dio Pan, e pubblicato 1904): che inizia con alcune straordinarie pagine di dialogo tra due personaggi (Ambrose e Cotgrave) sul tema del rapporto tra santità e stregoneria, sul “diffusissimo errore di confinare il mondo spirituale ai supremamente buoni” e sulla contemporanea sopravvalutazione e sottovalutazione del male: l’essenza del peccato sarebbe “un tentativo di penetrare in una sfera più alta con mezzi proibiti […] È il miracolo infernale come la santità è quello divino”. Sono pagine di affascinante profondità e vi si rimanda senz’altro. Ma a un certo punto Ambrose presta all’interlocutore un libro che c’entra con il tema dibattuto. Si tratta di Il libro verde, e una ragazza spiega che vi annoterà
molti dei vecchi segreti e alcuni di nuovi; ma ce ne sono alcuni che non scriverò affatto. Non devo scrivere i veri nomi dei giorni e dei mesi che ho scoperto un anno fa, né il modo di tracciare le lettere Aklo o la lingua Chian, o i grandi bellissimi Cerchi, né i Giochi Mao, né le canzoni principali. Potrei scrivere qualcosa su queste cose ma non il modo per farle, per motivi particolari. E non devo dire chi sono le Ninfe, o i Dôl, o Jeelo, o cosa significa voolas.
Eccetera. Presentato qui magnificamente bene, è però un gioco narrativo che conosciamo come classico del weird: da Bierce a Hope Hodgson, a Lovecraft e in una quantità di altri autori troviamo questo tipo di cenni obliqui – in qualche caso gli stessi, per esempio le lettere Aklo – ad alludere a conoscenze proibite, quasi stenografate nell’ammiccamento dei rimandi esoterici.
In ogni caso la ragazza che scrive è edotta in conoscenze francamente arcane, e scopriamo che fin da piccola ha fatto conoscenza con il Popolo Bianco. A quasi quattordici anni si perde in un luogo ignoto tra le colline e rocce dai sembianti spaventosi, con il cuore “pieno di canti malvagi che ci mettevano loro”: s’intravede il ruolo d’iniziazione di una bambinaia che le aveva raccontato storie strane, e in particolare una fiaba su una ragazza povera che da una certa buca profonda torna coperta di pietre preziose. Il principe la sposa, ma un uomo nero pretende sia sua moglie e la porta via… La quattordicenne riesce infine a tornare a casa, dove il padre non ha notato la sua assenza ma i domestici sono preoccupati.
Non seguiamo dettagliatamente in questa sede l’avventura della ragazzina e il dedalo di esperienze pregresse e di storie della bambinaia che richiamano, le une e le altre, il mondo delle fate – quelle, potremmo dire, del folklore più autentico, ambigue, affascinanti e temute. La bambinaia sa anche modellare con l’argilla bagnata sorta di bambole a cui “rendere omaggio”, e qui entriamo in un territorio persino più sinistro. Ma poi la bambinaia racconta alla ragazzina la storia di Lady Avelin, che il popolo danzante chiamava Cassap e “sapeva più di chiunque altro sulle cose segrete”. In apparenza è bella e soave, attrae i serpenti in modo curioso, e sa produrre un bambolotto di cera come quello fatto dalla bambinaia ma capace di animarsi – e fin qui sembra un’eroina feerica da fiaba gentile. Peccato che poi, usando il bambolotto, faccia morire orribilmente uno dopo l’altro i cavalieri suoi pretendenti – e possiamo ancora consolarci pensando che forse erano molto noiosi, ma ci attenderemmo per la birichina una soluzione morbida. E invece la storia assume un sapore diverso, perché Lady Avelin viene denunciata da un testimone:
la portarono per la città in camiciola, e la legarono a una grande pira sulla piazza del mercato e la bruciarono viva davanti al vescovo, con la sua bambola di cera appesa al collo. La gente disse che l’uomo di cera gridava mentre le fiamme ardevano.
Lentamente, per bocca della bambinaia, la ragazzina riceve una quantità di istruzioni su “giochi” più o meno inquietanti, e ha una serie di esperienze che la lasciano perplessa – una volta si confronta col padre e lui sgrida la bambinaia, dunque decide che non gli racconterà più niente, e quella prende a offrire i propri racconti quando sono lontane da casa. Evidentemente “c’era ogni sorta di cose incantevoli e terribili a cui pensare”: e quella che si consuma è di fatto un’iniziazione alla stregoneria, per quanto morbida nei toni, e alla fede in genti altre come le ninfe e il generale il popolo bianco.
Nell’Epilogo Cotgrave restituisce il libro ad Ambrose, che fornisce alcuni obliqui chiarimenti. La ragazza autrice del memoriale è morta, l’ha trovata lui in uno dei luoghi lì descritti: morta davanti a una statua romana sbiancata dai secoli e “incorporata nella mostruosa mitologia del Sabba” – e che ora lui ha fatto distruggere. Ma a essere strana e orribile, chiarisce, non è tanto questo seguito, ma la storia in sé, “perché ho sempre creduto nella meraviglia dell’anima”: e qui Machen addita la chiave anche formale, stilistica dello straniamento. Il racconto cresce come uno sviluppo del tema trattato nel Gran dio Pan, sull’irruzione devastante di un antico culto nella contemporaneità – con il ruolo fatale delle statue pagane – dunque non è questa la novità; come non lo è il fatto che l’orizzonte feerico, quando non addolcito in chiave di fiaba moraleggiante, presenti tratti allarmanti. A colpire sono piuttosto due aspetti, i vaghi echi neri (gestiti con grande misura) che increspano i toni fiabeschi del racconto adolescenziale, e l’ascrizione dell’avventura della ragazzina nel discorso-cornice sul Male. Ideale ordito dietro il fulminante e raggelante episodio al termine di Un frammento di vita, Il popolo bianco offre così anche in uno scarto strutturale (tra registro fiabesco/feerico e registro etico/demonologico) una forza straniante originalissima.
Indubbiamente il mistico Machen crede profondamente in quel che scrive in tema di santità e di male, e sarebbe difficile ritrovare tanta fede nella maggior parte degli odierni narratori di weird (Lovecraft stesso ne riprenderà gli stilemi in chiave nostalgica/sentimentale, di suggestione dei simboli e di ammirazione per un’antimodernità che gli pare simile alla sua – pur restando parecchio lontana). Ma la distanza è anche nel coraggio e nella libertà formale. A dispetto del suo tradizionalismo, sul piano formale Machen osa battere vie nuove: lo straniamento di questi finali che sovvertono tutta la narrazione precedente con uno spiazzamento del lettore (la morte della moglie in Un doppio ritorno, quella dei coniugi nella prima versione di Un frammento di vita, le scioccanti riemersioni di memoria nella seconda, ma soprattutto un tipo radicale di svolta a cui le rêverie di Darnell non avevano preparato) offrono al suo weird un senso autentico, vorrei lire letterale, di spiazzamento. In un’epoca che cita il weird a proposito e a sproposito, che tende a ricalcare compulsivamente l’usato sicuro – proponendo insipidi lovecraftismi, tolkienismi eccetera – senza riflettere sulla carica di novità che i modelli avevano al loro tempo, meditare sulle strutture della narrazione inventate dai maestri del genere strano pare quanto mai prezioso.