di Fabio Ciabatti

Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, € 17, pp. 192.

C’è una singolare coincidenza nella strategia politica dei due partiti che competono per la presidenza americana. I due candidati vicepresidenti, Tim Walz per i democratici e J.D. Vance per i repubblicani, sembrano essere stati scelti per contendersi le spoglie della classe lavoratrice americana. Le questioni legate all’identità di classe non possono certamente prendere troppo spazio nella campagna elettorale. Siamo pur sempre nel ventre della bestia capitalistica mondiale. Eppure la classe non è questione che possa essere bellamente ignorata perché, come si suol dire anche se in modo decisamente banalizzante, gli elettori votano soprattutto con il portafoglio. Perciò non rimane che evocare un sbiadito simulacro della classe per poi farlo agitare con cura da due personaggi secondari dello spettacolo elettorale.
Ed ecco spuntare dal cilindro Tim Walz, particolarmente gradito ai sindacati americani. A dirla tutta, però, J.D. Vance sembra più adatto a invocare il fantasma dell’America lavoratrice: nella sua famosa autobiografia, Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis, egli rivendica apertamente le sue origini popolari, ovviamente dal punto di vista di chi ce l’ha fatta a diventare un uomo di successo. Con l’assumere su di sé il connotato dispregiativo della parola hillbilly (nella sua accezione negativa, il termine significa cafone, zoticone ecc.) l’autore vuole evidentemente marcare la propria distanza dall’élite dominante. Insomma ci troviamo nel bel mezzo di un guazzabuglio postmoderno con i repubblicani che sembrano più a loro agio nell’evocare, certamente a modo loro, temi legati all’appartenenza di classe rispetto ai democratici. Questi ultimi, invece, attraverso la loro candidata alla presidenza, una donna di colore di origini asiatiche, hanno il physique du rôle per impersonare le questioni legate alle cosiddette identity politics, nonostante si guardino bene dal farne un tema centrale della propaganda elettorale.

Tutto ciò non accade per caso, ma è il frutto di una trasformazione della cultura di sinistra, in ambito politico e accademico, compresa quella che si vorrebbe radicale. Come ci spiega Mimmo Cangiano nel suo Guerre culturali e neoliberismo (pubblicato all’inizio dell’anno, prima delle vicende elettorali americane cui ho fatto cenno), “Già ampiamente demonizzata dal reaganismo e dal thatcherismo come identità da cui smarcarsi a ogni costo, la classe lavoratrice è diventata una identity che la storia ha posto dal lato sbagliato della barricata”.1 Ridurre la classe a un’identity significa che nella sua definizione l’“Essere” ha preso il sopravvento sul “Fare”: la considerazione dello status culturale ha sovrastato gli aspetti legati all’attività lavorativa in senso proprio che sono di natura relazionale in quanto determinati nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. Giudicata su basi culturali, la classe lavoratrice può essere considerata “retrograda, intollerante, pronta a votare Trump (o Giorgia Meloni) sulla base del proprio privilegio di genere o di razza”.2 La stessa espressione working class “è praticamente scomparsa dal dizionario politico, in ambito culturale è invece cresciuto esponenzialmente il suo utilizzo accompagnato da aggettivi identitari (white working class, male working class ecc.)”.3
Cangiano, professore di Critica letteraria e letterature comparate all’università Ca’ Foscari di Venezia, ripercorre la storia delle idee che hanno portato a questa trasformazione partendo dal post-strutturalismo francese, passando per la sua reinterpretazione americana da parte della cosiddetta French Theory, per continuare con i Cultural studies inglesi e americani. Una storia che prosegue e si ramifica ulteriormente, arrivando fino alla cosiddetta woke culture (in breve la woke), espressione che indica un milieu politico fortemente impegnato nella lotta contro le discriminazioni sociali come il razzismo, il sessismo e la negazione dei diritti LGBTQIA+ (anche se la stessa espressione è oramai utilizzata frequentemente in senso dispregiativo nel dibattito americano). In questa sede non ci soffermeremo su questa genealogia preferendo seguire altre tracce presenti nel testo nel tentativo di dare conto della duplice prospettiva con cui Cangiano affronta il suo oggetto di studio: 

Ciò che […] vorrei tentare di fare qui è appunto comprendere le ragioni per cui la woke potrebbe al tempo stesso essere tanto una cultura perfettamente sintonica con le attuali modalità operative del mercato (come volgarmente credono i rosso-bruni) quanto, se portata fuori dall’ambito culturalistico, un effettivo e potente strumento di lotta anti-capitalista.4

Partiamo dalla considerazione che nelle identity politics è 

la condizione di vittima a dettare le ragioni della scelta del soggetto rivoluzionario e/o resistente. Già in questo caso, l’allontanamento dal marxismo non potrebbe essere più netto. In Marx, infatti, la classe non è centrale perché oppressa, perché vittima, ma perché sul suo essere forza lavoro vendibile, cuore della produzione capitalista, si basa l’intero sistema economico.5

La prima cosa da sottolineare, insieme all’autore, è che l’oppressione viene disgiunta dallo sfruttamento, cioè dalle sue radici economico-materiali. In questa logica, “il capitalismo passa sempre più a essere inteso come forza anzitutto etico-culturale”6 piuttosto che un sistema connotato da rapporti sociali di produzione finalizzati prioritariamente alla ricerca incessante del profitto. Al vertice del sistema di dominio vi sarebbero le gerarchie del sapere-potere in grado di riprodurre sistematicamente meccanismi di discriminazione e oppressione come il razzismo e il sessismo. Il tutto porta a una visione culturalista che Cangiano interpreta come un sintomo legato alla percezione dell’immodificabilità del sistema economico. Le guerre culturali, sintetizziamo, diventano un succedaneo della guerra di classe. Solo per fare un esempio, la lotta contro il razzismo non punta ad abolire le forme di sfruttamento che su di esso fanno leva, ma, con spirito sostanzialmente riformista, sull’educazione antirazzista. Insomma i rapporti economici vengono depoliticizzati proprio mentre, giustamente, si politicizzano ambiti sempre più ampi delle relazioni sociali.
Una volta naturalizzato il sistema economico ai soggetti oppressi non resta che chiedere un riconoscimento a partire da “chi sono”, cioè a partire dalla loro sofferenza. Tutto ciò rischia però di risolversi in “una lotta infinita fra tribù che, perso il comune riferimento al sistema economico, o si auto-accusano o riescono a compattarsi solo mediante l’utilizzo di strumenti normativi come il politically correct”.7 Il risultato è la balcanizzazione del fronte dei subalterni. “Si crea infatti un vero e proprio meccanismo concorrenziale, teso ad accaparrarsi quella merce che è la penosa benevolenza verso la ‘vittima’ concessa dalla società”.8 Ciascuna identità subalterna, rispetto a tutte le altre, perde lo status di “compagno” per acquisire, al massimo, quello di “alleato”. Il diritto dell’individuo alla propria particolare separatezza e cioè alle proprie molteplici specificità identitarie è, infatti, “uno dei fondamenti di quella coesione senza-coesione” tipica delle società occidentali contemporanee.

In realtà, la frammentazione dei soggetti individuali e politici può essere letta in due modi molto diversi tra loro, sostiene Cangiano. Da un lato come un avanzamento etico-culturale contraddistinto dal superamento delle astrazioni universalistiche. Dall’altra, è questa l’opzione dell’autore, come sintomo di una situazione storicamente determinata che è il risultato, allo stesso tempo, 

della frammentazione competitiva indotta dal mercato neoliberale e di quella ipertrofia del simbolico e del sovra-culturale che si crea nel momento in cui in Occidente decade, insieme alla produzione di tipo fordista, anche l’egemonia a sinistra della classe operaia.9

In tutto ciò, e veniamo qui ad un altro punto centrale dell’argomentazione dell’autore, la cultura capitalistica viene letta in modo unilaterale, sostanzialmente equiparata a un meccanismo monologico e universalizzante che tende a negare e normalizzare tutto ciò che è molteplice, fluido, marginale, ibrido, diasporico, nomadico ecc. Ma le cose sono ben più complesse. 

L’universalismo capitalista coincide cioè con lo sviluppo del “particolarismo” (universale e particolare, monologico e molteplice sono coesistenti nel capitalismo), vale a dire con una società in cui gli individui, alieni gli uni agli altri, strumenti gli uni degli altri (merce gli uni degli altri), si relazionano sulla base dei propri interessi egoistici (“particolari”) e si ricompattano solo mediante le astrazioni dell’ideologia e la fedeltà “obbligata” alle norme prammatiche del modo di produzione e consumo. È per questa ragione che i capitalisti possono poi mettere a profitto sia l’universalismo che la differenza: perché l’universalismo capitalista si fonda su ostilità e divisioni (di classe, di genere, di razza, alienazione dai propri simili, competizione fra gli stessi capitalisti ecc.) che vanno continuamente tanto rinfocolate quanto standardizzate attraverso la falsa coscienza.10

Per dirla con i termini lacaniani richiamati da Cangiano, la cultura del capitalismo viene appiattita sul “discorso del padrone”. Questo impone repressione, astinenza, risparmio ecc. per ridislocare le energie così immagazzinate verso il lavoro e l’accumulazione. Ma proprio perché il capitalismo non è una riducibile a un’istanza culturale, esso dal punto di vista ideologico può giocare su più tavoli e farsi portatore, come accaduto soprattutto negli anni ruggenti della globalizzazione, anche del lacaniano “discorso del capitalista”, quello che esprime l’imperativo consumistico a un godimento senza fine che travalica ogni limite e non conosce alcuna misura. Proprio per queste sue caratteristiche il godimento valorizza il molteplice, il fluido, l’ibrido ecc., tutto ciò che è fuori norma, cioè quegli elementi che il progressismo contemporaneo considera naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti. E i paradossi non finiscono qui. In ambito etico-politico, in aperto contrasto con il suo relativismo epistemologico, la cultura woke finisce affermare una sorta di “essenzialismo di ritorno” perché sostiene una “rigida e binaria separazione fra bene (ibrido, nomade, non-normato) e male (univoco, monologico, universalista)”.11

Riassumendo, il soggetto resistente viene identificato nella sua qualità di vittima dell’oppressione. L’oppressione, a sua volta, è disgiunta dallo sfruttamento e di conseguenza il capitalismo viene culturalizzato. La cultura capitalistica, però, viene unilateralmente identificata con il discorso del padrone. Tutti gli elementi che si oppongono a quest’ultimo vengono considerati come naturalmente antagonisti allo stato di cose presenti, ignorando come questi stessi elementi possano essere funzionali al discorso del capitalista.
Fin qui abbiamo visto perché la woke può rivelarsi una cultura in sintonia con le attuali modalità operative del mercato. Ora bisogna vedere quale sono gli elementi che, almeno potenzialmente, la rendono funzionale a un possibile discorso antagonista. Questa considerazione di tipo dialettico distingue nettamente le critiche di Cangiano dalla becera ostilità del rosso-brunismo. Quest’ultimo, infatti, denuncia la complicità e l’omologia della woke con il capitalismo contemporaneo che, però, viene completamente appiattito sul discorso del capitalista ignorando del tutto come esso possa esprimersi anche attraverso il discorso del padrone. Di fatto i rosso bruni adottano una posizione che, nella sua unilateralità, è uguale e contraria a quella dell’ideologia che vorrebbero criticare.

Tornando alle potenzialità antagonistiche della woke, occorre partire da alcune considerazioni sulla struttura sociale del mondo contemporaneo. Oggi, sostiene Cangiano,

non abbiamo perso né la classe né il soggetto rivoluzionario; ciò che abbiamo perso, almeno in Occidente (e dipende ovviamente dalle trasformazioni materiali interne al capitalismo), è il soggetto egemonico (l’operaio industriale) all’interno della classe. Il che ovviamente ci mette in una posizione difficile, perché dobbiamo ora operare con tutta una serie di soggetti e gruppi sociali la cui relazione col modo produttivo, il cui essere classe, è meno evidente.12

Oggi risulta chiaro che non è più possibile pensare alla classe come un tutto omogeneo perchè genere, razza ecc. influiscono, anche se in modi storicamente mutevoli, sia sui rapporti lavorativi sia sui processi di soggettivazione. Attraverso le battaglie delle cosiddette minoranze, le diverse identity sono state funzionali a individuare una serie di specifiche tipologie di oppressione, permettendo l’articolazione di un linguaggio rivendicativo. In questo contesto, sostiene Cangiano, una woke in grado di riconnettersi materialisticamente al modo in cui il capitale opera

potrebbe effettivamente porsi come strumento fondamentale di lotta, proprio nel suo riconnettere al centro della classe (che poi vuol dire al centro della società vista come un intero) tutte quelle soggettività sociali che prima vi avevano operato in funzione solo in apparenza più laterale.13

In questo percorso si può recuperare il concetto di intersezionalità, a patto di ripensarlo “materialisticamente, cioè a partire dalla relazione che intratteniamo con produzione e mercato, non dalla condizione di vittima”.14 La relazione della classe lavoratrice col modo produttivo rimane secondo l’autore il luogo dove le molteplici forme di oppressione si intersecano connettendosi al piano dello sfruttamento.  Essa è anche il luogo dove i diversi gruppi subalterni, seppure diversamente oppressi e diversamente sfruttati, possono riconoscere che la logica del sistema cui tutti quanti soggiacciono è fondata sull’estrazione di plusvalore dalla forza lavoro, sullo sfruttamento. Solo riconoscendo questa logica è possibile articolare un’azione unitaria coinvolgendo le diverse soggettività che formano la classe. La coscienza di essere classe (e la conseguente lotta di classe), insomma, è ciò che consente ai soggetti oppressi di scoprire la loro condizione storico-oggettiva, cioè la loro  posizione nella totalità delle relazioni sociali. 

Tornare a parlare di totalità significa anche contrastare il particolarismo e la tribalizzazione degli oppressi riprendendo in mano l’universalismo inteso non come un qualcosa di presupposto, ma come un campo di battaglia:

non solo di battaglia per l’egemonia, ma anche per l’eliminazione di quelle contraddizioni fra gruppi sociali storicamente create dal modo di produzione capitalista. E non si tratta dunque di universalismo astratto (quello tipico del potere), ma della lotta per un universalismo concreto che è quello, a venire, della società non divisa.15

Al contrario, dove

l’universalismo rischia di ricomparire come monolite presupposto è ovviamente nel rosso-brunismo (che vede la classe come un vincolo comunitario intero e senza linee di divisione interne), ma anche in molteplici fenomeni correlati alle culture wars: nell’assolutismo identitario che caratterizza le identity politics; nello spostamento del concetto di comunità, ancora indiviso, nello spazio coloniale o ex coloniale.16

In conclusione, le necessarie critiche alla cultura woke non ci devono far dimenticare che 

Negli ultimi quarant’anni molte nuove questioni sono state poste al centro del dibattito, e da queste non si tornerà indietro. Si tratta di “materializzarle”, cioè di sottrarle all’orizzonte liberale e culturalista in cui in larga parte tendono a esprimersi. È impossibile farlo senza porre la questione di un’alternativa, cioè senza la domanda di un modo di vivere che chiuda davvero con sfruttamento e oppressione (oltre che con la loro dialettica).17

Da parte mia aggiungo solo che i funesti orizzonti bellici in cui siamo oramai immersi non fanno che approfondire le contraddizioni di cui il testo tratta. Da una parte la guerra richiede un inasprimento del discorso del padrone, funzionale alla repressione di ogni alterità e alla creazione di un corpo sociale omogeneo pronto all’estremo sacrificio; dall’altra lo scontro militare tende a presentarsi come scontro di civiltà e la cultura occidentale, per affermare la sua superiorità sul resto del mondo, difficilmente può fare a meno del discorso del capitalista. 
In questo contesto la cultura woke può certamente rappresentare un fattore di resistenza contro i rigurgiti di dio, patria e famiglia. Allo stesso tempo, però, può fornire armi per l’arsenale ideologico occidentale come accade nel caso dell’omonazionalismo in cui i diritti di gay, lesbiche, trans ecc, diventano ingredienti di un razzismo soprattutto anti-islamico. Insomma, le guerre culturali possono fornire ulteriore polvere da sparo per caricare le armi delle guerre di civiltà. Anche per questo è sempre più urgente riconnettere oppressione e sfruttamento, perché se non cogliamo le radici capitalistiche della guerra, rischiamo di farci arruolare in uno scontro ideologico senza né capo né coda dal punto di vista di una politica di emancipazione. Uno scontro in cui, contro il patriarcato grande russo, fantomatici soldati gay ucraini possono combattere fianco a fianco con i nazisti del battaglione Azov, attenti lettori della kantiana Per la pace perpetuaGod save the drag queen!


  1. M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Nottetempo 2024, p. 38, ed. kindle. 

  2. Ivi, p. 37. 

  3. Ivi, p. 38. 

  4. Ivi, p. 25. 

  5. Ivi, p. 21. 

  6. Ivi, p. 35. 

  7. Ivi, p. 37. 

  8. Ivi, p. 36. 

  9. Ivi, p. 40. 

  10. Ibidem. 

  11. Ivi, p. 50. 

  12. Ivi, p. 169. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 177 

  15. Ivi, p. 168. 

  16. Ibidem. 

  17. Ivi, p. 180.