di Gioacchino Toni

Samuel Antichi, Shooting Back. Il documentario e le guerre del nuovo millennio, Meltemi, Milano, 2024, pp. 198, € 18.00

Sebbene, come argomentato pionieristicamente da Paul Virilio, da tempo le tecnologie mediali sono state assorbite e fatte proprie dall’industria bellica, è però con lo svilupparsi delle tecnologie del visibile digitali contemporanee che gli immaginari di guerra possono dirsi sostanzialmente cambiati rispetto al passato indirizzati come sono a percepire in maniera anestetizzata un conflitto virtualizzato dalle immagini derivate da satelliti spia, droni, armamenti autonomi o semiautonomi e dispositivi di sorveglianza di ogni tipo.

A cambiare la percezione della guerra concorrono, però, anche gli usi personali dei dispositivi di ripresa che dal punto di vista comunicativo e sensoriale contribuiscono in maniera importante a riconfigurare la memorialistica di guerra e la forma testimoniale. Alla luce di tale contesto, Samuel Antichi riflette sulla relazione dialogica che si viene a creare tra il cinema documentario contemporaneo e la storia, su come questo possa agire da strumento conoscitivo capace di rileggere e riformulare il passato traumatico costruendo una memoria per il futuro.

Nella prima parte del libro lo studioso si occupa del racconto della guerra “in presa diretta”, concentrandosi «su documentari che cercano di trasmettere la guerra come un’intensa esperienza corporea in cui la camera diventa veicolo emotivo ed estensione multisensoriale, portando ad una radicale identificazione, da parte dello spettatore, nella figura del soldato».

Ad essere esaminate sono innanzitutto le testimonianze in soggettiva registrate dagli stessi militari impegnati nel conflitto nella loro capacità di restituire allo spettatore un’immersione sensoriale, rendendo il conflitto percepibile e palpabile. A tale tipologia appartengono diversi documentari girati nel corso delle guerre in Iraq e Afghanistan che oscillano tra spettacolarizzazione del conflitto e destabilizzazione del paradigma militarista contrastando l’assuefazione delle immagini palliative di guerra, allontanando lo sguardo dal conflitto e rendendo percettibile ciò che viene tralasciato convenzionalmente piuttosto che cercare di restituire una prossimità viscerale e adrenalinica all’azione».

La diffusione della figura del testimone amatoriale, come del dissidente o dell’attivista politico, che, grazie alla disponibilità tecnologica, a partire dal semplice smartphone personale, registra dal suo punto di vista quanto accade sul teatro del conflitto in cui è presente e, in qualche modo, partecipe in prima persona, si è palesata, ad esempio, nel corso delle cosiddette Primavere Arabe. «In contrasto con la neutralità, l’oggettività, il distacco, la distanza e l’imparzialità, generalmente associata alla pratica di costruzione dell’informazione e al giornalismo professionale, la soggettività, l’affettività e la partigianeria, tratti distintivi del citizen imagery, tentano di costruire l’affermazione di realtà, moralità e veridicità delle immagini realizzate».

Le immagini raccolte attraverso i dispositivi personali «acquisiscono valore e forza nel momento in cui circolano e si richiamano in una costellazione di senso, promuovendo forme di attivismo e di intervento contro regimi oppressivi e violenti». A tal proposito Antichi si focalizza sul Camera Distribution Project del Centro di Informazione per i diritti umanitari nei Territori occupati B’Tselem che prevede la distribuzione ai cittadini palestinesi di handycam con cui documentare le violenze dell’esercito israeliano e dei coloni. La macchina da presa diventa in questo caso un’arma di comunicazione di massa nelle mani di citizen camera witnesses che si oppongono alla dominazione visuale imposta dai colonizzatori nei Territori occupati.

Nella seconda parte del volume, l’attenzione dello studioso si sposta sulla pratica del riuso del materiale d’archivio nel cinema documentario contemporaneo consentita, a partire dal nuovo millennio, dalle nuove tecnologie digitali, con tutte le potenzialità e i rischi derivanti da un eventuale utilizzo decontestualizzato dei frammenti visivi.

Per quanto negli ultimi decenni siano molte le produzioni documentaristiche audiovisive che hanno ripercorso i conflitti facendo largo uso di materiale audiovisivo d’archivio inframmezzandolo con interviste di testimoni ed esperti – si pensi, ad esempio, alle realizzazioni di History Channel e Discovery Channel –, lo studioso preferisce focalizzarsi sui processi di decostruzione del materiale d’archivio o del repertorio di propaganda che hanno dato vita ad una sorta di contro-archivio.

Il materiale d’archivio oggi contempla, oltre alle produzioni professionali, le tante registrazioni amatoriali diffuse in rete. In una tale dilatazione archivistica, problematizzando i limiti della rappresentazione del trauma storico e delle diverse modalità di restituzione e configurazione della guerra, il cinema documentario contemporaneo può ambire a ri-ordinare e ri-organizzare il materiale filmato del conflitto che satura il mediascape contemporaneo tentando, attraverso una rielaborazione critica del discorso intermediale, di dare alle immagini una dimensione plurale e testimoniale capace di attivare valori e sensibilità nello spettatore.

La parte finale del volume prende il via da alcune riflessioni su come la copertura mediatica che ha restituito la prima guerra del Golfo come una guerra tecnologica abbia segnato un momento importante di svolta nelle modalità di visualizzazione dei conflitti contemporanei e di come lo sviluppo di armamenti basati sull’esperienza simulata, anziché sulla visione umana, abbia trasformato la nozione e la percezione della guerra.

Le nuove guerre sono sempre meno raccontate da reporter testimoni sul campo degli accadimenti e sempre più dalle notizie rilasciate dai governi e dagli eserciti non solo attraverso dispacci ufficiali ma anche e soprattutto attraverso immagini riprese a raggi infrarossi, registrate direttamente da armi telecomandate a distanza,

immagini operative, che non hanno un rapporto indessicale con il mondo esterno filmato, ma assumono un valore funzionale all’interno di un processo tecnico. Questa forma di rappresentazione diventa l’emblema di un immaginario di guerra operazionale, derealizzato, dissimulato, una smaterializzazione del conflitto in una spettacolarizzazione sublime. La virtualità sembra prendere il posto della fattualità. Il progresso tecnologico che mira a superare e potenziare la percezione umana messo in atto nella prima guerra nel Golfo, armare lo sguardo con l’occhio asettico che diventa arma, che porta ad una trasformazione della nozione stessa di guerra con l’impiego delle smart bombs, raggiunge una naturale evoluzione con l’utilizzo ormai consolidato dei droni in campo bellico. (p. 18)

La derealizzazione spettacolarizzata del conflitto lo rende sempre più simile ai videogame di ambientazione bellica, conferendo alla guerra, almeno per chi detiene le tecnologie e vi prende parte al riparo nelle sue comfort zone, un’esperienza asettica non solo perché priva dei rischi che invece corre chi la subisce direttamente, ma anche perché guarda al nemico come a un’incorporea immagine sullo schermo di un videogame.

La chiusura del volume è dedicata al ricorso alla documentazione audiovisiva non solo nell’ambito culturale, ma anche nelle aule dei tribunali nazionali e internazionali e nelle inchieste parlamentari, con tutte le potenzialità e i rischi che ciò che comporta.


Guerrevisioni serie completa