di Domenico Gallo
Ogni persona che, a partire dalla Porta di Brandeburgo, si diriga verso Alexanderplatz, percorrendo la storica Unter den Linden, si trova a un certo punto a un crocevia della storia. È un tratto senza i tigli in cui il cortile della Humboldt-Universität fronteggia l’ampio spazio vuoto di quella che oggi è Bebelplatz. Il 10 maggio del 1933, quando ancora la piazza non era stata dedicata ad August Bebel, il fondatore del Sozialdemokratische Arbeiterpartei, si chiamava Opernplatz ed è stato il luogo in cui i giovani nazionalsocialisti della Deutsche Studentenschaft, accompagnati da professori, SA, SS e spettatori eccitati, all’apice della campagna di purificazione dalle opere contrarie allo “spirito tedesco”, diedero luogo al rogo dei libri, i Bücherverbrennungen. Nonostante la pioggia, i libri, che erano stati rastrellati nei giorni precedenti dalle biblioteche sulla base di una lista molto accurata, vennero gettati tra le fiamme alimentate dalla benzina all’interno di uno studiato rituale. Fu Joseph Goebbels a dirigere la sceneggiata del Bücherverbrennung di Berlino pronunciando le motivazioni che avrebbero dovuto giustificare la più generale messa al bando di quelle letture.
Contro la lotta di classe e il materialismo, per la comunità di popolo e uno stile di vita idealista!
Consegno al fuoco gli scritti di Marx e Kautsky. Contro il decadimento e la rovina morale! Per la disciplina e la morale nella famiglia e nello stato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Heinrich Mann, Ernst Glaeser e Erich Kästner. Contro l’opportunismo e il tradimento politico, per la dedizione totale al popolo e allo stato!
Consegno al fuoco gli scritti di Friedrich Wilhelm Foerster. Contro la sopravvalutazione delle pulsioni istintive che sfibra l’animo, per la nobiltà dell’anima umana!
Consegno alle fiamme gli scritti di Sigmund Freud. Contro la falsificazione della nostra storia e la degradazione delle sue grandi figure, per l’ossequio al nostro passato!
Consegno alle fiamme gli scritti di Emil Ludwig e Werner Hegemann. Contro il giornalismo nemico del popolo di stampo democratico-giudaico, per la partecipazione responsabile al lavoro di costruzione nazionale!
Consegno alle fiamme gli scritti di Theodor Wolff e Georg Bernhard. Contro il tradimento letterario dei soldati della Grande Guerra, per l’educazione del popolo per la propria autodifesa!
Consegno alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque. Contro la arrogante adulterazione della lingua tedesca, per la cura del bene più prezioso del nostro popolo!
Consegno alle fiamme gli scritti di Alfred Kerr. Contro l’impudenza e la presunzione, per l’attenzione e l’ossequio allo spirito immortale del popolo tedesco!
Inghiotti, fiamma, anche le opere di Tucholsky e Ossietzky!
Lo scrittore per ragazzi e pacifista Erich Kästner era presente al rogo e sentì scandire il proprio nome mentre i suoi volumi venivano gettati tra le fiamme assieme a quelli di Franz Kafka, Herbert George Welles, Jack London, Joseph Conrad, Aldous Huxley, Ernst Hemingway, Bertold Brecht e molti altri. Le cronache raccontano che furono oltre 20.000 i volumi bruciati e che gli spettatori sarebbero arrivati a 40.000, ma il dato interessante è che nel mese di maggio del 1933 la corposa lista dei libri proibiti comportò che questi vennero capillarmente ritirati dalle biblioteche di tutta la Germania, sopravvivendo solo nascosti nelle case private.
Il rogo di Berlino fu solo il più noto di una serie di incendi rituali che già si erano diffusi in Germania a partire da Dresda, per essere ripetuti a Monaco di Baviera, Lipsia, Düsseldorf, Heidelberg, Münster, Wuppertal, Magdeburgo, Würzburg e in altri centri più piccoli. I libri bruciati a Berlino provenivano dalla straordinaria biblioteca del vicino Institut für Sexualwissenschaft, l’Istituto di Sessuologia che Magnus Hirschfeld aveva fondato nel 1919 e che si situava sul bordo del Tiergarten, vicino all’attuale Hannah-Arendt-Straße, a un centinaio di metri dal Denkmal für die im Nationalsozialismus verfolgten Homosexuellen, il parallelepipedo opera di Michael Elmgreen e Ingar Dragset che costituisce il memoriale dedicato agli omosessuali vittime del nazismo, e il luogo dove i corpi di Hitler ed Eva Braun sono stati bruciati, oggi un piazzale che funge da posteggio e tra le cui erbacce i cani degli abitanti di questo quartiere elegante lasciano i loro bisogni. Un cartellone molto approfondito e rigoroso di informazione storica intitolato “Miti e testimonianze storiche del bunker di Hitler” marca sobriamente su di un lato del posteggio il luogo in cui la coppia criminale è stata bruciata con difficoltà da due ufficiali intermedi delle SS.
Bebelplatz che si era ritrovata nel settore sovietico di Berlino, era un grande spazio tra il Teatro dell’Opera e la facoltà di legge che si contraddistingueva per la povertà di segni che ricordavano il rogo. Un monumento quasi invisibile, solo un pannello trasparente collocato da Micha Ullman sul selciato che consentiva di intravedere un sotterraneo di librerie vuote e, poco lontano, una targa con dei versi di Heinrich Heine: “Quando vengono bruciati i libri, alla fine verranno bruciate anche le persone”.
La Humboldt-Universität, al contrario, trabocca del proprio passato. Fondata nel 1810 come Universität zu Berlin, dal 1828 prese il nome di Friedrich-Wilhelms-Universität, anche se i berlinesi la chiamavano familiarmente Universität unter den Linden, e nel 1949, nell’anno in cui venne fondata la DDR, ottenne il nome attuale. Una targa posta sotto una finestra che si affaccia sul marciapiede ricorda gli anni dedicati da Max Planck all’insegnamento e alla scoperta della costante h, mentre davanti all’inferriata, come due leoni di guardia, si ergono le statue marmoree dei fratelli Wilhelm e Alexander von Humboldt; linguista e filosofo il primo, naturalista ed esploratore il secondo. Figure austere dell’aristocrazia prussiana ma progressisti e innovatori, i von Humboldt hanno condiviso l’università con le più importanti figure della Germania, filosofi e intellettuali come Fichte, Hegel, Schopenhauer, Schelling, Benjamin, Marx, Engels, Bismarck, Heine, Döblin, Liebknecht, ma anche il francese de Saussure, fino al dottorato onorario conferito all’attivista afroamericano W.E.B. Du Bois. Nel cortile altre tre statue, il marmo classico per il fisico Hermann von Helmholtz, tra i fondatori della termodinamica, e due bronzi essenziali dalle linee contemporanee per Max Planck e per l’esile figura di Lise Meitner, l’ultima arrivata nel prato. Lise Meitner, austriaca ed ebrea, era stata allieva di Ludwig Boltzmann e collaborò con Otto Hahn agli studi di fisica nucleare che condussero alla fissione dell’atomo e all’assegnazione del premio Nobel per fisica del 1944. Docente di fisica sperimentale fino al 1933, il nazismo le proibì l’insegnamento, e visse nell’università il dramma della nazistificazione della scienza tedesca fino al 1938, anno in cui fuggì in Svezia grazie alla collaborazione di Hahn.
L’università di Berlino fu il centro dell’estenuante lotta di Planck contro il dilagare dell’ideologia nazista e la delirante campagna “epistemologica” dei Deutsche Physiker, anche noti come i seguaci dell’Arische Physik. Secondo la critica portata avanti con violenza dal movimento politico nazista creato da due premi Nobel come Philip Lenard e Johannes Stark, gli ebrei praticavano una scienza diversa da quella dei veri tedeschi, una fisica matematicizzata e astratta, mentre la cultura ariana richiedeva un approccio diretto, tipico della fisica sperimentale, in cui il fisico si scontrava con la Natura per carpirne i segreti. Una concezione mistica che facevano provenire dalla “Naturphilosophie” di Goethe e che, pur senza gli eccessi del nazismo, ha oggi ancora molti seguaci tra le culture irrazionaliste e New Age. Fu soprattutto la relatività ristretta, formulata da Albert Einstein nel 1905, a essere stata oggetto di attacchi politici da parte di membri del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, il Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi, che la giudicavano il paradigma di una concezione ebraica della scienza. Planck e la e Deutsche Physikalische Gesellschaft, la Società di fisica tedesca di cui era un membro autorevole, si impegnarono nella difesa della relatività anche partecipando a dibattiti organizzati dai Deutsche Physiker, spesso caratterizzati da provocazioni e aggressioni verbali. La relatività generale, ovviamente, non era neppure lontanamente compresa dai detrattori di Einstein, e il “linciaggio” si limitava alla relatività speciale che era, già all’epoca della sua prima pubblicazione nel settembre del 1905 sulla rivista Annalen der Physik, completamente accettata dalla comunità scientifica mondiale, con l’esclusione di pochi casi patologici. La Deutsche Physikalische Gesellschaft, che raccoglieva i fisici tedeschi dal 1845, ha rappresentato un’associazione che con ostinazione e coraggio si è contrapposta al nazionalsocialismo e alle sue leggi, pur agendo sempre all’interno del settore della formazione e della ricerca e senza mai arrivare a una critica politica complessiva del nazismo, ma dal nascere della cultura nazista affrontò e tentò di contenere il gruppo minoritario dei Deutsche Physik. La legge per il ripristino del servizio civile professionale, traduzione della norma nota come “Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums”, in vigore dal 7 aprile 1933, e quindi quasi contemporanea al Bücherverbrennung, aveva stabilito che ebrei e oppositori politici dovevano essere licenziati dalla Pubblica amministrazione. Inizialmente le facoltà di fisica tedesche e gli enti di ricerca ritardarono l’applicazione della norma, mentre la Deutsche Physikalische Gesellschaft impiegò anni a espellere i fisici affiliati di origine ebraica. Per il presidente dell’Associazione Max von Laue, la persecuzione di Galileo e la censura delle sue teorie basate sul sistema eliocentrico equivalevano agli attacchi che i Deutsche Physik portavano alla presunta “fisica ebraica” e alla teoria della relatività speciale. Plank, presidente della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft per la scienza dal 1930 al 1937, consentì segretamente a ebrei e antifascisti di lavorare all’interno degli istituti per molti anni. Intanto Stark e i Deutsche Physiker continuavano ad attaccare Plank, ma anche, Arnold Sommerfeld e Werner Heisenberg, definito come un tedesco portatore del pensiero ebreo. Nel 1944, a seguito del fallito l’attentato a Hitler da parte dei sui sostenitori delusi della classe dirigente e militare tedesca, meglio noto come il tentativo di colpo di stato Operazione Walkiria, il figlio di Planck, Erwin, fu arrestato dalla Gestapo, processato, condannato a morte e impiccato nella prigione Plötzensee di Berlino.
Il sacrificio di Planck, con il suo tanto dibattuto “rimanere al proprio posto”, consisteva in una lotta per consentire che i posti di comando dell’università e delle società scientifiche rimanessero saldamente in mano a fisici che non erano nazisti affiliati ai Deutsche Physik. Per salvare la fisica tedesca, nella speranza di giorni in cui sarebbe stata nuovamente libera, menomata dalla fuga e dall’arresto degli scienziati ebrei e degli oppositori politici, Planck, in prima persona, sacrificò tutta la sua autorevolezza in un processo di mediazione durato anni. Significativo è il racconto del fisico Paul Peter Ewald riportato da John L. Heilbron nella biografia di Planck I dilemmi di Max Planck che descrive cosa accadde durante una cerimonia ufficiale. “Planck, che era in piedi sul palco, sollevò la mano a mezza altezza e poi la lasciò cadere. Tornò a sollevarla e a lasciala cadere. Poi, alla fine, la mano si decise a sollevarsi e Planck disse: ‘Heil Hitler’”. Tuttavia l’apparente cedimento al nazismo di Planck non era neppure lontanamente sufficiente ad accontentare la fazione degli Deutsche Physik e Stark, da una testata come Das Schwarze Korps, il settimanale delle SS, lo accusava di essere un “weiße juden”, un “ebreo bianco”, ovvero un tedesco che è ebreo al di là della sua appartenenza genetica alla razza nordica, un ebreo nel carattere, nelle emozioni e nello spirito, colpevole di aiutare gli scienziati ebrei a sfuggire dalla giusta emarginazione in cui li ponevano le norme naziste. Seguendo le indicazioni di Plank e della Physikalische Gesellschaft, la maggior parte dei fisici tedeschi scelse l’atteggiamento di minima concessione possibile per non essere sanzionati, ma non furono esenti da critiche sia da parte degli scienziati in esilio sia nel dibattito sulla denazistificazione iniziato dopo la fine della Guerra.
Entrando nell’atrio della Humboldt-Universität il ribollire di segni si fa ancora più complesso. Sul muro di marmo, in lettere d’oro, spicca la citazione dell’undicesima tesi su Feuerbach redatta da Karl Marx nel 1845. “Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert; es kommt aber darauf an, sie zu verändern”, ovvero la celeberrima sentenza che recita: “Finora i filosofi hanno variamente interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”. L’austerità e la classicità dell’atrio, ora percorso da studenti di tutto il mondo e da professori vestiti in maniera informale, inevitabilmente rimandano alla perversa utopia della DDR, con la sua diretta e inesauribile retorica, le diffuse ammonizioni, le aspirazioni mancate, il controllo totale dei cittadini e delle istituzioni. Berlino è disseminata di icone del socialismo burocratico, dal poco lontano Marx-Engels-Forum, meta delle foto dei nostalgici del comunismo, al Ernst-Thälmann-Park a Prentzlauer Berg, fino al Sowjetisches Ehrenmal di Treptower Park, il sacrario dell’Armata Rossa. La città ha scelto di essere un museo permanente delle proprie ferite, e, laddove ne è rimasto un segno, l’ha cristallizzato, l’ha denudato ed esposto. È come se il tempo rallentasse e accelerasse, prima denso e all’improvviso rarefatto, in modo che Berlino induca ai propri abitanti un continuo esercizio di memoria. Sulle scale della Humboldt-Universität la lunga galleria di ritratti, dipinti e fotografie, che ricordano i molti studiosi celebri che come studenti o professori hanno trascorso i loro giorni in quelle stanze, è un omaggio severo alla dedizione, al sacrificio, all’intelligenza. Oltre ai 29 premi Nobel sono esposti i volti di persone che hanno lasciato segni indelebili nella cultura umana. Solo il ritratto scarmigliato di Einstein richiama qualcosa di frivolo e allegro come le abituali immagini delle t-shirt, ma la collezione più recente è dedicata alle donne della Humboldt. Tra tutte spicca ancora Lise Meitner, evidentemente condannata ai riconoscimenti tardivi, vicino a lei, Marie-Elisabeth Lüders, la militante per i diritti civili che fu la prima donna a ottenere il dottorato in scienze politiche della Germania, e la teologa Liselotte Richter, ma l’ultimo ritratto, verso la fine del corridoio in penombra, è dedicato a una delle figure a cui l’università, nella rilettura di se stessa, rende l’omaggio più importante. Il volto tondo di Liselotte Hermann, camicia bianca e cravatta scura, la frangetta nera e gli occhiali, è quello di una giovane di poco più di trent’anni. Comunista, studente e madre, come è ricordata nei monumenti che le sono stati dedicati durante la DDR, aveva studiato all’università di Berlino mentre era militante del KPD, il Kommunistische Partei Deutschlands. Negli anni che precedono la presa del potere nazionalsocialista, Lotte, chimica e biologa, era sempre stata in prima linea nella difesa di studenti e di docenti ebrei e antifascisti, e firmataria di appelli contro le crescenti discriminazioni che avvenivano all’interno dell’università. Nel 1933 fa parte del gruppo di 111 studenti e lavoratori comunisti espulsi per l’attività politica antifascista, in applicazione della Legge per il ripristino del servizio civile professionale, e Lotte inizia immediatamente a militare nella Resistenza clandestina. Alla fine del 1933, il suo compagno, Fritz Rau, anche lui un “widerstandskämpfer”, un combattente della Resistenza, viene catturato, torturato e ucciso nel carcere di Moabit, mentre lei è incinta. La foto che la ricorda nel Gedenkstätte Deutscher Widerstand, il Museo della Resistenza tedesca di Berlino, dedicato alle centinaia di migliaia di tedeschi antifascisti che non si sono arresi, la ritrae sorridente con il bambino in braccio. Nel 1935 Lilo viene arrestata e il nucleo armato a cui apparteneva smantellato. Il 20 giugno 1938 la studente modello Lilo Hermann viene ghigliottinata nel carcere di Plötzensee. È la prima donna madre a cui la Gestapo riserva il crudele trattamento e il suo corpo verrà inviato ai laboratori dell’università a cui aveva dedicato tanta passione per esperimenti.
La resistenza di Lotte Herrmann ha dato lo spunto a molti ricordi, oltre alla lapide commemorativa allo Stadtgarten di Stoccarda, città dove aveva militato tra i comunisti, Friedrich Wolf è stato autore di un poema dedicato alla sua vita musicato da Paul Dessau nel 1954. Nel 1987 è la volta del film della DEFA, l’istituzione di produzione cinematografica della DDR, Die erste Reihe. Bilder vom Berliner Widerstand, La prima fila, Immagini della resistenza berlinese, trasmesso dalla TV di stato. Per la Repubblica Democratica la figura di Lotte Herrmann è stata l’icona fondamentale di una donna completa, militante eroica e ostinata, comunista, madre al di fuori della famiglia, coraggiosa di fronte alla tortura e a una morte atroce, che non ha tradito i compagni di lotta della Resistenza. E a lei sono state dedicate diverse istituzioni come la Pädagogische Hochschule Liselotte Herrmann, scuole e asili, fino a emettere un francobollo con la sua immagine. Oggi il suo nome ritorna nei circoli politici e tra i collettivi radicali.
Lilo è ricordata anche nel monumento collocato nel cortile settentrionale della Humboldt-Universität, un gruppo marmoreo dedicato “a coloro che sono caduti nella lotta al nazismo: la vostra morte per noi è un impegno”. Gli altri membri della Resistenza antifascista tra studenti e dipendenti della Humboldt-Universität sono: Arvid e Mildred Harnack, Liane Berkowitz, Ursula Goetze, Eva-Maria Bruch, Rosemarie Terwiel, Horst Heilmann, Ferdinand Thomas, Dietrich Bonhoeffer, George Graoscurth, Walter Arndt. Erano zoologi, economisti, studiosi di scienze politiche, chimico-fisici, teologi e studenti, alcuni di loro era membri dell’organizzazione comunista clandestina Rote Kapelle, nota come Orchestra Rossa, altri vennero arrestati e uccisi per l’attentato incendiario alla mostra antisovietica Das Sowietparadies che era stata allestita a poche centinaia di metri dall’università.
Das Sowietparadies, ironicamente Il Paradiso sovietico, era il titolo di una grande mostra pubblica di propaganda anticomunista allestita nel Lustgarten, lo spazio aperto tra la cattedrale di Berlino e il colonnato dell’Altes Museum. Oltre un milione di visitatori si mise in coda tra l’8 maggio e il 21 giugno 1942 per entrare nelle tende che costituivano i padiglioni della mostra voluta da Goebbles. Basata su ricostruzioni artefatte che utilizzavano per interpretare i cittadini dell’Unione Sovietica i prigionieri di guerra imprigionati nel lager di Sachsenhausen, posizionato a nord di Berlino, la mostra intendeva dimostrare lo stato di arretratezza e povertà in cui versava la popolazione sovietica.
Il giorno 17 maggio, un gruppo della Resistenza guidato da Harro Schulze-Boysen e Fritz Thiel, collegato all’organizzazione comunista Rote Kapelle, aveva attaccato in tutta Berlino manifestini che riportavano “Mostra permanente / Il PARADISO NAZISTA / Fame di guerra Bugie della Gestapo / Per quanto ancora?”.
Il giorno successivo il gruppo della Resistenza ebraico-comunista Herbert Baum, guidato da Herbert e Marianne Baum, tenta di incendiare i padiglioni di Das Sowietparadies danneggiandoli solo parzialmente. L’immediata reazione a queste due azioni della Resistenza fu durissima. La settimana successiva cinquecento ebrei berlinesi furono trasferiti al campo di concentramento di Sachsenhausen dalle strutture di detenzione diffuse in città. Dopo pochi giorni 250 prigionieri del lager vengono uccisi per vendetta. Herbert Baum viene catturato e torturato a morte nel carcere di Moabit, sua moglie ghigliottinata a Plötzensee, altri membri uccisi in una vasta azione di repressione.
La Humboldt-Universität ha scelto di celebrare quelle eccezionali generazioni di scienziati e umanisti, prussiani ed ebrei, conservatori come Planck e progressisti come Einstein, che hanno trasformato la visione del mondo e della realtà sottolineando l’enorme sacrificio di sangue versato durante gli anni plumbei del nazismo. Sono proprio gli anni di cui parla Margaret Von Trotta nel suo film Die bleierne Zeit, frettolosamente tradotto in italiano come Anni di piombo. Forse Gli anni plumbei avrebbe offerto un maggiore rigore filologico alle intenzioni della regista, ovvero un riferimento diretto a quei pesanti e soffocanti anni Settanta in cui la Germania ancora viveva le conseguenze dell’oppressione della società nazionalsocialista a causa di una denazistificazione solo parziale di cui la guerriglia urbana era una delle conseguenze della diffusa autoassoluzione politica e personale. Quando nei primi giorni del 1933 la classe dirigente tedesca aveva consentito ai nazionalsocialisti e a Hitler di prendere il potere, anche con un aperto appoggio al Reichstag, illudendosi di poterli manipolare per il proprio egoismo e la propria sete inesauribile di profitto, investendo sulla loro capacità di esercitare una violenza spropositata come elemento determinante per soffocare le richieste di emancipazione sociale e politica della classe operaia, il potente blocco conservatore, aristocratico e militarista si era cinicamente alleato con l’aggressività dei movimenti fascisti di natura populista per soggiogare i sindacati e una frammentata sinistra tedesca. Il 30 gennaio del 1933, quando Hitler viene nominato Cancelliere, milioni di tedeschi erano comunisti e socialisti, aderenti ai sindacati, antifascisti, e subirono una repressione terrificante, esecuzioni, torture e reclusioni nei lager che, per alcuni sopravvissuti, durarono tutti i dodici anni di dittatura. La repressione contro oppositori e membri della Resistenza tedesca è stimata oggi in 350.000 caduti, che ne fa il più pesante contributo di vite umane nella lotta nazionale al fascismo. Molti oppositori erano studenti, tecnici, ricercatori e professori delle discipline scientifiche, dipendenti delle università e delle industrie. Molti ripareranno all’estero, come Einstein, ma, in contrasto con una visione storica che pretende di vedere una Germania unita in un consenso fanatico, anche se il consenso ci fu, furono molti gli oppositori e i membri della resistenza al fascismo più lunga della storia, uomini e donne coraggiosi e che, in molti casi, pagarono con la vita le loro idee e le loro attività. Per questo non è possibile parlare del periodo d’oro della fisica del Novecento senza sottolinearne i motivi della successiva rovinosa decadenza, proiettando gli avvenimenti della ricerca scientifica sullo schermo della repressione e della dittatura.
Nomi. Date. Luoghi. Marc Bloch, in Apologia della storia o il mestiere di storico, scrive che la storia è come la pellicola di un film in cui i fotogrammi sono legati tra loro, posti uno dopo l’altro in sequenza temporale. Il fotogramma più recente è intatto, ma procedendo a ritroso sono sempre più deteriorati perché più lontani nel tempo, e il compito dello storico assomiglia a quello del restauratore di pellicole, che lavora per riportare quel fotogramma alla nitidezza originale. Per quanto sia bella questa immagine, e io l’abbia sempre amata soffermandomi a pensare a un Bloch che somiglia ad Eisenstein mentre controlla concentrato la pellicola, credo che il presente non sia affatto nitido e che lo storico che indaga sul passato, esattamente come flȃneur benjaminiano durante il suo passagen-werk, si trovi nelle condizioni di chi sia in bilico tra la mancanza di segni di Bebelplatz e la sovrabbondanza della Humboldt-Universität. La storia è forse un itinerario tra segni presenti e mancati, ma un itinerario cibernetico e che si realizza mentre si procede, con assestamenti continui e indotti dalla sua stessa evoluzione. Un’immagine che ricorda la potente metafora di Otto Neurath nella quale siamo come marinai che devono riparare la nave della scienza in mare aperto, navigando, senza potersi fermare per farlo. Tutti questi segni, mancanti e presenti, che richiamano a situazioni e periodi molto differenti tra loro, evocano immancabilmente i ruoli della storia e della memoria.