di Francisco Soriano
oblìo (non com. obblìo) s. m. [der. di obliare], letter. – 1. a. Dimenticanza (non come fatto momentaneo, per distrazione o per difetto di memoria, ma come stato più o meno duraturo, come scomparsa o sospensione dal ricordo).
oblivióne = lat. OBLIVIÓNE comp. del prefisso OB e del rad. LIV-, al quale il Corssen riconnette lív-or pallore, lív-idus livido, nericcio: onde ob-liv-ísci significherebbe impallidire, divenire oscuro. Voce poet. Il non aver più ricordanza.
Di solito è la memoria, il ricordo, la rimembranza ad avere un ruolo importante nell’immaginario collettivo e nel bagaglio valoriale delle persone. La memoria è sedimento, struttura, esperienza, induce alla previsione degli accadimenti, è pedagogia, sostegno al futuro e lotta all’imprevedibilità del destino. E l’oblio, invece?
Esiste un oblio attivo? Può essere una risorsa? Forse l’oblio è per se stesso memoria, la favorisce, nel momento in cui si sceglie di non recuperare i ricordi negativi e disturbanti, né gli spazi inibenti e irrilevanti, creando nel vuoto della dimenticanza una dimensione nuova di vita. Così l’oblio può consentire l’acquisizione della conoscenza e predisporre condizioni positive per il pensiero creativo. Per questo motivo dimenticare significa anche misurare le emozioni, setacciarle, regolarle, cancellarle, conservarle, bilanciarle. In poesia l’oblio appare sullo stesso piano della memoria, come uno spazio e un attraversamento, un luogo dove le cose capitano ed esistono.
Nella poesia di Jorge Luis Borges intitolata Everness, lo scrittore sembra sostenere che l’oblio non esiste. Gli nega uno spazio e pare relegarlo in un vuoto non definibile. Nessuna energia per l’oblio, né logoramento, né forza generativa: «sólo una cosa no hay. Es el olvido». Nel tentativo di definire l’oblio, Borges non si ferma alla sua «negazione», alla stregua di chi sostiene ad esempio che il male è solo assenza del bene. Per lo scrittore argentino è importante ciò che esiste davvero, e non esiste nulla che non possa essere ricordato.
La sola cosa che non c’è è l’oblio.
Dio salva col metallo anche la scoria
e nella sua profetica memoria
le lune passate o future sono una.
Dunque tutto è presente. Mille effigi del volto amato provano negli specchi l’esistenza della memoria di oggi e di quella che verrà lasciata nei domani. «E tutto è una parte del diverso», a sua volta «specchio di quel ricordo: l’universo».
Tutto è presente. Sì, le mille effigi
che tra i due crepuscoli del giorno
il tuo volto ha lasciato negli specchi
e quelle che potrà lasciarvi ancora.
E tutto è una parte del diverso
specchio di quel ricordo, l’universo;
non hanno fine i suoi ardui corridoi,
davanti a te si chiudono le porte;
solo dall’altra parte del tramonto
vedrai gli Archetipi e gli Splendori[1].
La metafora dello «specchio» pone però dei quesiti. Nella cultura nipponica, ad esempio, esso rappresenta il vuoto perché non contiene le immagini, non le conserva, non le «ricorda», appunto. Così in quest’ottica l’immagine riflessa potrebbe rappresentare un’ulteriore finzione, irrealtà, dimenticanza. Anche in questo caso le parole del poeta pongono altri dilemmi. Come Zenone che spiega l’unità in contrapposizione al molteplice con i suoi paradossi ancora oggi irrisolvibili, così il poeta argentino, nel definire la memoria quasi come una entità fatta salva imperituramente dal divino dove passato e futuro trovano residenza, vuole contribuire alla definizione dell’unità delle cose.
La ricerca degli spazi dell’oblio riconduce al suo opposto, o quanto meno, se viene percepito anch’esso come una attività della nostra mente e dunque del nostro spirito non può che essere dedotto o argomentato in relazione/contrapposizione con la memoria. L’oblio può essere immaginato come l’opposto di mneme o di anamnesi? Nella scia di quanto suggerito da Platone, la prima rappresenterebbe una sorta di registrazione e catalogazione degli eventi e dei dati, la seconda una vera e propria attività: una ricerca. Se la considerazione che si dà all’oblio corrisponde alla sua alterità «assoluta» nei confronti della memoria, lo si potrebbe definire come uno spazio di inattività, quasi di nascondimento, di volontaria incoscienza di ciò che è stato vissuto, visto, fatto. La perdita della memoria in riferimento all’oblio è dunque ipotizzabile come perdita del passato: è invece prezioso nella memoria, utile forse, addirittura pedagogico, mentre al contrario quando è relegato al vuoto della dimenticanza è per evitare terribili dolori, mancamenti, attraversamenti patologici, ripetizioni, noia, dubbi.
Il grande pensatore Martin Buber nella cornice della sua cultura ebraica affermava che «se non ci fosse la dimenticanza l’uomo penserebbe continuamente alla propria morte e non costruirebbe e non intraprenderebbe nulla. Perciò Dio ha posto negli uomini la dimenticanza. Per questo un angelo è incaricato di insegnare al bambino così che non dimentichi nulla e un altro angelo è incaricato di battergli sulla bocca perché dimentichi quello che ha imparato»[2]. Anche in questo caso si fa ricorso al divino, ma in una prospettiva opposta a quella di Borges, sublimando cioè la capacità negli uomini della dimenticanza come motore vitale dell’intera esistenza, per il raggiungimento dell’obiettivo superiore di progredire nella memoria e nella dimenticanza nello stesso tempo. In Buber è positiva la progressione dell’umanità: egli non contrappone gli angeli portatori di due messaggi opposti, ma addirittura li rende partecipi a un unico fine comune. La geniale intuizione del filosofo ebreo ci pone in condizione di accogliere memoria e oblio con lo stesso valore e in una unità difficile da percepire se non in quest’unica ottica, che vorrebbe incarnare una profezia del bene e della felicità.
Come dimenticare il contributo di Marcel Proust sul tema delle rimembranze e dell’oblio? Lo scrittore transalpino ha fatto oggetto della sua opera proprio le intuizioni sul tempo, sulla memoria e sulla dimenticanza. Il primo passo è individuare una forma dicotomica della memoria: quella volontaria tipica dell’intelligenza e quella involontaria che viene attivata da oggetti o stimoli che in apparenza ci appaiono di poca importanza. Forse proprio quest’ultima, che può sembrare «inconsistente», è al contrario rilevante perché determinerebbe una resurrezione, un ritorno, una inattesa deflagrazione di qualcosa che ci appare morto definitivamente e nella realtà così non è. Sarebbe fuorviante, infatti, immaginare la memoria involontaria come semplicemente percettiva, seppure con il valore di restituire alla vita cose, persone o situazioni pensate come morte o definitivamente cancellate. In realtà le percezioni non si clonano né si duplicano, ma vengono assimilate dentro di noi solo parzialmente, senza mai spezzare un rapporto di comunicazione con l’intelletto. Basti pensare al processo di resurrezione delle «cose accantonate», alla sua complessità, tanto per poter immaginare questa dinamica di «rielaborazione». Da questo postulato si può comprendere facilmente che la forza della memoria sta proprio nella dimenticanza e nel ruolo della categorizzazione, nel senso che l’intelligenza esclude ciò che non riesce, o non vuole, definire e categorizzare. Per questo Proust dice che è la parte migliore ed essenziale quella che resta fuori di noi. In definitiva l’origine e il motore del ricordo è in seno all’oblio, non gli è estraneo né sopravvive al di fuori. «Ecco perché la parte migliore della nostra memoria è fuori di noi […]. Fuori di noi? In noi, per meglio dire, ma sottratta ai nostri stessi sguardi, in un oblio più o meno prolungato. Solo grazie a quest’oblio possiamo di tanto in tanto ritrovare l’essere che fummo […]. Nella piena luce della memoria abituale le immagini del passato impallidiscono a poco a poco, si cancellano, non ne rimane più nulla, non le troveremo più. O piuttosto, non le troveremmo più, se qualche parola […] non fosse stata accuratamente rinchiusa nell’oblio, allo stesso modo che si deposita alla Biblioteca Nazionale l’esemplare di un libro che rischierebbe altrimenti di diventare introvabile»[3].
«Stravolgete la mia memoria e avrete altresì contraffatto la mia identità»[4], sosteneva Gesualdo Bufalino, segnalando l’esistenza comune di identità e memoria. Ma l’oblio consente di re-immaginare, re-impostare e dare alle immagini, alle cose, alle essenze una nuova natura letteraria e poetica. Bufalino sottolinea quanto la scrittura possa far ritornare in vita, come in Cere perse, «il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere»[5]. Dunque la memoria e il suo contrario sono le ragioni per cui si scrive, ci si interroga, obbligatoriamente si mistifica, ma non si nega mai alla scrittura il valore arcano che le permette di resuscitare qualsiasi cosa. Bufalino ripone così nell’oblio e nella memoria il ruolo di una fonte, un’eterna capacità di vagabondare fra identità perduta e dimenticanza, quest’ultima rigenerativa e cosciente. La parola, le parole sono l’unico stratagemma per rimanere in equilibrio sul borro della creatività, del dominio sulla ricerca sempre viva seppure immersa nel tragico viatico del Nulla, che pervade ogni dove la nostra esistenza.
L’oblio esiste. Esiste quel luogo cancellato dalle cartine delle coscienze, dalle mappe dello spirito, da ogni segnale che indichi una direzione. La poesia ancora una volta assolve al suo furore tacito, alla sua fulgida capacità di permeare nel buio di ogni passato cancellato o consapevolmente dimenticato il dono di una nuova vita. Sia essa tragica o felice, dolorosa o delicata gioia, si insinua, talvolta atterrisce, altre esplode in un battito di luci. Questo è l’oblio necessario avamposto anche dell’amore, per se stessi, per il prossimo. Gettare nell’oblio ogni senso di dolore, di torto subito, di angoscia, è preludio alla gioia, forse alla felicità. Il ricordo e la memoria sono spesso un punto di arrivo insanabile, definitivo, una zavorra dalla quale non si è in grado di liberarsi. Quale pace e quale ricostruzione con la memoria di un male che apparirà per sempre invincibile? Che sia l’oblio la proposta di una rinascita?
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NOTE:
[1] Jorge Luis Borges, El Otro, El Mismo (1964); trad. it. L’altro, lo stesso, in Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985, vol. II, p. 157.
[2] Martin Buber, I racconti dei Chassidim, Guanda, Parma 2021.
[3] Marcel Proust, A l’ombre des jeunes filles en fleurs (1918); trad. it. All’ombra delle fanciulle in fiore, Einaudi, Torino 2017, p. 236.
[4] G. Bufalino, Lanterna cieca, in Opere 1981-1988, Bompiani, Milano 2010, p. 1021.
[5] Id., Le ragioni dello scrivere, ivi, p. 823.