di Giorgio Bona

Angelo Lumelli, La vecchiaia del bambino Matteo, pp. 240, € 20, Qed, Praia a Mare 2024.

A volte succede di procedere lungo il corso della vita con una scrittura che ti accompagna senza lasciarti un attimo, togliendo anche il respiro.

Dico questo perché non è facile seguire la ricerca dell’incantesimo come Angelo Lumelli ne La vecchiaia del bambino Matteo: un vuoto d’aria risucchia la mente dentro un vortice dove improvvisamente si scopre il mondo e, come accade, i ricordi del passato, quelli di cui non si può fare a meno, vanno mescolandosi con il presente. Se un viaggio dal passato diventa l’inizio verso una sognata libertà, questo viaggio rappresenta la scoperta della vita… e se la felicità è per natura anarchica e sovversiva allora ci si accorge che vale la pena inseguirla.

Non so quanto Matteo ci sia in Lumelli e quanto Lumelli in Matteo, ma in questa intensa narrazione che non tralascia un attimo il ritmo e non permette di rifiatare, ci sono cinquanta anni che corrono in fretta, dal dopoguerra fino a ritrovarsi nei conflitti dell’età contemporanea: di qui un’atmosfera di ciclicità storica che fa emergere il microcosmo dei personaggi quasi a offuscare un’idea di progresso.

Eccoci dunque in un momento prodigioso del 1900, all’inizio della nostra storia contemporanea, con tre bambini in una classe elementare degli anni cinquanta, in un paesino del Basso Piemonte, legati da una profonda e sincera amicizia che li accompagnerà fino ai giorni nostri.

I buoi usati dai contadini, le lampade a petrolio, gli attrezzi di un tempo in cui la tecnologia non aveva ancora cambiato tradizioni e usanze, si presentavano davanti agli occhi in una visione fiabesca, emanando qualcosa di miracoloso. E quando i tre bambini diventeranno adulti, trasferendosi in tre città diverse, Milano, Torino e Genova, non dismetteranno le loro attese sulla vita, ancora fluide durante l’infanzia ma destinate a non essere rispettate dal futuro.

Leggiamo l’estratto da un capitolo che ha per titolo Il grande volo dei tacchini.

 

L’impresa di saltare un giorno la scuola l’ho realizzato da solo, in quinta, senza motivo apparente. Volevo fare un peccato vero, documentato, non quei peccati nascosti che facevano pena!

Fu irresistibile: ho visto la gamba destra della maestra Concetta che scompariva dentro la porta: dall’alto in basso l’orlo della gonna a quadri, poi il polpaccio affusolato, poi la scarpa con il tacco alto – e la maestra aveva finito di entrare in classe!

Questa scena solenne, me l’ero meritata, guardandola da dietro l’angolo, dove mi ero fermato, sporgendomi pochissimo.

Non ero sicuro di voler saltare la scuola: mi sono trovato fuori ed era molto bello, molto strano.

Adesso potevo correre ovunque! – Fu allora che la libertà – chi l’avrebbe immaginato? Non seppe più cosa fare guardandosi intorno, interdetta, con una faccia da scema, un’incapace.

Si sentiva il suo imbarazzo – credo bene, dopo essersi spacciata per chissà chi, chissà cosa, come quella che apre le porte!

Allora non potevo saperlo, ma sentivo, seppure oscuramente, che il senso delle cose nasceva nello stretto, cioè dentro, non saprei come dire diversamente – dentro, non fuori – dentro, dove tutto è contato, conteso – che fare adesso? – senza i muri di casa, di scuola, l’odore di gesso, di cancellini?

Cosa stava facendo la maestra Concetta, ormai che erano quasi le dieci? – Era già passata tra i banchi? – Quante volte?

Fu allora che mi venne l’idea di usare la libertà contro se stessa – vediamo come la prende! – e mi avviai verso la scuola, tornando indietro – deciso a confessare la mia impresa, pronto alla punizione – che non arrivò – oh maestra Concetta! – finalmente liberato – sfuggito alla libertà, a gambe levate – ditemi voi!

 

D’altronde mentre la lingua del quotidiano è contraffatta e intransitiva, la lingua che viene da dentro nasce spontanea per diventare ricerca, come una piccola figlia da allevare e da crescere, bambina teoria di tanti passaggi della mente, attenta soltanto alla verità della propria testimonianza.

Ecco questo passaggio importante: tenere a mente o essere lì, sulla pagina, per cui tutta la poetica si esprime attraverso una lingua sotterranea che trova lo sgorgare di un’acqua limpida e pulita da una ricca sorgiva di piena consapevolezza, espressa in un linguaggio colto e profondo.

Il mondo dove si muove Matteo è di una totalità dinamica, la sua visione sembra non avere incertezze: lunghe riflessioni, certamente, lunghe pause di pensiero dentro un ritmo poetico incalzante, un adagio che il tempo ha frenato e ripreso a corrente alternata.

Tanto ci sarebbe ancora da dire di questo libro che è una fiammata nel cielo terso, forse perché questa narrativa avvicina la poesia e la accarezza, forse perché implica una sovversione dei sensi e dei sentieri lirici. Non c’è da capire, bisogna agire, perché la parola va assunta, sussurrata senza proclami o stridenti grida, la parola accarezza il cuore.

Il lavoro di Lumelli è un lavoro minuzioso e ricercato sulla lingua: il suo raccontare scava le parole, mostra attenzione ai particolari, al loro significato verbale, uno stare al mondo a testa alta senza finzioni. Lumelli in questo romanzo penetra in osmosi la membrana della poesia e la sua ricerca del testo si semplifica attraverso un ascolto che muove il linguaggio nella sua espressione più estrema e autentica.

Così le vibrazioni di una vita che si inoltra nel tempo si riverberano nella lettura della storia, e più profondamente come una pianta che ha radici nel sangue, nell’immensità dell’essere: non solo letteratura ma respiro e stella di un grande viaggio che attraversa mezzo secolo.