di Franco Pezzini
Edward Bulwer-Lytton, “Monos e Daimonos”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Diego Bertelli, pp. 50, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.
Marjorie Bowen, “Cicuta”, a cura di Jacopo Corazza e Gianluca Venditti, trad. di Gianluca Venditti, pp. 68, € 5,90, Arcoiris, Salerno 2023.
In una pregevole sottocollana votata a testi brevi collegata a “La Biblioteca di Lovecraft” per i tipi Arcoiris – il titolo è appunto “I singoli de ‘La Biblioteca di Lovecraft’” – , il dinamico duo Corazza & Venditti ha finora proposto vari titoli, tutti di notevole interesse. A un esame superficiale ben poco può collegare, salvo un generale richiamo all’inquietudine, i primi due, l’uno ottocentesco e l’altro del secolo dopo; ma in realtà vedremo che esiste un nesso forte, probabilmente casuale da un punto di vista editoriale ma intrigante per i lettori.
Il primo è un testo breve, “Monos and Daimonos. A Legend”, maggio 1830, di un assoluto mattatore della scena vittoriana, Edward Bulwer-Lytton (1803-1873: cfr. qui) maestro dell’eclettismo sia nei contenuti che nelle forme: l’apologo – che pare ambientarsi nell’Ottocento ma in un contesto di apologo quasi fiabesco (“A Legend”, appunto) – vede il narrante protagonista (Monos) crescere nella solitudine in lande asperrime, a parte una parentesi a Londra e un paio di imbarchi su navi, sfuggendo come peso intollerabile la compagnia degli esseri umani. Ma a un tratto emerge una figura di persecutore (ecco Daimonos) che come Doppio o Ombra, in modo subdolamente mite ma ossessivo, prende a braccarlo. Non spoileriamo sulla breve trama, anche se il gusto della lettura va anzitutto al cupo contesto specchio dell’individualità sofferta del protagonista. La sua misantropia ha caratteri mitici ma insieme, si direbbe, psicopatologici; e alla fine a uno specialista della mente dovrà pur rivolgersi, lasciandolo sconcertato per la concreta insidiosità della persecuzione subita.
Riesce difficile credere che Le Fanu non abbia letto questo racconto, virtuale prefigurazione dei vari persecutori d’incerta natura delle sue storie; ma certamente l’ha letto Poe, trovandovi la principale forma d’ispirazione per il febbricitante “Silenzio – Una favola” (“Silence — A Fable”, versione definitiva 1845). Il testo, che riprende una serie di spunti bulweriani rileggendoli in forma persino più visionaria, deve restare nella mente dell’Americano Maledetto per tempi assai più lunghi: a parte il messaggio sulla sabbia lasciato dal persecutore – “never”, “MAI”, in rapporto al “nevermore” del “Corvo” – il nome Monos tornerà nel “Colloquio di Monos e Una” (1841). L’autore americano, incalzato dal tema dell’identità e del doppio (si pensi solo a “Morella”) deve trovarlo felicemente espressivo della sua ossessione (anche onomastica) per la dialettica Uni(ci)tà/Duplicità: temi-cardine di una più vasta ossessione ottocentesca per l’identità (e, nel linguaggio fantastico, le sue crisi) che in realtà impatta su tutta la letteratura moderna.
E proprio qui troviamo lo snodo verso il testo di Marjorie Bowen, nota in Italia per l’affascinante Magia nera proposto nel 2011 da Gargoyle. L’autrice (1885-1952) guarda spesso al passato, qui (“Kecksies”, 1923) quello cupo e sordidamente romantico di un Kent tra Sette e Ottocento, tra proprietari terrieri malvissuti e mentecatti di campagne povere, stregoni di campagna e orribili concupiscenze. Sarebbe ipotizzabile – ma non necessaria – una lettura del Gordon Pym di Poe per il tema della sostituzione a un cadavere con effetto macabro-burlesco: ma il contesto è chiaramente sovrannaturalistico, e il potenziale amplesso con un doppio del coniuge (tanto più disturbante per un tipo di specularità scioccamente e fatalmente indotta) richiama a tutto un corpus di miti neri sul talamo, di maledizioni oltretombali, di nessi tra carne, morte & diavoli. Anche se poi, anche qui, ciò che fa davvero godere il testo è la qualità della narrazione, la voce dell’autrice, il suo gioco di brividi felici persino quando attesi, in grazia (è il caso di dirlo) di una Black Magic della scrittura.