di Giovanni Iozzoli
Francesca Bocca-Aldaqre, Manifesto dell’Islam italiano, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2024, pp. 152, € 16,00
Il libro di Francesca Bocca-Aldaqre (Manifesto dell’Islam italiano) ha il profilo di una generosa anticipazione, quasi un auspicio. Ogni “manifesto” da questo punto di vista, esprime tale caratteristica: è la prefigurazione di qualcosa che ancora non è pienamente dispiegato, pur sulla base di elementi oggettivi già esistenti. La domanda che il libro retoricamente pare porre è: esiste già un Islam italiano? E immediatamente il rimando è ad un’altra domanda: esiste già un Islam europeo – magari articolato nelle grandi aree linguistiche del continente? Al di là del carattere assertivo del Manifesto, in realtà tali domande restano aperte alla riflessione collettiva ed è giusto sia così: per l’autrice l’importante è avviare finalmente la discussione.
Identità islamica italiana non significa ancora niente, nella realtà. Nella teoria è invece un termine polarizzante: non può esistere una cultura islamica in Italia, per alcuni. Italianità e Islam sarebbero mutualmente esclusivi, e la stessa presenza dei musulmani rappresenterebbe una minaccia all’identità italiana […]. Oggi esiste sicuramente l’Islam in Italia, definito come l’insieme degli individui che risiedono all’interno del territorio del nostro paese. È una minoranza eterogenea, tenuta insieme da associazioni, iniziative individuali, esperienze spirituali e social media. È anche un gruppo studiatissimo (e sorvegliatissimo): appena il 5% della popolazione italiana, ma così discussa e iper-rappresentata da apparire al pubblico italiano come più del 20%. (p. 3)
Una presenza reale, quindi, statisticamente misurabile ma legata alla dimensione di una complicata gestazione: qualcosa che sta crescendo dentro alla società italiana ma che non consente ancora una fotografia nitida dei suoi contorni e della sua traiettoria – “senza voler essere prescrittivo, è un manifesto di quello che l’Islam italiano potrà essere, costellato di dubbi, perplessità e nodi da risolvere.” Integrazione, assimilazione, dialogo interreligioso, rifiuto: una ridda di suggestioni che si intrecciano ma che in realtà interrogano il vissuto quotidiano di milioni di cittadini, vecchi e “nuovi italiani”. L’autrice, attraverso questo ginepraio di fraintendimenti e buone intenzioni, cerca di elaborare il profilo di una presenza nuova e originale dei musulmani italiani: consapevole che “chi parla di Islam non è quasi mai musulmano e spesso non conosce nemmeno direttamente i musulmani in Italia, muovendosi in un mondo astratto di sigle, siti internet datati e conoscenze vecchie di decenni.” (p. 17)
Perché è evidente che il primo grande problema della Umma italiana è l’incapacità, ancora, di autorappresentarsi, di raccontarsi, di non subire la narrazione altrui. Perché il “racconto di sé” è la precondizione di ogni identità:
Il musulmano, subalterno inconsapevole della cultura italiana, non ha ancora avuto diritto di parola nella propria definizione, ed è costantemente sottoposto ad una rappresentazione forzata dei propri bisogni, delle proprie pretese, della propria identità. Bisogni che raramente si allontanano da questioni secondarie come la macellazione della carne e pretese infondate, spesso immaginate come minacce all’identità italiana – niente presepi. Niente crocifissi! I pochi elementi di identità islamica conosciuti nella cultura italiana sono limitati all’abbigliamento e all’aspetto esteriore – velo, barba, abiti lunghi, turbante -, come se il musulmano fosse l’inconoscibile o, peggio ancora, un non fornito di interiorità, di psiche, di spiritualità in grado di comunicare con quella italiana. (p. 17)
E questa tendenza al racconto dell’Islam, secondo l’autrice, banalizzante, unilaterale, non dialogante, è incarnata anche dai piani alti della cultura italiana: da Emanuele Severino a Umberto Eco e Massimo Cacciari, nei cui lavori “le parole dei musulmani semplicemente non ci sono”. Infatti:
Un Islam che è un “non ancora” fa immaginare al lettore italiano, un vuoto, una stagnazione, polvere, antichi manoscritti, qualche eredità aristotelica. E preclude a priori la possibilità di un Islam vivo, di un pensiero islamico italiano che non sia semplicemente una riedizione del Medioevo. Nel post contemporaneo è definitivamente spezzato il “monopolio occidentale del diritto di parola” ed è questo cambiamento qualitativo a far si che i musulmani d’Italia possano avere una voce; nell’istante in cui, ad esempio, l’autorevole Pietro Citati scrive che i musulmani adorano “un altro Dio”, la replica può essere istantanea e fattuale: come è possibile che da secoli i cristiani arabi utilizzano il nome Allah per riferirsi al Dio della Bibbia, e in Italia si parli ancora del “Dio dei musulmani”? (p. 20)
L’autrice realizza un non banale sorvolo sulla storia dell’interazione tra elementi di cultura e storia islamica, e l’evoluzione del vecchio continente: le radici “giudaico-cristiane” avrebbero dovuto in qualche modo rendere conto anche del ricchissimo patrimonio culturale dell’“Islam d’Europa” che nei secoli bui del medioevo trasmisero il patrimonio filosofico greco ad un occidente crepuscolare. Cosa sarebbero la penisola iberica o la Sicilia, senza l’apporto dei secoli islamici? Cosa sarebbe stata la medicina moderna senza Avicenna o l’università europea senza l’averroismo? Ma queste radici parlano della nostra storia ed evoluzione, mentre non molto ci dicono del tema posto dal libro. Dove e come potrebbero manifestarsi le tracce di un Islam italiano? Da questo punto di vista, il nostro paese mostra anche un ritardo storico importante:
La lingua italiana è l’unica tra le grandi lingue europee a non aver ancora prodotto poesia o letteratura, dalla modernità in poi, che si occupi di Islam. Mentre Goethe ventenne abbozzava un poema di lode al Profeta, mentre Coleridge scriveva gli straniti versi […] del suo “Mohamed”, o mentre ancora Victor Hugo si affaticava a comporre “L’anno nono dell’Egira”, in Italia i poeti si dedicavano ad altro. All’esordio della modernità, possiamo immaginare, la visione di un musulmano era sicuramente più comune a Venezia che in qualunque città francese, tedesca o inglese, eppure l’Islam è categoricamente ignorato dal linguaggio poetico. (p. 21)
Il difficile rapporto tra una supposta identità italiana e il mondo islamico, è ben sintetizzata dall’antica espressione “farsi turco” che si usava per i convertiti, sinonimo di rinnegamento irredimibile, qualcosa che ti pone in un campo di nemicità assoluta:
Gli italiani convertiti all’Islam, nel passato, andavano a vivere altrove, spesso non per scelta. Ai trecentomila europei convertiti all’Islam tra il Cinquecento e il Seicento è stata dedicata poca attenzione storiografica, ancora oggi, quasi quarant’anni dopo l’uscita di “I cristiani di Allah” dei coniugi Benassar. Uno dei pochi lavori recenti racconta quanto le corti dei sultani, nella stessa epoca, pullulassero di convertiti europei, che andavano a formare l’intellighenzia dell’Impero Ottomano. (p. 23)
Una precisazione metodologica è necessaria. Esistono religioni “universali” e religioni a forte matrice etnica. Tale distinzione non dice niente sulla “verità” o la genuinità di tali percorsi: è solo l’infinita varietà dell’esperienza umana e del suo rapporto con l’idea del sacro, che ha generato nei secoli tale distinzione. L’ebraismo è l’esempio classico di una religione che non converte; così come generalmente le religioni del subcontinente indiano, spesso subordinate a arcaismi castali o ad intrecci ineludibili con l’antropologia dei luoghi di nascita.
L’Islam e il cristianesimo, invece, si pongono fin dai primi secoli, nella dimensione della universalità: i messaggi profetici sono dichiaratamente per tutta l’umanità posta in una condizione di radicale uguaglianza ontologica – sia pur mediati attraverso un contesto culturale e linguistico determinato. In tal senso si tratta di religioni – al di là della reputazione di rigidità etica o ritualistica – estremamente elastiche, flessibili, adattabili agli ambienti umani più diversi. L’espansione dei primi decenni dell’Islam è ancora oggi esempio impressionante di tale capacità di adattamento: moschee e comunità sorsero dall’estremo occidente alla Cina, in un arco temporale ristrettissimo che ancora oggi stupisce gli storici. E non fu solo la spada a produrre questa espansione impetuosa. – le conquiste militari non spiegano il processo ma ne sono piuttosto parte.
Il libro prosegue con una trattazione originale e dettagliata di molti aspetti – linguistici, antropologici, accademici, biografici e letterari – che vale la pena leggere direttamente, senza correre il rischio di banalizzarne i contenuti in questa sede. È chiaro che la potenzialità di edificazione di un Islam italiano in grado di parlare di sé al resto della società italiana, dipende da quello che diventeranno concretamente i musulmani italiani, dalla generazione dell’emigrazione, alle seconde e terze generazioni ormai pienamente italiane, ai convertiti di ogni ordine e grado. Saranno i musulmani in carne e ossa – al di là di ogni reificazione o cosificazione di un astratto concetto di “Islam” – a dettare tempi e modi di questi processi di costituzione identitaria. E l’Italia di oggi è già scenario maturo di tale avvento. Racconta l’autrice:
Un gruppo di giovani musulmani italiani convertiti, si muove nell’ambiente culturale milanese. Siamo negli anni 80, prima che la comunità islamica si stabilisse a livello associativo, prima che le moschee diventassero punti di ritrovo in ogni città, e prima che i musulmani arrivassero attraverso l’immigrazione a costituire la maggioranza delle comunità. Questi primi convertiti cercavano di essere presenti nel mondo culturale, partecipando ai convegni di islamologia offerti dalle università. Ebbene, uno di questi atenei aveva organizzato un convegno, non informando questi ragazzi che, a loro volta, fecero presente all’organizzatore – un noto professore ordinario – la loro delusione nel non essere stati invitati. La sua risposta fu cristallina: «non mi risulta che ai convegni di entomologia si invitino gli scarafaggi.» È un aneddoto sconcertante. Nelle università oggi, il linguaggio discriminatorio è sempre più stigmatizzato e l’abuso di potere – anche linguistico – è sempre meno tollerato. […] Se fino a pochi decenni fa era possibile un atteggiamento così entomologico, oggi non lo è più. Viviamo in un contesto in cui l’attenzione all’integrazione è viva, e l’università inizia ad accogliere una molteplicità di voci. (p . 95)
Uscire dagli schemi, quindi. O dal sogno di riportare in auge antiche rovine classiciste. Accettare le scommesse del presente, che è fatto di ibridazioni culturali, territoriali, generazionali: “I musulmani italiani non vivono in un passatismo ideale, non sognano rivoluzioni e non hanno nostalgie di Paesi lontani dal nostro. Vivono, immaginano, sognano qui.” – chiosa l’autrice, appellandosi ad un hic et nunc che è gravido di sviluppi e scarti imprevedibili. Una storia che si lascerà alle spalle come vecchi arnesi, anni di stigmatizzazioni giornalistico-scandalistiche che hanno provato ad approfondire il solco di incomunicabilità tra “identità italiana” e vita concreta delle persone musulmane. I tempi sono cambiati. La storia di questi passaggi intricati e gravidi di futuro, è ancora tutta da scrivere.
Un’annotazione è necessaria: nelle mobilitazioni pro Palestina di questo ultimo tragico anno, la presenza dei giovani di seconda generazione – nati ed educati in Italia, perfettamente inseriti nella dimensione sociale e linguistica, spesso studenti universitari brillanti – ha rappresentato il plusvalore del movimento. La maggior parte di loro è parsa a proprio agio nel rivendicare nel contempo le radici islamiche e l’appartenenza civica alla vita del paese; la partecipazione alle manifestazioni e alle occupazioni è stata vissuta con naturalezza, come la discesa in campo di una cittadinanza nuova, attiva, legittima, radicale ma non nichilista, ancorata ad un retroterra valoriale forte. Una presenza che forse era già matura dentro la società italiana e che la tragedia di Gaza sta innescando e contribuendo a far emergere: i ragazzi italiani di cultura musulmana, saranno il ponte naturale tra retaggio e futuro.