di Emilio Quadrelli
[A un mese di distanza dalla prematura scomparsa di Emilio, si è scelto di pubblicare in due parti un contributo dello stesso per il testo Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo millennio, a cura di Sandro Moiso, Il Galeone Editore, Roma 2021.]
Guerra esterna e guerra interna sono oggi l’elemento costitutivo e costituente della fase imperialista contemporanea tanto che, la guerra in permanenza, può essere considerata e presa come la cifra del presente. Questi due aspetti si intersecano formando un intreccio pressoché indissolubile. Le pratiche di neocolonialismo proprie del comando capitalistico contemporaneo fanno sì che i “fronti di guerra” attuali si siano emancipati dall’esistenza di confini rigidi e certi, le zone di guerra e le zone di pace, ma che guerra e pace convivano dentro un continuum. Ciò fa sì che le retoriche intorno alla sicurezza siano diventate un aspetto costante della guerra in permanenza1.
Se nelle situazioni di guerra del passato il problema della sicurezza interna riguardava la possibile presenza di una “quinta colonna” entro i perimetri statuali e l’azione di agenti nemici, oggi le cose si pongono in maniera assai diversa. La guerra al nemico interno non è più appannaggio di quegli “uomini nell’ombra” che non poco hanno contribuito a una narrazione storica, romanzesca e cinematografica particolarmente suggestiva e accattivante, ma è una guerra che si combatte pubblicamente e a viso aperto nelle strade contro “etnie”, “asociali”, “operai conflittuali”, “subalterni riottosi”, “devianti”, “marginali”, “banditi”, “criminali” o, più prosaicamente, “poveri”. Una guerra senza eroi. Se nelle epoche precedenti tutti i premi Oscar avrebbero fatto a gara per interpretare i personaggi di una bella spy story di guerra oggi, assai difficilmente, è pensabile che qualcuno scalpiti per interpretare un qualche anonimo funzionario di polizia alle prese con il suo ratissage quotidiano2.
Questa dimensione antieroica della guerra, questo presentarsi come routine burocratica e amministrativa, però, è esattamente la dimensione che la guerra interna incarna. Insomma, dobbiamo fare i conti con una forma–guerra che ben difficilmente potrà ascriversi alla dimensione dell’èpos. Detto questo, tuttavia, una qualche forma “eroica” in tutto ciò è possibile rintracciarla. Questo eroismo, per quanto sui generis ed estraneo ai canoni estetici e morali convenzionali, è riscontrabile nelle pratiche di resistenza che, magari inconsciamente, gli attori sociali mettono in atto. Se, in questo, vogliamo trovare una qualche genealogia nobile forse dobbiamo pensare a un classico del noir francese, I senza nome3.
Senza nome e senza volto, infatti, è la condizione nella quale è ascritto il nemico interno contemporaneo. Non individui ma una massa anonima la quale, con il suo fare apparentemente illogico e scomposto, incrina le sicurezze dell’individuo – cittadino che fa da sfondo al potere legittimo delle nostre società4. Ciò che nella forma guerra attuale si profila, ancora prima che uno scontro di potere, è uno scontro di legittimità. Il richiamo a I senza nome, allora, è qualcosa di più di una semplice suggestione artistico-narrativa ma incarna esattamente la relazione asimmetrica che informa per intero, dentro le metropoli dell’Occidente, la conflittualità contemporanea.
Di un aspetto particolare di questa realtà, la presenza delle gang di giovani albanesi nella città di Genova, prova a rendere conto il breve saggio che segue. Non si tratta di un fenomeno certo nuovo e poco coltivato dalle scienze sociali. Quanto la forma gang abbia rappresentato qualcosa di più di una curiosità al limite dell’esotico è testimoniato sia dalla ricca bibliografia scientifica prodotta soprattutto in ambito anglosassone, sia dall’interesse che il mondo del cinema ha riversato verso questo fenomeno. Gangs of New York, ma anche C’era una volta in America tanto per citare titoli noti ai più, mostrano come le gang abbiano rappresentato momenti centrali nella definizione degli assetti urbani, e quindi anche politici e culturali, delle metropoli Occidentali.
Almeno a partire dalla “Scuola di Chicago” in poi, sociologi della cultura, sociologi della devianza, antropologi culturali sino alla più recente etnografia sociale hanno avuto un occhio di particolare riguardo verso questo fenomeno urbano. La stessa sociologia maggiormente prona al convenzionalismo accademico, il funzionalismo parsoniano, non ha disdegnato di assumere le gang nei perimetri della sua ricerca. In Italia di ciò vi è sicuramente poca traccia. Il provincialismo del mondo accademico italiano è talmente noto da non fare neppure notizia così come è altrettanto noto, corollario di quanto appena asserito, la sua ostilità nei confronti di ciò che proviene al di là dei propri confini nazionali. Se, a conti fatti, si trattasse solo di ciò potremmo risolvere semplicemente il tutto facendoci ragione di un mondo accademico particolarmente conservatore e ampiamente bigotto, tuttavia la questione assume contorni che vanno ben oltre gli angusti perimetri nazionali. Il disinteresse per queste forme di “socialità subalterna” sembra essere diventato moneta corrente a trecentosessanta gradi nell’intero panorama delle scienze sociali occidentali, il che non è casuale. Il fatto che le masse siano uscite dai radar di ciò che, in senso ampio, possiamo definire ricerca sociale racconta qualcosa di non secondario. Ciò che ormai da tempo è accaduto è una delegittimazione dei mondi subalterni i quali, se esistono, lo sono solo in quanto ricettacoli di devianza, degrado, emarginazione e via dicendo. Non è un caso, quindi, che solo lo stigma diventi il contenitore nel quale inserire tutto ciò che non è consono alle retoriche dell’individuo-cittadino. Provare a incrinare questa gabbia di luoghi comuni non è certo tutto, ma è sicuramente qualcosa.
Millennial e “piccoli uomini”
Da qualche tempo a Genova sembra essersi materializzata una nuova ed ennesima “emergenza”: lo spettro delle gang giovanili albanesi. Risse, furti, scippi, spaccio, ancorché di modeste proporzioni, sono ciò che, nelle retoriche di senso comune, fa da sfondo allo “stile di vita” dei giovani albanesi. Non si tratta certo di una invenzione mediatica anche se, per onestà intellettuale, in contemporanea andrebbe ricordato il massiccio utilizzo e sfruttamento di questa giovane forza lavoro in attività particolarmente dure come quelle edili, dei ponteggi o del facchinaggio. Lavori sottopagati e in nero di cui l’attuale ciclo di valorizzazione del capitale appare particolarmente ghiotto. A questi si aggiungono i diversi impieghi, anche se in misura minore rispetto all’immigrazione africana e orientale, nei retrobottega della ristorazione e dei locali della “movida”. Significativamente gli appartenenti alle gang alternano attività legali ed extralegali in un continuum senza alcuna sorta di continuità. Ciò, per molti versi, li porta a essere un elemento paradigmatico di una condizione proletaria, ampiamente diffusa e continuamente in estensione, dell’era cosiddetta globale. Una realtà esistenziale, propria di ampie quote di proletariato soprattutto “extracomunitario”, dove la linea di confine tra attività lecite e illecite è particolarmente sottile. Ma non anticipiamo troppo.
Partiamo, intanto, con il definire la condizione politica ed esistenziale dei giovani albanesi. Anche loro, anagraficamente, fanno parte della generazione Millennial ma le assonanze con gran parte dei loro coetanei europei finiscono esattamente qua, soprattutto perché la così detta fase adolescenziale, che sociologi e psicologi ammalati di un inguaribile etnocentrismo considerano condizione universale, rimane una dimensione e una condizione a questi obiettivamente sconosciuta5. Più realisticamente il loro dato anagrafico corrisponde a quella dimensione di “piccolo uomo” la quale, a conti fatti, è la condizione comune dei minori in gran parte del mondo. Non a caso, e chiunque abbia minimamente a che fare con loro (ma la cosa è assolutamente identica per i giovani provenienti dall’Africa, dal Medio Oriente o dai diversi paesi orientali) può facilmente riscontrarlo, mostrano non poche difficoltà a comprendere il senso dello “essere minori”. Tutto ciò ha ben poco a che vedere con quella dimensione, tanto cara ai “multiculturalisti” di ogni sorta, con l’astrattezza della dimensione culturale, ma detta incomprensione affonda le sue radici in una condizione materiale sostanzialmente tanto estranea quanto distante a quella dei nostri Millennial.
Più che focalizzare lo sguardo sulle culture diverse occorre, allora, tenere a mente la diversa materialità che fa da sfondo alla vita dei “piccoli uomini” albanesi rispetto a una parte degli adolescenti nostrani. Una parte perché anche all’interno dei nostri mondi, tra chi può vantare la condizione propria del Millennial e ampie quote di minori subalterni, si assiste a una cesura non proprio secondaria. Al proposito è sufficiente ricordare la “differenza antropologica” riscontrabile tra gli studenti di un liceo e quelli di un istituto professionale, per non parlare delle quote non propriamente irrisorie di coloro che vanno a riempire le schiere degli “abbandoni scolastici” e coevo inserimento nell’indistinto mondo del lavoro occasionale o delle micro-attività illegali.
Mentre i Millennial approdano in maniera pressoché inerziale nella dimensione del giovane per sempre i “piccoli uomini”, in maniera altrettanto inerziale e sovra determinata, sono obbligati a crescere in fretta6. Le derive alle quali sono obbligati non consentono loro incertezze di sorta. Immersi nella dimensione del più duro e bieco darwinismo sociale non possono far altro che marciare o morire. Per quanto sinteticamente tutto ciò evidenzia come, nelle nostre società, le tradizionali differenze di classe abbiano finito con il cambiare pelle. Tra i Millennial e i loro coetanei non vi sono semplici differenze di status e di reddito ma uno scarto che può essere definito “antropologico”. All’inclusione e legittimità dei primi si contrappone l’esclusione e l’illegittimità dei secondi. A partire da qua, allora, diventa possibile, in maniera “avalutativa”, comprendere tutto ciò che il fenomeno gang si porta appresso.
Genealogia delle gang
Nel descrivere i comportamenti dei giovani albanesi attualmente presenti sul territorio genovese sono almeno tre gli aspetti che vanno tenuti a mente. Il primo ha a che vedere con il fenomeno dell’immigrazione interna consumatosi in patria. Gran parte di loro, infatti, proviene dalle zone rurali dell’Albania dove, prima del salto in Europa, hanno stazionato per periodi più o meno lunghi nei centri urbani del loro paese. Il punto di partenza è una condizione di estrema povertà e privazione dove, in non pochi casi, mettere insieme il pranzo con la cena ha ben poco di scontato il che non è per nulla un modo di dire. Una minima conoscenza delle loro biografie racconta come pane, olio e sale siano stati sovente la loro alimentazione base. Una differenza non proprio inessenziale con i nostri mondi dove una quota non proprio irrisoria di popolazione spende molto di più per dimagrire che per nutrirsi. Questa condizione di carenza alimentare, al limite del famelico, può essere facilmente testimoniata da chiunque abbia avuto a che fare con i minori albanesi inseriti in una qualche struttura deputata all’accoglienza dei “minori stranieri non accompagnati”. Il cibo somministrato a pranzo e cena, tra l’altro non proprio di ottima qualità, si trasforma, almeno inizialmente, in un vero e proprio “assalto alla diligenza”. Con buona pace dei multiculturalisti lo stomaco e non una qualche forma di hybris culturalmente determinata detta i loro ritmi e tempi. Detto ciò torniamo al nostro ragionamento.
Qua, ovvero negli ambiti urbani nei quali sono approdati, sono andati a infoltire quelle schiere di forza lavoro a buon mercato della quale il comando del capitale è famelico. Ma comando del capitale in astratto vuol dire poco se, al contempo, non se ne concretizzano le sembianze. Ed è esattamente qui che i giochi si complicano ma si fanno anche interessanti. Comando capitalistico, in Albania, significa in gran parte “comando italiano”. Ciò che non era riuscito all’impresa imperiale fascista, che proprio in Albania aveva conosciuto l’ennesima sua disfatta, ha trovato una corposa rivincita attraverso il recente colonialismo democratico proprio della cosiddetta era globale. In Albania si sono precipitate frotte di aziende e industrie italiane le quali hanno impiantato siti produttivi dove, in maniera semi-schiavistica, hanno potuto mettere al lavoro, in pieno accordo con i diversi governi che si sono succeduti nel paese, parti non irrilevanti delle masse proletarie e subalterne locali. L’Albania, come ampiamente noto, è il paese con i salari più bassi del Continente europeo e dove le protezioni sociali si materializzano solo dopo la masticazione di qualche fungo allucinogeno.
Per le imprese italiane si è trattato di una opportunità senza precedenti e non si sono certo fatte sfuggire l’occasione. A conti fatti l’Albania è un paese colonizzato con governi del tutto proni alle esigenze del comando capitalistico internazionale e, sotto il profilo militare, sotto tutela NATO. In tutto ciò l’Italia gioca un ruolo di attore protagonista. Le pessime condizioni di vita ed esistenza della popolazione albanese sono, in buona parte, frutto della dominazione economica italiana. Ciò non sfugge, senza dover essere esperti di geopolitica e geo-economia, ai giovani subalterni albanesi i quali, nei confronti del nostro paese, non nutrono sentimenti particolarmente sereni e amichevoli. Succede, con i giovani albanesi, ciò che accade abitualmente con gli immigrati africani dell’area francofona. Chi, in qualche modo ha avuto a che fare con quella immigrazione, sa benissimo quanto astio e odio i giovani africani francofoni nutrano nei confronti della Francia la quale, a tutti gli effetti, continua a esercitare una dominazione di stampo coloniale nei confronti delle ex colonie. Per i giovani albanesi l’Italia rappresenta esattamente ciò che la Francia incarna per i loro coetanei africani.
Non senza ragione, quindi, nei comportamenti “barbari” dei giovani albanesi si potrebbe leggere una sorta di anticolonialismo istintuale il quale, come ben ha rilevato Fanon, finisce con il far sorgere nel colonizzato il desiderio di sostituirsi al colono. Infatti, contrariamente a quanto amano pensare o, più realisticamente, desiderare le anime belle della sinistra perbenista sempre alla ricerca di un mitico selvaggio, la condizione del quale può essere facilmente ascritta al “grado zero, da educare e plasmare al fine di edificare l’uomo nuovo, i giovani albanesi, ma la cosa vale per l’insieme dei soggetti migranti, hanno ben poco di selvaggio, piuttosto è la figura del barbaro quella che meglio gli si addice. In ciò, con grande disappunto degli educazionisti di ogni genere e risma, mostrano una corposa sintonia con i nostri modelli culturali e morali. In un mondo fondato sul dominio i “nuovi barbari” provano a dominare a loro volta. Dentro questa contraddizione e non andando alla ricerca del buon selvaggio, semmai, è necessario lavorare per far sì che questo anticolonialismo istintuale si trasformi in qualcosa di diverso. Dentro questa strettoia occorre saper agire. In ciò non vi è alcuna certezza ma, come la storia del nostro paese racconta a proposito delle gang e delle “batterie” degli anni Settanta, sicuramente una possibilità che occorre saper cogliere e coltivare. Riassumendo, quindi, l’astio nei confronti della nostra dominazione neocoloniale è il primo aspetto che occorre tenere presente quando si affronta la questione delle gang giovanili albanesi. Questa la cornice oggettiva da tenere costantemente a mente.
(Fine prima parte)
Per una buona disamina di queste retoriche si può vedere, Alessandro Dal Lago, Polizia globale: guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003. ↩
Ho provato a descrivere empiricamente queste procedure poliziesche in relazione alla “rivolta della banlieue”, Emilio Quadrelli, Militanti politici di base. Banlieuesards e politica, in Matilde Callari Galli (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi, Rimini 2007. ↩
I senza nome, scritto e diretto da Jean-Pierre Melville, è un film noir italo–francese del 1970. ↩
Cfr. Alessandro Dal Lago, Emilio Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003. ↩
La figura del “minore” ha ben poco di universale e ancor meno di naturalistico, ma è il frutto di determinati “ordini discorsivi” e di “potere”. Al proposito si veda, Egle Becchi, Dominique Julia (a cura di), Storia dell’infanzia dal ‘700 a oggi, Laterza, Roma 1996. ↩
Si veda al proposito, Cristiana Ceci, Francesco Iarrera (a cura di), Ho viaggiato fin qui. Storie di giovani migranti, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento 2017. ↩