di Sandro Moiso

Anna Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, pp. 142, 16,00 euro

I popoli che vivono nelle regioni fredde e quelli europei sono pieni di coraggio e passione ma mancano di abilità pratiche e intelletto; per questa ragione, pur rimanendo in genere indipendenti, essi mancano di coesione politica e della capacità di governare gli altri. D’altra parte i popoli asiatici hanno sia intelletto che abilità pratica ma mancano di coraggio e forza di volontà; per questo essi sono rimasti in schiavitù e sottomessi. Il popolo ellenico, che occupa una posizione intermedia, è dotato di tutte queste qualità e perciò ha continuato ad essere libero, ad avere le migliori istituzioni politiche e a essere capace di governare per mezzo di una sola costituzione. (Aristotele – Politica)

Come rende evidente l’epigrafe, il razzismo su cui si fondano l’Occidente e i suoi ideali filosofici e politici è cosa di vecchia data considerato che il brano di Aristotele appartiene al settimo libro della Politica e, come il suo autore, al IV secolo avanti Cristo. La scrittura alfabetica era invenzione recente (V secolo), ma già era utilizzata per marcare la differenza tra chi era civile e ben governato e tutti gli altri popoli che, nel greco antico, erano definiti come βάρβαρος. bárbaros ovvero barbari.

Saranno poi degli ex-barbari a “civilizzare” gran parte del continente europeo partendo dalla città dei sette colli e giungendo ai margini di quelle aree nordiche e orientali che delimiteranno con un limes: di qua la civiltà mentre chi fosse al di là sarebbe stato definito questa volta come barbarus.

Di tutti questi passaggi, che poi andranno avanti ancora per un millennio e più prima di giungere alla tanto decantata Europa dalle radici cristiane da cui deriverebbero le magnificenze politiche e ideali dell’attuale, non si potrebbero contare ancora oggi le stragi di popoli “altri” interni al continente e di eretici e di ribelli all’ordine delle leggi, delle lingue, della divisione delle ricchezze imposte dai popoli civili e superiori per ordinamento sociale e statuale.

Sono passate e defunte quelle civiltà, ma il senso di superiorità razziale e di classe che avevano portato con sé nel corso dell’opera di civilizzazione non è ancora scomparso e rappresenta, forse, ancora il prodotto più durevole di epoche considerate “classiche”. Certo, l’idea che permetteva di trarre in schiavitù interi popoli, o almeno quel che ne rimaneva dopo l’opera educativa della civiltà greco-romana, non aveva ancora pretese scientifiche come invece sarebbe accaduto a partire dal XVIII e dal XIX secolo, quando l’espansione occidentale del concetto di impero avrebbe letteralmente falcidiato società, popoli, culture prima di integrarli nel mercato mondiale sviluppatosi a partire dal ’500.

Anna Curcio, con il suo testo appena pubblicato da DeriveApprodi, fa riflettere i lettori sui concetti di razza e razzializzazione attraverso gli eventi che li hanno definitivamente fondati e che vanno, in sintesi, dalle leggi approvate nella Virginia del 1600 fino al finto anti-razzismo di tanta intellettualità liberal di oggi. E lo fa tenendo come centrale la riflessione di come quello di razza non sia soltanto indissolubile da quello di classe, ma anche di come tale concetto abbia prevalso nell’organizzazione socio-economica di un paese, l’Italia, che si ostina, soprattutto a sinistra, a ritenersi come tutt’altro che razzista, anzi un paese di brava gente. Gli italiani appunto.

L’opera può essere affiancata ad altre già pubblicate in Italia, come quelle di Houria Bouteldja1 e di Tommaso Palmi2, ma ha il grosso pregio di riportare il dibattito nello specifico dell’Italia contemporanea, proprio mentre i fatti recenti, come quelli legati alla recente visita del primo ministro laburista Starmer, durante la quale la “destra di governo” di Giorgia Meloni e la “sinistra di governo” inglese si sono date la mano sulla pelle dei migranti e sulle modalità da adottare per il loro “respingimento”, confermano l’allineamento di posizioni politiche che solo per motivi elettorali e mediatici possono essere presentate come “nemiche”.

Motivo per cui, nel recensire un libro che con dovizia di particolari e dati approfondisce il tema dello sviluppo e dell’affermazione del discorso razziale in Italia, dalle sue origini nell’Italietta coloniale e liberale seguita all’unificazione nazionale, attraverso la Grande Crisi e il Fascismo, per proseguire con un ambiguo dopoguerra e fino agli attuali “fasti razziali” riconducibili alle conseguenze della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto, sembra importante sottolineare come il tema del razzismo non sia mai disgiunto da quello della svalutazione e repressione della forza lavoro, sia che si trattasse dei lavoratori provenienti dal Sud del paese negli anni successivi al secondo conflitto mondiale oppure che si tratti della attuale forza lavoro migrante.

Cui fa da corollario l’attenzione rivolta, come si è già accennato più sopra, alla falsità di un discorso anti-razzista in cui alla mera assistenza solidale, mirata soprattutto all’integrazione nel sistema degli immigrati “buoni”, si affianca un discorso liberale che separa nettamente il discorso della forza lavoro da quello della sua razzializzazione o, per meglio dire, della “razza” dalla “classe”.

Prendendo a spunto un editoriale comparso nel 2014 sul «Corriere della sera», l’autrice sottolinea come «prendere la parola contro il razzismo vuol dire soprattutto combattere lo sfruttamento e la precarietà di tutti i giorni»3. Mentre un noto docente universitario, dalle pretese etiche liberal-progressiste, nel difendere l’editoriale di cui era stato autore, sosteneva che quell’articolo non «riguardava certo i profughi» ma «i flussi di forza-lavoro». Confermando così con quella dichiarazione, anche se fino a quel momento era stato possibile non vedere e lasciarsi distrarre dalle necessità immediate dei salvataggi in mare o dell’uso indiscriminato dei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), come l’ordine del discorso potesse assumere una forma più esplicita e problematica. Rivelando come la matrice di fondo del discorso di tanta parte dell’accademia e degli operatori dell’informazione consistesse semplicemente in una sorta di separazione della “pula del razzismo” dal “grano della condizione di classe” e dell’organizzazione del lavoro.

Per i profughi non vale la pena sprecare analisi sulle pagine di un prestigioso quotidiano, basta un po’ di pelosa compassione e lacrime di coccodrillo da sfoggiare all’indomani di stragi sempre annunciate; quella della forza lavoro è invece una materia ben più sostanziale e, a differenza di quattro straccioni tutelati dalle leggi internazionali, chiama in causa l’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali di produzione e riproduzione. Il razzismo […] non è un vizio ideologico […] né una patologia sociale che colpisce la classe dirigente nella crisi, il razzismo è un potente dispositivo di organizzazione delle nostre società, fondamento della stessa razionalità del capitale4.

Una logica, ripresa nell’editoriale in questione e nelle repliche alle critiche pervenute dal movimento, soprattutto bolognese, degli studenti universitari, che si prodiga nella costruzione di “differenze”, invocando “interventi selettivi” in materia di immigrazione:

per lanciarsi poi a stabilire una gerarchia tra migranti buoni e migranti cattivi. Dove i buoni sono quelli che si integrano, quelli che sono disposti ad annullare la propria identità sociale e culturale sullo sfondo del primato della whiteness e di un sistema di relazioni verticali costruito dentro le gerarchie della razza. Quelli, soprattutto, che accettano senza batter ciglio forme feroci di sfruttamento sul lavoro, dequalificazione e marginalizzazione5.

Un discorso fondamentalmente razzista, perché mette a lavorare la razza:

che come ci insegna Frantz Fanon non è un attributo biologico ma una costruzione sociale e discorsiva orientata alla marginalizzazione e discriminazione «di un gruppo di uomini da parte di un altro», per costruire segmenti segregati e tra loro in competizione della forza-lavoro. Tanto più resisti all’assimilazione e combatti lo sfruttamento tanto più sei cattivo, destinato ad occupare le posizioni sociali e produttive più precarie, peggio retribuite e maggiormente dequalificate […] Per questo la strategia degli intellettuali neoliberali, in questo paese e non solo, è sempre quello di alzare una cortina fumogena che fa perdere di vista la realtà, che permette di mescolare le carte e rendere indecifrabili le differenze tra «accoglienza» e «convenienza» del lavoro migrante […], tra profughi e «clandestini», tra migranti «buoni» e migranti «cattivi»6.

Una pratica, per molti versi, non troppo diversa dalla criminalizzazione di qualsiasi forma di resistenza di classe e delle forme più avanzate e radicali della sua teorizzazione. Lontana da quella convinzione di Karl Marx, contenuta nei testi sulla religione, spesso citati a sproposito e con intento puramente laico e borghese, secondo cui quello che interessa al proletariato internazionale e ai rivoluzionari non è togliere o aggiungere petali alle catene, ma spezzarle una volta per tutte.

Relegare il razzismo ad altri momenti storici o ad altre latitudini è senz’altro più conveniente che discuterlo nella sua attualità. Il presente ci parla di un sistema di sfruttamento diffuso e strutturale che il razzismo alimenta e rende possibile nelle sue differenti gradazioni. Un dispositivo intrinseco alla produzione capitalistica che riguarda tutte e tutti, razzializzati e non. Il razzismo è, detto altrimenti, la sintesi più infame e violenta di uno sfruttamento che tutte e tutti conosciamo e viviamo. E’ per questo allora che combattere il razzismo non è mera solidarietà ma una lotta comune che ci riguarda da vicino, forse a volte più di quanto crediamo7.


  1. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi, Edizioni Sensibili alle foglie 2017.  

  2. T.Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020.  

  3. A. Curcio, L’Italia è un paese razzista, DeriveApprodi, Bologna 2024, p. 89.  

  4. A. Curcio, op. cit., pp. 89-90.  

  5. Ibidem, p. 90. 

  6. Ibid. , pp. 90-91.  

  7. Ivi, p. 90.