di Franco Pezzini

I re e la strega

(qui, qui e qui le parti precedenti)

Berkeley, Gloucestershire, 2010. Una cittadina di mercato, poche migliaia di abitanti: non particolarmente pittoresca quanto ad abitato, ma merita farci un giro. Passiamo davanti alla casa, ora museo, di  Edward Jenner (1749-1823), ma senza fermarci: siamo qui per cercare due costruzioni particolari.

La prima è la chiesa. Deve trattarsi di St Mary the Virgin, anche se l’attuale è del XVIII secolo: sorge sul sito di una chiesa medioevale – XII secolo, con aggiunte successive – preceduta pare da una sassone (le pietre riutilizzate nella costruzione attuale presentano incisioni appunto sassoni). La storia consumata tra queste arcate – o meglio, quella della chiesa precedente – mi aveva inquietato da ragazzino, quando mi ero comprato il libretto di Peter Haining, Stregoneria e magia nera (I colibrì Mondadori 1972: l’originale inglese era dell’anno prima): lo strepitoso corpus d’illustrazioni di Jan Parker vi dedicava una tavola indimenticabile. Riguardava la storia della strega di Berkeley, una leggenda medievale inglese trasmessa da Guglielmo di Malmesbury (c. 1095 – c. 1143) nel suo Gesta Regum Anglorum dedicato alla regina Matilda (figlia di Malcolm III di Scozia, moglie di Enrico I d’Inghilterra): dove la storia dei re diventa il filo rosso, il collettore e la giustificazione di una colossale raccolta di informazioni da ricordare, storie tradizionali, leggende.

Giunta alla fine della vita dopo aver goduto ricchezza, lasciva bellezza e una pirotecnia di peccati grazie alla magia nera, la strega in questione – il nome è ignoto – aveva finito col confessare ai figli le fonti non proprio commendevoli del suo successo. Ora i demoni – sapeva bene – stavano venendo a prendersela con tutto il corpo, quindi era necessario che i rampolli la vegliassero tre notti in chiesa per seppellirla in sicurezza il quarto giorno. Diramava quindi una serie di istruzioni che dovettero apparire bislacche – cucire il corpo nella pelle di un cervo, legare la bara con tre enormi catene… –  e insomma che fai? la mamma ti chiede… per cui eccoli lì a seguire il rituale. Ma invano: in due notti di fila, i demoni sfondarono le porte della chiesa e spezzarono due delle catene. La terza notte, un diavolo “orrendo nell’aspetto” entrò con l’aria da bullo, spezzò la terza catena e trascinò via la donna: la caricò a cavallo e scomparve alla vista, lasciandosi dietro solo le strazianti grida di lei.

Presentata in contrappunto alla storia della morte di Gregorio VI (in carica 1045-1046), a opporre la sorte oltremondana di un uomo devoto e di una donna peccatrice – si noti il sesso dei due soggetti – la storia sarebbe frutto di testimonianza di un uomo che la vide accadere, dunque in apparenza poco precedente la data della trascrizione, ma il racconto è interessante per i dettagli. La strega, specializzata nell’interpretare i comportamenti degli uccelli, viene a sapere del suo prossimo fato dal verso di una taccola, e qui può emergere la cultura classica – le forme divinatorie dell’antica Roma – del dotto trascrittore; una storia simile è reperibile nei Dialoghi di Gregorio I, a proposito della triste sorte di un ecclesiastico milanese; la vicenda di un cadavere posseduto da un demone e cucito in una pelle animale si trova nel De miraculis sancti Eadmundi di “Ermanno l’Arcidiacono” (chi sia non è chiaro)… dove la cucitura di un corpo in una pelle di cervo o vitello a fini apotropaici sembra rimandare a un passato assai remoto, forse sciamanico, o a quel sottomondo esplorato da Carlo Ginzburg in Storia notturna. Posto che Robert Southey riprenderà la storia in The Old Woman of Berkeley. A Romantic Legend (1798), il tema rimanda a un passato remotissimo (neolitico?) sulla veglia al morto minacciata da creature sovrannaturali: se ne trovano tracce nel Satyricon, in Apuleio e poi, in contesti cristianizzati, molto dopo Guglielmo, con sfumature diverse ma sulla stessa base, ancora nel Vij di Gogol’.

A me ragazzino aveva molto colpito il clima alla Carpenter di quella chiesa assediata, con il brivido di un’inesorabilità sottesa, ma soprattutto la meravigliosa tavola di Parker al testo di Haining che riportava la storia: perduta ormai ogni avvenenza stregata, la fattucchiera, rigida nella camicia da notte, sembra una mummia dai tratti avvizziti. La sorregge con artigli e ali pipistrellesche, con l’aiuto di tre demoni minori, un diavolo enorme dal muso di capra e insieme vagamente equino (il cavallo del rapimento?) stagliato in un ambiente – pavimento a scacchi bianchi e neri, finestra dalla vetrata a rombi – che può evocare una chiesa. Con questo pregresso, entrare nel luogo del fattaccio era dunque un’emozione forte: vetrate lavorate, monumenti alle pareti, il sontuoso sepolcro dell’aristocratico locale Thomas III detto il Ricco, Lord Berkeley e della seconda moglie Lady Katherine, morti rispettivamente 1361 e 1385, con le effigi coricate sul coperchio, rappresentano un quadro che merita una visita a chi venga da queste parti.

Per inciso, Lord Thomas era stato imprigionato in seguito al fallimento di una delle rivolte baronali contro Edoardo II. Verrà liberato nel 1326 alla sconfitta del re, probabilmente su intervento di Roger Mortimer, “il giovane Mortimer” del dramma di Marlowe, di cui Thomas in prime nozze aveva sposato la figlia Margaret (avuta da Mortimer con la moglie Joan de Geneville, e morta 1337). Il che ci riporta a bomba all’Edoardo II. Riprendiamolo in mano.

Atto terzo. Il re sta considerando malinconico che non rivedrà più il suo Gaveston, “I baroni mi sopraffanno con la loro superbia”. Il giovane Spencer lo esorta a reagire, come avrebbe fatto il suo predecessore buonanima, e il re concorda di essere stato fin troppo mite: ma ora ha estratto la spada, e se non gli rimandano il suo Gaveston pareggerà le cime delle loro creste. Bravo, non è più uno scolaretto, commenta il cortigiano Baldock. Ma arriva il padre di Spencer (Hugh le Despenser il vecchio, 1261-1326), augurando lunga vita al re: accompagna una piccola truppa di uomini fedeli al sovrano, per gratitudine di aver accolto a corte suo figlio. Edoardo commosso nomina il giovane cortigiano conte del Wiltshire: poi gli affida l’incarico di acquistare alcune terre, per non farle acquisire ai baroni. Col risultato che presto si riprodurrà una situazione in qualche modo speculare a quella precedente con Gaveston, anche se il giovane Spencer/Despenser ne è la versione persino più estrema e spiacevole (e pagherà un pezzo persino più alto, come mostra una celebre tavola di Loyset Liédet da un manoscritto delle Cronache di Jean Froissart). Nel caso di Spencer non vediamo scene sentimentali col re come quelle – qualunque sia la realtà storica – relative al precedente favorito: la fama pubblica sarà nuovamente di una relazione sessuale foriera di indebiti onori (il giovane Despenser aveva anzi scalzato il favorito in carica dopo Gaveston, Roger d’Amory), ma Marlowe non insiste sul tema. Probabilmente la mancata enfasi sulle ribalderie di Spencer/Despenser è funzionale a conciliare maggiormente lo spettatore con il profilo del re.

Comunque, ecco arrivare la regina con il figlio Edoardo principe di Galles e il francese Levune: la notizia è che il re di Francia (in teoria, considerando la datazione, potrebbe essere Luigi X, detto l’Attaccabrighe, ma va identificato in un successore, Carlo IV il Bello – entrambi fratelli di Isabella), offeso dal re per alcuni mancati omaggi, si è impossessato della Normandia. Isabella appare opaca, svuotata. Preoccupato per Gaveston, il marito non si cura però dei problemi con la Francia, confida che verrà risolto tutto: andranno oltre Manica sua moglie e suo figlio, che pure mette le mani avanti sulla portata limitata del proprio intervento. Edoardo II si occuperà invece del conflitto interno, e Isabella commenta “Guerre innaturali, quelle in cui / i sudditi sfidano il re – Che Dio / le faccia finire una volta per tutte”, e poi si congeda. La solita ipocrita? Nei fatti, la presenza del figlio sembra depotenziare la lupa di Francia. Se nell’atto precedente tra lei e Mortimer era parso profilarsi qualcosa come un innamoramento genuino, al netto della crudeltà dei giochi (“[…] ma pensate a Mortimer, perché lo merita”, “Lo meriti tanto, dolce Mortimer, / che Isabella potrebbe vivere con te per sempre”), rientrata nel ruolo pubblico di madre, Isabella sembrerà dismettere l’amore cortese. L’opacità non è dunque solo una maschera per Edoardo, ma pare segno di fratture in lei – forse presa dall’ansia per l’amante nel campo dei ribelli, forse ricondotta al suo ruolo dalla presenza del figlio.

Viene da pensare a questi tormentosi viluppi di passioni, ambizioni e tragedie proprio a Berkeley dove ci troviamo. Perché il secondo edificio che, lato nostro, richiede assolutamente una visita è il Castello. Le sue origini affondano nell’XI secolo poco dopo la conquista normanna, con una ricostruzione il secolo dopo da parte della famiglia Berkeley e successive modifiche. Visto sotto un cielo grigio in un giorno di pochi turisti ha l’aria cupa, massiccio e coronato da alti camini, a dispetto dei giardini aperti di fronte. L’atmosfera debitamente gotica è accentuata dalla presenza della cella dove tradizionalmente Edoardo II (lo vedremo in prosieguo) passerà i suoi ultimi giorni di vita e forse verrà orribilmente assassinato. In epoche successive il castello verrà arricchito di quadri e arazzi, ma – anche senza lasciarsi prendere troppo dalla suggestione – un clima vagamente inquietante e doloroso regna ancora tra le sale. Leggere qui il dramma di Marlowe permette di coglierne più facilmente le dimensioni angosciose. Proseguiamone la lettura.

Isabella è appena uscita assieme al figlio quando compare Lord Arundel, solo: conferma ciò che il re teme, che cioè Gaveston è morto – Pembroke si era offerto di accompagnarlo dal re, ma poi il favorito è stato rapito da Warwick e rapidamente decapitato in un fossato (19 giugno 1312). Un ritratto emblematico del medesimo Warwick dai Rous Rolls (XV sec.) lo raffigura baldanzoso in piedi, una chiesa in una mano e una bandiera nell’altra, proprio sopra il corpo decollato di Gaveston. Quella fama dovette restargli associata come a Walter Audisio quella di aver ucciso Mussolini.

Spenser esorta allora Edoardo a vendicarsi degli assassini dell’amatissimo favorito. Il re, inginocchiatosi, giura di prendere “per lui vite e teste”: trascinerà corpi e tronchi senza testa dei traditori Warwick e Mortimer “in laghi di sangue / dove potrete sguazzare e ingozzarvi” e tingerà col loro sangue lo stendardo reale. E a quel punto nomina Spencer conte di Gloucester e Lord Ciambellano (1318) a dispetto dei nemici.

Ma arriva un messaggero dei baroni: augurano a lui lunga vita e felicità e gli chiedono di allontanare dalla corte il nuovo favorito, quello Spencer, “ramo putrescente / che uccide la vigna regale”, “pernicioso villano”. Si tenga cari i vecchi servitori e si liberi dei mendaci adulatori. Edoardo caccia però il messaggero imprecando contro i ribelli che “Vogliono decidere loro i giochi, i piaceri, la compagnia del loro sovrano”. Anzi, il messaggero guardi come allontana Spenser: lo abbraccia davanti a lui ed esorta ad avvisarli che li punirà. In effetti, attorno al 1320 la sfacciataggine dello Spencer storico, cioè Hugh le Despenser il Giovane, è ormai senza freni, e grazie alla protezione del re lo troviamo commettere abusi arroganti, violenze brutali, ingiustizie clamorose quanto in fondo stupide – che gli creano infiniti nemici nel regno.

Con inganno, violenze e manipolazioni si impossessa così contro ogni diritto di terre altrui, fa uccidere senza processo il nobile gallese Llywelyn Bren che si era ribellato… insomma, si può capire che con questo quadro (taciuto da Marlowe) il nuovo favorito venga detestato, che si tenti contro di lui un attacco con la magia nera e che, considerato lo scarso effetto della statuetta in cera coperta di spilli, i baroni si rivoltino. E ora alla testa dei soldati a lui fedeli, il re marcia contro di loro.

Qui il testo sembra sintetizzare in pochi passaggi una serie di vicende più complicate, legate alla cosiddetta Despenser War (1321-1322). Storicamente, i Despenser si trovano in breve costretti all’esilio (1321) e mentre Hugh padre ripara in Francia, Hugh figlio non trova di meglio che darsi alla pirateria sulla Manica. Davvero un cattivo soggetto.

I Despenser riescono però a tornare, ricominciano gli abusi e i baroni riprendono le armi.

La scena seconda vede le truppe del re inizialmente in ritirata, sfiancate dal caldo (non è chiaro se questa iniziale rotta del suo esercito adombri in chiave di stenografia di scene la cacciata dei Despenser). Comunque Edoardo si trova davanti i baroni incarogniti: consideri che i suoi adulatori stanno ritirandosi, chiarisce al re il giovane Mortimer. Ma lui, re indegno, preferisce “bagnare / la spada nel sangue dei (s)uoi sudditi / piuttosto che bandire quella compagnia perniciosa”… Entrambe le parti proclamano di avere san Giorgio dalla loro: ma ora la sorte sul campo, a Boroughbridge nello Yorkshire (1322, vi muore Humphrey de Bohun, quarto conte di Hereford, uno dei capi della rivolta) si rivela sfavorevole ai ribelli.

Kent, Warwick, Lancaster e Mortimer finiscono così col trovarsi prigionieri. Il re annuncia che vendicherà l’uccisione di Gaveston a lui tanto caro e Kent, fratellastro di Edoardo, gli ricorda che tutto è avvenuto a tutela di lui e della sua terra – ma viene allontanato. Il re annuncia che la testa di Warwick, assassino di Gaveston, sarà piazzata più in alto delle altre: poi fa trascinare via Warwick e Lancaster, impartendo al vecchio Spencer l’ordine di decapitarli, e fa chiudere Mortimer nella Torre. Per inciso, storicamente a morire a questo punto (1322) è il solo Lancaster, Tommaso Plantageneto: Guy de Beauchamp, X conte di Warwick, era morto nel 1315, avvelenato – si dice – per ordine di Edoardo.

Mentre Sua Maestà esce di scena soddisfatto (proclamando “Oggi Edoardo è di nuovo incoronato re”), Spencer affida ricchezze al francese Levune per comprare la pace ai nobili oltre Manica e negare soccorso a Isabella che conta di imporre il giovane figlio al posto del marito. Sembra peraltro che, più radicalmente, il giovane Despenser cerchi di corrompere i cortigiani in Francia perché assassinino Isabella. A questo punto possiamo forse capire meglio le ragioni di lei: ma Marlowe imprime al dramma una certa direzione e un certo significato, che non deve rispettare necessariamente la storia. Non che alla trama manchi una ricca base di letture storiche, tutt’altro: in particolare The Chronicles of England, Scotlande, and Irelande di Raphael Holinshed, 1577, come arricchite (forse da Abraham Fleming) nell’edizione 1587, dove si enfatizzava il carattere benevolo di Edoardo, la malvagità da dark lady di Isabella… Altre fonti del dramma sono plausibilmente le cronache di Richard Grafton, 1569, e quelle di John Stowe, 1580. Ma Marlowe ridisegna il tutto, attribuendo per esempio a Mortimer un ruolo dall’inizio, rendendolo amante di Isabella ben prima che nell’arrivo in Francia, tacendo una serie di aspetti spiacevoli dalla parte del re e del suo favorito Spencer/Despenser: gli interessa la costruzione di una storia dove cozzano idee diverse di potere, interessi diversi e del tutto umani, dolori e pathos attorno a una figura maledetta in cui in qualche modo si ritrova.

L’atto quarto inizia con Edmund del Kent diretto in Francia a incontrare la regina offesa: accoglie Mortimer in fuga dalla Torre (i Despenser non sono riusciti a convincere Edoardo a farlo giustiziare, storicamente il suo ruolo nella ribellione non era stato così importante – a morire nella Torre nel 1326 è invece lo zio, Mortimer il vecchio, forse di ferite) e procura anche a lui un passaggio oltre Manica. Nella scena successiva Isabella commenta delusa il fallimento dei propri tentativi e il figlio la esorta a tornare assieme in Inghilterra, contando sul proprio influsso sul padre; ma lei non nutre illusioni e alla fine accettano l’ospitalità del gentile Sir John di Hainault.

È allora che Edmund del Kent e Mortimer appaiono, inaspettatamente vivi, portando oltretutto notizie confortanti sull’esistenza di un partito avverso a Edoardo e Spencer. Ci si aspetterebbe che Isabella mostrasse entusiasmo nel ritrovare vivo Mortimer, ma non succede. Ormai indurita, si era forse rassegnata ad averlo perso e ora lo recupera frettolosamente: per cui non ci sarà più spazio per battiti sentimentali di ciglia, ma solo pragmatismo, cospirazioni da amanti semifreddi, un letto senza poesia. Eppure, sul piano della storia, è probabilmente ora che diventano amanti.

Torniamo alla corte inglese, dove Edoardo commenta con gli Spencer, Arundel e qualche cortigiano, le esecuzioni di ribelli in tutto il regno: l’elenco non è fornito da Marlowe forse per non criminalizzare il re, ma la quantità di nomi riportati nelle cronache –  fino a un mese prima “abbaiavano come cani arrabbiati” – aiuta a capire la gravità dello strappo. Se in fondo nella prima parte della tragedia entrambi gli schieramenti avrebbero la possibilità di tornare indietro, ormai qui si è consumata un’ostilità definitiva. Edoardo è comunque convinto che Mortimer sia ancora su suolo inglese, e che in Francia l’aristocrazia corrotta dall’oro inviato non offrirà alcun sostegno a Isabella. Arriva però un messo, e proprio dalla Francia, da quel Levune amico di Spencer: sì, la regina è scontenta per il mancato appoggio, ma ha trovato ospitalità nelle Fiandre presso Sir John di Hainault, e con lei sono Lord Edmund, Mortimer e altri fuoriusciti… per rientrare in armi in Inghilterra. Edoardo è stravolto dalla notizia, suo figlio è stato evidentemente coinvolto dai traditori: decide di raccogliere le proprie truppe a Bristol.

Isabella sbarca coi ribelli su suolo inglese (1326): dichiara la desolazione di essere costretta a una guerra civile, “Ma c’è altro rimedio? / Re mal consigliati sono la causa / di questa sciagura”… e sta proseguendo il discorso quando Mortimer la ferma, quasi infastidito. Chi combatte non si appassiona a grandi discorsi, proclama: sono lì a difendere i diritti del giovane Edoardo erede al trono, vendicarsi dei torti inflitti da suo padre, restituire la dignità alla regina e allontanare i parassiti. Dove certo, lo scambio un po’ brusco può essere funzionale a un teatrino delle parti davanti a tutti, ma potrebbe anche tradire quanto osservato in precedenza: al di là di un letto comune, ciascuno dei due gioca ormai spregiudicatamente per sé.

 

Comunque le truppe dei ribelli s’ingrossano, gli uomini del re vengono travolti: Spencer esorta alla fuga il re, che invece vorrebbe il proprio cavallo (possibile ammiccamento al Riccardo III di Shakespeare) per morire dignitosamente sul campo.

D’altra parte anche il campo dei ribelli conosce tensioni, crisi e ambiguità. Edmund del Kent constata di non essere riuscito a raggiungere il re e si augura che riesca a fuggire, impreca contro Mortimer che vuole la vita di Edoardo e contro se stesso per la propria ribellione. Ma poi ragiona di dover dissimulare la propria furia, a prezzo della vita, “perché Mortimer / e Isabella si baciano e intanto cospirano”. Eccoli, gli amanti fatali, ma non sono baci da romanzo cortese. Lei finge amore per Edoardo, ma “Vergogna su quell’amore che cova / morte e odio”: e meglio non farsi trovare da solo, considera Edmund, per non ingenerare sospetti.

Il clima tossico di questa situazione, efficacemente reso da Marlowe, è molto ben restituito nell’Edoardo II di Derek Jarman, 1991. Culmine ideale di una strana storia teatrale, che vede un notevole successo dalle prime messe in scena (tra il 1591 e il 1593) fino ai primi decenni del Seicento, e poi tre secoli di oblio fino al 1903. Pur con sforbiciature e imbarazzi, ricomparirà in patria varie volte, a Praga nel 1922 ispirando un rifacimento anche più spietato di Brecht poi proposto anche in Inghilterra. Ma anche l’originale di Marlowe torna in scena, per esempio per l’anniversario della nascita dell’autore (1964) in cinque luoghi diversi contemporaneamente, e dalla fine degli anni Sessanta cresce l’enfasi sugli elementi sessuali. Nel 1969 spicca la versione con Ian McKellen nel ruolo di Edoardo, e l’elemento erotico abbinato a quello politico. Altre versioni, più o meno crude, seguiranno e Jarman con la sua versione cinematografica – considerata esempio emblematico di New Queer Cinema – capitalizzerà questa eredità in un dramma durissimo, tra pantomime di scene sessuali e di torture. Le linee temporali vi impazziscono per la compresenza di abiti postmoderni, elementi medievali, la data 1991 su un proclama reale, l’esercito di Edoardo come manifestanti per i diritti omosessuali e la stessa apparizione inaspettata di Annie Lennox che canta struggente Ev’ry Time We Say Goodbye di Cole Porter. Isabella, che cerca di riconquistare il marito e soltanto dopo cede a Mortimer, è una straordinaria Tilda Swinton; Steven Waddington risulta un Edward molto carnale; Nigel Terry (l’Artù di Excalibur, poi Caravaggio per Jarman) è un Mortimer militarissimo e sadomasochista. E il finale, come vedremo, riserva qualche sorpresa.

Torniamo a Marlowe. La successiva entrata della regina la vede ringraziare il Cielo per la vittoria, nominare il figlio reggente del regno e affidare il re deposto alla saggezza dei baroni. Alla sollecitudine di Edmund su cosa sarà dell’ex-sovrano, Mortimer ribatte che deciderà il Parlamento – ma poi, a parte, esorta Isabella a non fidarsi dell’“umore pietoso” del conte di Kent. Compaiono a quel punto il gallese Rice ap Howell (più filologicamente Rhys ap Hywel) e il sindaco di Bristol portando prigioniero il vecchio Spencer, “il padre del licenzioso Spencer, / che, come il fuorilegge Catilina di Roma / ha sperperato la ricchezza e il tesoro d’Inghilterra”. Quest’ultimo, con il re, è fuggito verso l’Irlanda. Mentre Isabella affetta ancora – almeno pubblicamente – amarezza per la sorte del marito, Mortimer fa portar via il vecchio Spencer e incarica Rice ap Howell di braccare i fuggitivi: loro decideranno la sorte dei cortigiani catturati.

Intanto Edoardo e i compagni di fuga vengono accolti nell’abbazia di Neath, dove l’abate tranquillizza il re sulla sicurezza dell’ospitalità. Edoardo vagheggia la serenità di una vita contemplativa (“è un paradiso”), ma si rende conto che sono braccati e supplica i monaci di non tradirli. Però il giovane Spencer ha notato un “tipo torvo […] nel prato” che li ha scrutati a lungo, e gli pare sospetto. Il clima è concitato, Edoardo diviso tra agitazione e desiderio di lasciarsi andare, Baldock provato da una sonnolenza depressa… e all’improvviso, condotti da un falciatore – forse simbolico della morte, comunque è lui il “tipo torvo” – arrivano i soldati di Rice ap Howell e del conte di Leicester (Henry, fratello minore di Lancaster). Rice sollecita Leicester, non c’è tempo da perdere, “Un chiaro mandato garantirà la nostra azione”, e il conte commenta ironico tra sé “Il mandato della regina, sollecitato / da Mortimer! Che cosa non può il galante / Mortimer con la regina?”.

Personalmente il conte avrebbe compassione del re, ma poi si riscuote e arresta Spencer e Baldock – “con nessun’altra qualifica”, cioè non ne riconosce i titoli – per alto tradimento. Specifica di agire “in nome della regina Isabella” e domanda al re perché sia tanto abbattuto. Edoardo offre invano il proprio cuore come riscatto per i suoi amici, e si consuma la separazione dal “dolce Spencer” in nome non del cielo – specifica il re – ma dell’inferno. Nessuna trascendenza o volontà cosmica è in scena nell’Edoardo II, dramma di uomini e loro miserie. Alla lettiga che gli viene offerta esorta di metterlo piuttosto su un feretro: poi getta via il travestimento da monaco ed esce con Leicester. Spencer si abbandona a versi di desolazione (si squarci il cielo e il fuoco abbandoni la sua orbita, “andato è il mio sovrano”) e Baldock lo esorta a rassegnarsi a una vita ultraterrena: vengono però consigliati a conservare i discorsi per il patibolo. E mentre stanno per andare, l’abate si rivolge mellifluo a Rice ap Howell, “Spero che sua eccellenza si ricordi di me” – a suggerire ci fosse un accordo tra loro, alla faccia del diritto d’asilo del luogo sacro. Finisce così, amaramente, l’atto quarto. Preludendo – qui a Berkeley Caste lo tocchiamo con mano, a un’altra triste storia della morte d’un re.

[4-continua]