di Franco Pezzini

Elémire Zolla, Minuetto all’inferno, prefaz. di Grazia Marchianò, pp. 290, € 20, Cliquot, Roma 2024.

 

Presto, tra pochi mesi, […] sarebbe scoppiata la guerra: una guerra che sarebbe stata lunga, sanguinosa, dolorosa per tutti, che avrebbe sconvolto il mondo intero, ma che si sarebbe conclusa, alla fine, dopo molti anni di incerte battaglie, con la vittoria completa delle forze del bene. “Del bene?”, aveva chiesto a questo punto Micòl, che era sempre stata speciale, lei, per le gaffes. “E quali sarebbero, per favore, le forze del bene?”. Al che il calice, lasciando tutti quanti di stucco, aveva replicato con una sola parola: “Stalin”.

 

Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini (Einaudi, 1962)

 

Strana storia, quella di Minuetto all’inferno. Bloccato inizialmente da Vittorini alla Einaudi, con motivazioni a dirla tutta discutibili (“solo cupamente fantasticante: un incubo puramente libresco… […] non abbiamo mai pubblicato un libro tanto brutto e arcaico, presuntuoso e inattuale, cervellotico e ingiustificato”); difeso con equilibrio un po’ tiepido da Fruttero; infine uscito (1956) e risultato vincitore al Premio Strega opera prima, in realtà a dispetto delle critiche è un libro che dell’Italietta dice molto. In fondo anche dell’attuale, post-fascista, con le sue esilaranti pretese di fare la Storia, i suoi conformismi stantii e persino recenti eventi tra il gossip e l’istituzionale. Dentro ci starebbe tutto.

Scritto con eleganza dannunziana fuori tempo massimo, ideale per un’interpretazione per sola voce dell’immenso Paolo Poli, forte di una lingua sapida e tornita, ironica e godibilissima, sicuramente ricco di vivida intelligenza, il romanzo racconta le vicende parallele a Torino e in campagna di un giovane, Lotario Cacopardo, e una giovane, Giulia Pautasso, tra fascismo e prima repubblica. In scena è uno scatenato gioco di maschere dove i criteri di bene e di male valgono quanto moneta falsa. Lotario viene da una famiglia abbiente sprezzante del fascismo, Giulia ha uno zio che costruisce gruppi antifascisti: il tutto in un gran circo di serate borghesi, iniziazioni al sesso, contemplazioni perplesse di fecciaioli di regime e impagabili caratteristi come l’ingombrante Lena innamorata di Giulia e decisa a tenerla sotto la propria influenza manipolatrice, i militari cialtroni e affaristi amici del padre di Lotario, la zia Katia cultrice di fisica (per i non piemontesi: magia popolare, “quando già le settimine dei paesi vicini parlavano di magnetismo, di elettricità e più tardi di forza atomica”), il losco pittore Sirchia e la sua sgarrupata corte, il piccolo profittatore Edmeo Nepote che Giulia sposerà.

Ma accade qualcosa, che al dramma grottesco di un’Italia che non impara niente imprime toni tragici: infatti nella Parte seconda “(nella quale si rivelano due personaggi finora rimasti nell’ombra)”, a controcanto del biblico Libro di Giobbe ecco un accordo tra un Satana tediosamente decadente e il “dittatore”, un Altissimo dai connotati di Stalin (provocatorio, anche se Zolla poteva non pensarci, è richiamare la citazione bassaniana sulle forze del bene qui in incipit). L’idea è di far esplodere il compiaciuto e iperprotetto mondo di Lotario ed Edmeo (Giulia compresa) per ricondurli a un piano più semplicemente umano… Merita non raccontare lo sviluppo, che storna – in parte – dal clima diffuso lieve e grottesco per imprimere tocchi più dolenti, pur riservando ancora dosi di beffa.

Il romanzo si legge con grande piacere per la qualità di scrittura e il divertito sarcasmo sulle maschere di un’intera generazione – ma anche, chi recensisce lo ammette senza timore di passare per integralista – un po’ di fastidio. Quattro anni prima, nel 1952, Einaudi aveva pubblicato Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), seguito nel 1954 da Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, curati entrambi da Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli: fa un po’ effetto veder esaurire nel grottesco da parte di Zolla un’intera epopea di storia civile, contrapponendo a fascisti da operetta lo zio antifascista presentato come un ottuso trombone e la sua cerchia di illusi. Antifascista per inciso, questo zio Vladimiro, nato in Russia e venuto più precisamente da Odessa: una certa caduta di stile da parte dell’autore, visto che Leone Ginzburg – che era un antifascista serio, e non quelli di tolla che nei fatti hanno aperto le porte al post-fascismo – veniva da Odessa e si sa com’è finito. Strano che alla Einaudi dell’epoca, al tempo del carteggio interno sul romanzo, questo aspetto non abbia suscitato qualche allergia, il che però potrebbe testimoniare a favore dell’autore.

Quel che è certo è che il gioco del copione da recitare – un gioco che nel romanzo interessa tutti, a botte di maschere e stereotipi di ironia talora esilarante – non è materiale che si possa maneggiare impunemente. Il coltissimo liberale repertoriatore dei Mistici dell’Occidente (1963, meraviglioso) e autore di altre opere affascinanti e di grande spessore finirà a recitare lui stesso un copione conformista, trovandosi a incassare la ola degli adepti della TTTradizione (cascami ammuffiti del fascismo, antimodernisti di destra, vagheggiatori di spiritualismi parecchio ambigui – tutti ben radicati nel Belpaese e socialmente foraggiati e protetti, nonostante continue lamentele di insussistenti persecuzioni) che avrebbero ben meritato un Minuetto all’inferno tutto per loro.