di Paolo Lago

Emmanuel Carrère, Ucronia, trad. it. di F. Di Lella e G. Girimonti Greco, Adelphi, Milano, 2024, pp. 160, euro 14,00.

C’è l’utopia, un luogo che non esiste, un “non luogo” in senso etimologico, c’è l’eterotopia (un “luogo altro” e separato) coniata da Michel Foucault e da lui definita come una contestazione al contempo mitica e reale di qualsiasi altro spazio e c’è anche l’ucronia, cioè un “non tempo”, un tempo che non esiste, parola coniata e utilizzata per la prima volta da Charles Renouvier nella sua opera Ucronia del 1876. L’ucronia si rivolge principalmente al passato e mira a ricostruire una sorta di universo parallelo in cui i fatti ormai appurati come ‘storici’ sono avvenuti in un modo diverso portando a diverse conseguenze. Ad esempio, due fra le ucronie più studiate riguardano due figure storiche come Napoleone e Hitler: allora, pensando ucronicamente, se così si può dire, ci potremmo chiedere cosa sarebbe successo se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo o se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale. Emmanuel Carrère, nel suo interessante saggio dal titolo Le Détroit de Behring, edito in Francia nel 1986 e recentemente uscito in italiano nella bella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco con l’azzeccato titolo Ucronia, ci guida attraverso un vero e proprio viaggio in un’altra dimensione, in un tempo che non c’è.

I più importanti esempi di ucronia verso cui ci conduce lo scrittore francese appartengono alla modernità culturale piuttosto che alla postmodernità. Come ha notato Fredric Jameson, infatti, nella cultura postmoderna la categoria di spazio è considerata come dominante, in opposizione a quella di tempo, assai più importante, invece, per la modernità. Se l’eterotopia, infatti, nell’analisi di Foucault, appare una caratteristica importante della postmodernità (ma non l’utopia, che è stata sempre importante dagli antichi ai contemporanei), l’ucronia, nella cui etimologia campeggia la parola “tempo”, appare intrisa di modernità. Ecco che Carrère ci presenta nelle prime pagine del suo saggio una importante ucronia, Napoleone apocrifo, creata nel 1836 da Louis-Napoléon Geoffroy-Chateau, figlio di un ufficiale dell’esercito napoleonico caduto ad Austerlitz. Da notare anche che si tratta di un’ucronia nata prima che Renouvier coniasse il termine. Geoffroy ci racconta appunto di un Napoleone che, non sconfitto, ha creato un impero universale fino a morire per un colpo apoplettico nel 1832, a 62 anni. Creando un Napoleone imperatore del mondo, come nota Carrère, l’ucronista Geoffroy “non può rassegnarsi all’idea della sua caduta, che lo tocca così da vicino” e si autoconvince che la storia che egli racconta sia quella giusta adoperandosi per screditare quella che conosciamo e per estirparla alle radici: “dal momento che non si può fare in modo che la storia sbagliata non abbia avuto luogo, e neppure che gli uomini la ignorino, bisogna prodigarsi, soli contro tutti, per screditarla”. E se la storia ‘ufficiale’ fosse un enorme inganno? Se fosse stata creata ad arte da alcuni occulti ‘reggitori dei fili’? solo mettendo in discussione la storia si può giungere a una possibile legittimazione dell’ucronia. D’altra parte, Carrère cita il grande storico Paul Veyne che così si esprime: “Non si è storici se non si avverte, attorno alla storia che si è realmente verificata, una moltitudine indefinita di storie compossibili, di cose che avrebbero potuto andare altrimenti”.

Certo, si potrebbe pensare che l’ucronista, sotto sotto, possa essere anche un oscuro creatore di fantasie di complotto dal momento che molti complotti, come nota Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto, si basano su “un gioco di realtà alternative divenuto mostruoso”. Perché non dobbiamo mai neanche sottovalutare, per utilizzare un’espressione di Carrère, “l’onnipotenza di chi ha in mano la penna” e basterebbe evocare un titolo come Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, in cui si infittiscono manoscritti criptati dai quali per gioco emergono piani e fantasie di complotto. E anche quest’onnipotenza – si potrebbe aggiungere – appare del tutto appartenente alla modernità: oggi, nel mondo digitalizzato, basterebbe forse sfiorare pochi tasti di un touch screen. Del resto, lo stesso Manzoni nei Promessi sposi, pur non creando un’ucronia, grazie al potere e alla maestria della sua penna (con la quale ci ha anche presi in giro creando la messinscena del manoscritto ritrovato) ha ritagliato all’interno della storia una vicenda fantastica (ma plausibile) con personaggi anch’essi fantastici ma anche profondamente realistici. L’ucronista-complottista, allora, quasi fosse l’oscuro killer di un romanzo noir, avanzerebbe cancellando prove e eliminando studiosi e testimoni, per creare il suo universo alternativo e per tramandarlo ai posteri, come in una versione moderna di Matrix.

L’ucronista non è un folle, anzi, è estremamente lucido e intelligente perché ha trasformato la sua idea ucronica in un feticcio: il suo solo campo di battaglia – nota Carrère – è la memoria. Se l’ucronia a carattere ‘privato’ e personale può portare a speculazioni, appunto, dal carattere più o meno innocuo (del tipo, se io avessi studiato fisica nucleare probabilmente adesso non starei qui a scrivere questa recensione, ma non si sa mai), quella che ingloba grandi accadimenti storici può essere uno strumento di potere. Charles Renouvier, nella sua opera che si intitola appunto Ucronia, “non dipinge un idillio, non traccia, come Geoffroy, una curva trionfale tutta ascendente: ci sono guerre, invasioni, crisi, proprio come nella realtà” (e in questo modo l’ucronia appare più verisimile). Il filosofo francese costruisce un mondo in cui il cristianesimo non ha attecchito in Occidente, restando relegato in Oriente. In Occidente, anche nella modernità, continua a prosperare la potenza di Roma, rigorosamente pagana, perché gli imperatori hanno cercato di bloccare l’avanzata del cristianesimo in ogni modo (infatti, “se mai riusciranno a trionfare, dovremo rinunciare a tutto ciò per cui la vita è degna di essere vissuta: ai nobili piaceri, alla virtù disinteressata, alla libertà di cui godiamo, alla speranza di estenderla nel mondo…”). Sempre su questo tema, si potrebbero ricordare allora altri romanzi che Carrère nel 1986 non poteva conoscere, e cioè la trilogia ucronica di Sophie McDougall, composta da Romanitas (2005), Roma brucia (Rome burning, 2007) e Il sangue di Roma (Savage city, 2010), in cui si immagina appunto che l’impero romano non sia mai caduto arrivando fino ai giorni nostri.

Lo scrittore francese, nel suo interessante saggio, ricorda anche altre ucronie, tra cui Ponzio Pilato (1961) di Roger Caillois, in cui non solo l’Occidente, come nell’opera di Renouvier, ma tutto il mondo riesce a scongiurare il cristianesimo semplicemente perché Ponzio Pilato decide di non condannare e di liberare Gesù. Un altro importante romanzo ucronico è La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962) di Philip K. Dick, in cui lo scrittore immagina che le potenze dell’Asse abbiano vinto la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1960 siano diventati un protettorato giapponese. Come in un’ucronia che si rispetti, l’autore non indugia nel descrivere le circostanze che hanno portato a questi eventi: dal momento che si tratta della realtà (seppure fittizia), sono conosciuti da tutti e non è necessario descriverli. È con questa reticenza, con questo ‘non detto’ che l’ucronia si rafforza. E grazie al libro di Carrère, che oggi questa bella e appassionante traduzione ci permette di leggere finalmente in italiano, capiamo come negli interstizi della storia si possano celare spazi di ‘non detto’, delle ellissi che possono spalancare porte verso territori immaginari e immaginati: perché la storia e – si potrebbe aggiungere, vista la complessità che circonda da ogni lato – anche le vicende contemporanee, vanno sempre lette e sondate con estrema attenzione e lucidità e, perché no, anche con la giusta pacatezza e modestia.