di Gioacchino Toni
Zack Davisson, Kaibyō. I gatti soprannaturali del Giappone, Traduzione di Gilda Dina, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 150, € 16,00
Che si tratti di paciosi e viziati felini accovacciati negli ambienti domestici o di energici cacciatori di topi nelle località meno urbanizzate, di gatti commemorati negli spettacoli di teatro kabuki o rappresentati in antiche stampe, nei manga e anime moderni, di micetti trasformati in giocattoli viventi o in “cute”, di “tigri ben nutrite” dei periodi Heian e Edo o di terrificanti mostri e mutaforma del folclore, di certo si può dire che i gatti abitano gli spazi e gli immaginari nipponici da lungo tempo.
È dei terrificanti felini mostri e mutaforma del folclore, dei gatti soprannaturali dotati di poteri magici che inquietano l’immaginario nipponico da secoli che si è occupato lo statunitense Zack Davisson nel suo volume dedicato ai kaibyō giapponesi.
«Il termine yōkai racchiude i mostri, gli spiriti dei fiumi e delle montagne, le divinità, i demoni, i goblin, le apparizioni, i mutaforma, la magia, i fantasmi, gli animali e qualsiasi genere di evento misterioso». Se tutti gli animali possono trasformarsi in yōkai in speciali circostanze, alcune specie – come le volpi giapponesi (kitsune), gli autoctoni cani procioni (tanuki) e i gatti chiamati neko – sono dotate del magico potere henge, cioè mutaforma. Stando al folclore nipponico, mentre gli autoctoni cani procioni sono magici sin dalla nascita, le volpi e i gatti acquisiscono i loro poteri magici soltanto alla fine del loro ciclo vitale, attorno ai cinquant’anni le prime e sui dodici o tredici anni i secondi.
I poteri attribuiti ai kaibyō (gatti strani) sono innumerevoli: «cambiano forma, manipolano i cadaveri come pupazzi, portano fortuna, infliggono maledizioni». Nel corso del volume Davisson passa in rassegna i principali tipi di gatto soprannaturale che fanno parte della tradizione giapponese a partire dai bakeneko mutaforma che, stando al folclore, nonostante siano in grado di assumere sembianze umane imitando persone esistenti o creandone di nuove, nella maggior parte delle leggende che li riguardano sono descritti come gatti che mantengono le sembianze feline pur indossando abiti umani e parlando la loro lingua. Sebbene nella tradizione solitamente il potere mutafroma viene acquisito dai bakeneko in tarda età, non mancano leggende in cui i poteri magici sono derivati dal bevendo il sangue di esseri umani di cui poi i gatti assumono le sembianze.
Altra tipologia di gatto soprannaturale è quella del terribile nekomata a due code che le leggende raccontano iniziare questa sua seconda vita al raggiungimento dell’età anziana, quando, all’improvviso, si dota di una seconda coda ed inizia a camminare sulle zampe posteriori posseduto da minacciosi poteri magici. I racconti relativi al nekomata del periodo Kamakura (1185-1333) lo descrivono spesso come una spaventosa bestia delle montagne, priva di particolari poteri magici ma di grandi dimensioni, simile a una tigre o un leone, che vaga per le foreste incline ad attaccare, uccidere e mangiare gli esseri umani che osano avventurarsi nei meandri delle montagne. Le leggende del periodo Kamakura, probabilmente derivate dalla minacciosa presenza nella zona di grandi felini, hanno conosciuto un’evoluzione nel periodo Edo (1603-1868), quando il nekomata è descritto di dimensioni sempre maggiori e, soprattutto, anziché come uno misterioso grande felino selvatico, viene ritenuto un gatto domestico che in tarda età si è trasformato in essere mostruoso. Pur non essendo popolare come il bakeneko mutaforma, durante il periodo Edo anche il nekomata inizia a fare la sua comparsa nel mondo dell’arte.
La leggenda del kasha, il demone che sottrae e mangia i cadaveri, rappresenta secondo Davisson uno dei maggiori enigmi di tutti gli yōkai giapponesi. La presenza di numerose mostruosità spaventose nel periodo Kamakura è forse da mettere in relazione alle credenze apocalittiche buddhiste dell’epoca che generarono una forma d’arte chiamata jigoku-zōshi, (pergamene infernali) raffiguranti le pene e le sofferenze spettanti a chi non seguisse la via del Buddha nell’imminenza della fine dei tempi. Probabilmente l’origine dell’aspetto felino del kasha deriva dall’artista Toriyama Sekien (fine XVII sec) che con le sue opere ha esercitato notevole influenza sui racconti del periodo. Se numerose leggende ritengono che il kasha, così come il nekomata e il bakeneko, derivi da una misteriosa trasformazione del gatto domestico in tarda età, secondo altre versioni il mutamento deriva invece dalla prolungata presenza del felino al cospetto di un cadavere; una volta trasformato in kasha il gatto si prodiga nel trascinare via il corpo per poi cibarsene.
Nel periodo Edo, tanto nei romanzi d’appendice kiboshi, quanto nelle sharben (guide dei distretti del piacere), sono numerosi i racconti sulle prostitute bakeneko adescatrici di clienti ignari della loro natura felina basati sullo schema che vuole il cliente scoprire nel cuore della notte che l’ombra della donna con cui giace sembra quella di un gatto. A tali racconti si affiancano leggende decisamente più terrificanti che raccontano di prostitute yōkai che placano la loro fame cibandosi della carne umana dei clienti. Pur mutata nel corso del tempo, in generale si può dire che la figura della prostituta bakeneko di origine felina ha spesso esercitato attrazione, tanto che le cortigiane del quartiere del piacere di Yoshiwara non hanno mancato di sfruttare la leggenda creando un alone di mistero circa la loro reale natura per compiacere l’immaginario dei clienti. Secondo Davisson in queste storie delle prostitute bakeneko si possono individuare le radici del recente fenomeno della ragazza-gatto presente in numerosi manga, anime e videogame nipponici.
L’ibrido umano/felino neko musume rappresenta invece un essere del tutto particolare all’interno del bestiario mitico nipponico. Tale figura derivata, probabilmente, dalle “esibizioni delle stranezze” degli spettacoli popolari misemomo ad Asakusa di Edo andati in scena tra l’epoca Horyoku e l’epoca Meiwa (1751-1771). Il venir meno degli spettacoli relega nell’ombra la figura della neko musume, salvo poi ricomparire nell’Ottocento, grazie anche alla pubblicazione del racconto Ashu no kijo (La strana donna di Ashu), la cui storia viene raccontata nuovamente nel 1830 nel testo satirico Kyoka hyakki yakyo (Poesie della parata notturna di cento demoni) pur essendo chiamata name onna (ragazza che lecca) anziché neko musume. A dare nuova vita nel 1936 alla figura della neko musume è Shigeo Urata, uno dei pionieri della narrazione kamishibai (teatro di carta), tenuta da cantastorie ambulanti.
Nel corso del periodo Edo sono numerose le leggende locali che narrano di una strega-gatto, un bakeneko che assume le sembianze di un’anziana donna che nei villaggi e nei santuari attira con gentilezza viaggiatori e fedeli per poi cibarsene. Tra le leggende più famose vi sono quelle delle streghe-gatto di Okazaki e Okabe. Nel primo caso un ruolo importante spetta all’adattamento del drammaturgo Tsuruya Nanboku IV nel 1927 per il teatro kabuki del romanzo popolare Hitori tabi Gojūsan Tsugi (Il viaggio solitario di Gojūsan Tsugi) in cui evoca il gatto bakeneko, ancora oggi rappresentato con il titolo Okazaki no neko (Il gatto di Okazaki). Dallo spettacolo teatrale numerosi artisti ukiyo-e hanno poi derivato stampe effigianti streghe-gatto. Nel caso della versione di Okabe si deve alle stampe di Utagawa Kuniyoshi di metà Ottocento la diffusione della leggenda poi ripresa anche dalla serie I cinquantatré paralleli per la strada del Tōkaidō di Utagawa Kuniyoshi, Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada. Ulteriore leggenda incentrata sulla figura della strega-gatto si deve all’opera monumentale sul folclore The Fairy Books (1889-1913) di Andrew Lang.
Curioso è il caso del gotoku neko, appartenente alla tipologia del nekomata, gatto particolare in quanto a differenza della maggior parte degli animali non teme il fuco tanto da posizionarsi nei pressi dei camini preoccupandosi di ravvivare i focolari. Introdotto probabilmente per la prima volta in una yōkai (raccolta di apparizioni spettrali) del periodo Muromachi (1336-1573) da parte dell’artista Tosa Mitsunobu, che lo mostra con un tripode in testa, toccherà ad artisti successivi elaborare una mitologia.
Decisamente diffuso ancora oggi, e non solo in Giappone, è l’immagine, o la versione tridimensionale, del maneki neko, un gatto, solitamente bianco – ma può anche essere rosso, nero, oro, recentemente anche rosa o di altri colori –, con un piccolo foulard e un campanellino al collo, che compie un gesto di invito con una zampa anteriore. A questa tipologia di gatto, che ha fatto la sua comparsa in età Edo, si rifanno negli ultimi tempi numerosi prodotti commerciali che fanno leva sull’attrattiva esercitata dall’aspetto “cute”.
Sul finire del volume l’autore ricorda come quando, a metà dell’Ottocento, il Giappone termia l’isolamento aprendosi al mondo europeo e statunitense, consapevole del ritardo accumulato nei confronti dell’Occidente a proposito di conoscenze scientifiche, il governo nipponico abbia voluto sradicare la credenza negli yōkai. Il soprannaturale viene bandito dal mondo delle arti e dagli spettacoli di teatro kabuki e gli scrittori vengono costretti a correggere le prefazioni dei loro libri, dichiarando la matrice del tutto fantasiosa di eventuali yōkai presenti nelle storie. Così, per diversi decenni, i kaibyō e gli altri yōkai vengono relegati nell’ombra.
Occorre attendere gli anni Sessanta del secolo scorso affinché, grazie ad artisti come Shigeru Mizuki, che su finire del decennio precedente aveva condotto la neko musume fuori dal teatro kamishibai, introducendola ai manga kashihon come un personaggio dell’orrore, si abbia un vero e proprio recupero del folclore yōkai tradotto nelle diverse arti da personalità come Miyuki Saga, Misao Mochitsuki, Bin Kato, Aoi Hiragi, Utagawa Kuniyoshi e Takashi Murakami.
Il mistero che circonda l’universo felino ha dai tempi antichi condotto i giapponesi, e non solo loro, a nutrire nei confronti dei gatti una particolare attrazione in cui si mescolano una propensione affettiva spontanea e un inconscio timore forse derivato dall’insondabilità che li contraddistingue. Il particolare stato d’animo con cui l’essere umano si rapporta all’indecifrabile universo felino sembra concorrere a mantenere vivo un legame con quello spazio soprannaturale che la razionalità e l’efficientismo moderni hanno pensato di dovere e potere eliminare facilmente.