di Sandro Moiso

Gen. David Petraeus, Andrew Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, pp. 650, 34 euro

Se, anche troppo spesso, le spiegazioni per le cause delle guerre moderne sono state riduttive e perfino evanescenti nell’appoggiarsi a questa o quella ideologia (da quella che ne indica la causa in quella della difesa della libertà e della democrazia a quella che ne individua l’origine nelle necessità o nella crisi dell’imperialismo, soprattutto occidentale), il loro sviluppo e svolgimento ha rivelato come quasi sempre queste finiscano con l’avvilupparsi in autentici labirinti di contraddizioni, menzogne, disastri e massacri in cui gli stessi responsabili iniziali rimangono imprigionati e faticano a districarsi.

Winston Churchill, al tempo del secondo conflitto mondiale, aveva già potuto affermare che «in guerra la verità deve essere sepolta sotto un cumulo di menzogne», ma oggi si potrebbe tranquillamente affermare che sotto alle menzogne non vi è più alcuna verità e che soltanto le bugie delle parti in causa rimangono a spiegare le motivazioni, le scelte e le azioni che le determinano.

Valga come esempio per tutte l’attuale conflitto russo-ucraino con le reciproche accuse di terrorismo e nazismo che i due principali protagonisti si rimpallano ormai da più di due anni. Chi scrive non si aspetta certo altro da personaggi del calibro di Zelensky e Putin, ma almeno un po’ di dignità dovrebbe spingerli a dire che ciò che accade è una guerra, non un’operazione militare speciale o un’perazione di polizia o altro, e che non vi è altro modo di condurre una guerra, in età moderna, se non ricorrendo a bombardamenti massicci sia sugli obiettivi militari che civili, l’invio al fronte di soldati sempre più numerosi e sempre meno motivati destinati a diventare carne da cannone nel giro di poco tempo e a tecnologie sempre più micidiali nell’opera di distruzione.

Il buon vecchio, ma sempre vituperato, Céline, in tutta onestà, aveva definito tutto questo come “il tritacarne”, mentre oggi politici, finti pacifisti e giornalisti da strapazzo parlano a sproposito di “crimini di guerra”, indicando nell’avversario l’autentico mostro che occorre distruggere con il massimo impiego di violenza e tecnologia della devastazione, giustamente e opportunamente distribuite per poter giungere ad una pace “giusta”.

Motivo per cui tutto viene giustificato quando si tratta di infliggere colpi al nemico e, grazie ai social media e alla loro diffusione, trasmesso attraverso uno sguardo sulla morte altrui degno dei peggiori snuff movie. Ciò che colpisce la parte che si vuole difendere è sempre visto come orribile stragismo, disgustoso e sintomo delle malevoli intenzioni dell’avversario, mentre i colpi portati allo stesso sembrano sempre essere “giusti”, meritati e auspicabili in forme sempre più devastanti.

Così anche il surreale dibattito sulle armi che è possibile utilizzare sul territorio ucraino oppure sul territorio della Federazione russa, come anche l’eterna questione di lana caprina tesa a definire e a separare i concetti di “difesa” e “attacco”, soprattutto quando la costruzione di sempre nuove basi militari NATO ai confini della Russia oppure l’incursione ucraina in direzione di Kursk vengono considerate scelte “difensive”, rivelano l’ipocrisia di una rappresentazione della guerra che mira soltanto a nasconderne i limiti e le finalità dei contendenti. Peccato, però, che in mezzo a tutto ciò ci siano i civili, gli adulti, i bambini, le donne, gli anziani e anche i soldati che muoiono davvero o riportano ferite e mutilazioni, oltre che traumi psicologici, spesso orribili e irreparabili.

Per uscire da questa rappresentazione ipocrita e binaria della guerra, in cui l’intelligenza diventa artificiale non solo in virtù degli strumenti elettronici usati, ma grazie soprattutto al soffocamento di qualsiasi capacità individuale di interpretare e reagire con disgusto allo spettacolo osceno della morte rappresentata soltanto come un evento dovuto alla malvagità dell’avversario oppure alla bontà della causa rappresentata è, talvolta, meglio affidarsi alle riflessioni di chi la guerra la fa, per così dire, “per mestiere” e, proprio per questo, si trova costretto a non condirne l’immagine con troppi imbellettamenti o, al contrario, con un eccessivo imbarbarimento del nemico.

Strumento spesso usato in politica per rendere l’avversario degno soltanto di odio, avversione e distruzione (più o meno programmata). Strumento che, più le guerre vanno avanti trascinandosi in situazione sempre più complesse, confuse, imprevedibili e devastanti, diventa quasi sempre, come si accennava già all’inizio, l’unico per spiegarne l’utilità ai propri cittadini e alleati da parte dei governi e delle forze politico-economiche e militari coinvolte.

Ecco dunque il motivo per cui vale la pena di affrontare la lettura del testo del generale David Petraeus edito dalla UTET. Un generale che certo non potremmo catalogare tra i “nostri”, ma che per la lunga esperienza, anche là dove si lascia più facilmente trasportare dall’orgoglio del ruolo di difendere le libertà garantite dal sistema dei diritti di stampo occidentale e statunitense, deve, per forza di cose, render ragione delle scelte fatte sul campo, le difficoltà incontrate dagli attori delle guerre e le conseguenze, spesso impreviste, delle stesse. Sempre a partire dalle armi utilizzate, dalle tattiche adottate e dalle strategie messe in atto negli scenari di guerra.

Esperto di “guerra concreta”, il generale, insieme al coautore Andrew Roberts, storico e giornalista specializzato in biografie quali quelle di Napoleone e Churchill (personaggi in cui ruolo politico e militare risultano inseparabili), ci guida nei labirinti delle numerose guerre che hanno devastato il mondo successivamente al secondo conflitto mondiale, contribuendo a ridefinirne spazi geo-politici e, talvolta, i rapporti tra le classi sia a livello nazionale che internazionale. Poiché, ed è questa piena convinzione di chi scrive, la guerra non è un errore, un fatale incidente che, con altre scelte, avrebbe potuto essere evitato se solo i governi e le forze politiche lo avessero voluto, ma è parte integrante della storia delle società divise in classi e del loro sviluppo, ascesa o caduta. Potremmo definirla come la massima rappresentazione, formale e sostanziale allo stesso tempo, di ciò che certa storiografia si ostina a definire come “civiltà”.

Non a caso, per lungo tempo e ancora oggi, ad ogni svolta militare dei rapporti tra gli stati e le classi, tra oppressori e oppressi, tra potenze in ascesa e altre in declino, si è parlato e ancora si parla di “scontro di civiltà”, Che si tratti del vecchio conflitto tra USA e URSS ai tempi della mai calda davvero “guerra fredda”, del confronto possibile domani tra Stati Uniti e Cina, oppure di quello Medio Orientale che ha sempre come epicentro la presenza militare e politica israeliana mentre di volta in volta gli avversari possono cambiare (Lega Araba, Egitto di Nasser, Hezbollah libanesi, Iran e palestinesi espropriati delle loro terre e dei loro diritti minimi, solo per citarne alcuni), o, ancora, quello sempre attuale come esempio (per i teorici dello scontro di civiltà), ancora a distanza di quasi duemilacinquecento anni, tra Atene e Sparta e l’impero persiano. Che poi quarant’anni dopo la vittoria greca sull’impero asiatico, le due città vincitrici si impegnassero in una guerra distruttiva tra di loro, durata quasi trent’anni, per chi dovesse dominare sul Peloponneso è storia che viene tenuta in disparte dalla prima, anche se di grande interesse per chi voglia studiare le contraddizioni e gli interessi che creano alleanza oppure le disfano trasformandole in nuovi fattori di guerra.

David Petraeus (n. 1952), va detto subito, è un ex generale dell’esercito degli Stati Uniti ed ex direttore della CIA (dal settembre 2011 al novembre 2012), e ha guidato i contingenti americani in Iraq (dal febbraio 2007 al settembre 2008) e in Afghanistan (dal luglio 2010 al luglio 2011). Complessivamente ha servito per trentasette anni nelle forze armate statunitensi ed oggi è considerato, a livello internazionale, un esperto di scienza bellica mentre è attualmente Senior Fellow e Lecturer presso l’Università di Yale.

Un curricolo che certo non lo rende appetibile per gran parte dei lettori di Carmilla, ma che pure ne rende interessanti le osservazioni sulle decine di conflitti che hanno insanguinato il mondo dalla guerra di Corea fino all’attuale confronto russo-ucraino, passando per le guerre di decolonizzazione, a quelle in Vietnam, Medio Oriente, Falkland, Iraq e Afganistan. Tutte analizzate dal punto di vista delle scelte strategiche e tattiche e dei conseguenti errori di valutazione oppure di accelerazione in direzione della vittoria o della sconfitta dei protagonisti. Fattori determinati spesso dalle tecnologie e dalle armi a disposizione dei combattenti e, molto spesso, dal morale delle truppe e delle popolazioni coinvolte. Tutte guerre, comunque, in cui la presenza degli interessi statunitensi è passata di volta in volta dal ruolo di semplice giocatore-ombra a quello di protagonista.

L’immagine di copertina, in cui compaiono sia un Kalašnikov Ak-47 che un drone di ultima generazione, riassume abbastanza significativamente le evoluzioni delle tecniche e degli strumenti di distruzione che hanno sempre più caratterizzato i conflitti dalla seconda metà del ‘900 fino ai nostri giorni. Cui andrebbero aggiunti gli strumenti della cosiddetta “guerra ibrida”, basata sull’uso o sul disturbo degli apparati e dei dispositivi elettronici e della rete, affiancati dall’uso del terrorismo diretto e indiretto (il secondo soprattutto su scala mediatica).

Un’evoluzione che, invece di ridurre l’importanza dei soldati sul campo di battaglia, ha fatto sì che gli eserciti abbiano dovuto sviluppare competenze e specializzazioni prima inimmaginabili. Trasformando in potenziale arma letale qualsiasi strumento o competenza dell’agire quotidiano e, contemporaneamente, in potenziale obiettivo militare strategico qualsiasi struttura (reale o virtuale), edificio o attività sociale, di ordine economico, sanitario e logistico. In un gioco al massacro dell’avversario in cui, pur di evitare l’uso dell’arma nucleare che comunque non appare mai esclusa dall’orizzonte della guerra, si amplificano e moltiplicano i danni e le sofferenze portate alle popolazioni civili e ai combattenti coinvolti nei conflitti. Su una scala un tempo impensabile.

L’illusione delle guerre rapide, travestite da operazioni di polizia sostenute da piccoli contingenti militari, come anche l’ultima scatenata da Putin in Ucraina, sembra essere definitivamente tramontata, rivelando che il numero dei soldati impegnati sul campo e nella logistica sia destinato a diventare sempre più grande. Fattore che oggi pesa enormemente non soltanto sulle scelte politiche occidentali nel possibile rilancio e utilizzo degli eserciti di leva1, ma sulla stessa politica militare russa che dei fanti trasformati in carne da cannone fino all’esaurimento delle scorte di munizioni degli avversari ha fatto il suo punto forza fin dal secondo conflitto mondiale.

Quello della crescita numerica degli eserciti, che in un campo di battaglia come quello ucraino si affianca alla necessità di tornare ad attuare nuovamente tattiche ereditate fin dalla prima guerra mondiale (trincee, uso delle forze corazzate su vasta scala, tentativo di dominare i cieli con l’uso dell’aviazione e azioni marittime di varia portata destinate al controllo delle vie d’acqua, dei porti e dei mari) tenendo conto di nuovi e micidiali strumenti (quali droni e missili e bombe capaci di cercare da sé i bersagli) messi a disposizione dalla più recente tecnologia bellica, comprende però anche sempre quello del morale delle truppe.

Tema cui Petraeus dedica molte pagine nel contesto di svariate guerre, sottolineando indirettamente come la rivolta dei soldati sia sempre possibile, come conseguenza delle sempre peggiori condizioni in cui questi vengono a trovarsi durante l’evoluzione dei conflitti e degli strumenti bellici adottati dalle parti in causa. Motivo per cui se lo storico militare Norman Keegan aveva sottolineato come nelle trincee della prima guerra mondiale si fossero realizzate le peggiori e maggiormente paurose condizioni di combattimento e sopravvivenza dei soldati2, fattore inseparabile dagli eventi che portarono alle rivolte nelle trincee del 1917 e alla successiva ondata rivoluzionaria iniziatasi in Russia, ma che oggi vedono un ulteriore peggioramento delle stesse con un aumento repentino dei morti sia militari che civili nei conflitti.

Nel dicembre 2022, sottolinea Petraeus, i membri della 155ma brigata di fanteria navale russa avevano inviato una lettera aperta a Oleg Kožemjako, governatore della regione del Territorio del Litorale, denunciando un’offensiva cui avevano partecipato:

«In conseguenza all’offensiva pianificata “con cura” dai “grandi generali”, i quattro giorni abbiamo perso circa trecento uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre a metà dell’equipaggiamento». Persino inviare una lettera del genere equivaleva ad ammutinamento. In quella fase della guerra, ormai gli ucraini trovavano cadaveri di ufficiali russi cui i loro uomini avevavo sparato alle spalle, pratica che ricordava gli episodi di fragging, cioè l’uccisione intenzionale di un ufficiale, nell’esercito statunitense in Vietnam3

Se Petraeus si sofferma sul dilagare della demoralizzazione tra i soldati, come elemento di difficoltà per l’esercito di Putin, è altresì vero che anche Zelensky ha dovuto fare i conti con lo stesso problema, a partire dal rifiuto, talvolta sostenuto dai civili presenti, all’arruolamento forzato da parte dei giovani e delle giovani ucraine,

Nei soli primi 4 mesi dell’anno, i procuratori ucraini hanno avviato procedimenti penali contro quasi 19mila soldati che hanno abbandonato le loro posizioni o hanno disertato. Lo scrive la Cnn in un servizio dedicato alla situazione delle truppe ucraine sul fronte. «Sono dati impressionanti», commenta l’emittente, diffondendoli. E molto probabilmente incompleti: diversi comandanti hanno infatti dichiarato che molti ufficiali non segnalano le diserzioni e le assenze non autorizzate, sperando di convincere le truppe a rientrare volontariamente, senza incorrere in punizioni. Questo approccio è diventato così comune che l’Ucraina ha cambiato la legge per depenalizzare la diserzione e le assenze senza permesso, se commesse per la prima volta. L’emittente ha parlato con 6 comandanti ed ufficiali che sono ancora o sono stati fino a poco tempo fa sul fronte impegnati a combattere o coordinare le unità dislocate nell’area. Tutti loro hanno parlato di diserzione e insubordinazione come di problemi diffusi, soprattutto tra le reclute4.

Quello delle tecnologie obsolete oppure avanzate è un altro elemento che serve a valutare gli andamenti delle guerre, anche se in determinati contesti, come ad esempio in Afghanistan, tecnologie piuttosto antiquate hanno validamente tenuto testa a quelle più avanzate messe in campo dall’esercito statunitense. Tecnologie, quelle più avanzate in cui intelligence e azioni dei droni servono ad eliminare singoli soggetti (da comandanti di settore oppure generali e dirigenti politico-militari), ma falliscono nel controllo completo del territorio, Che, ancora una volta, può essere tale soltanto mettendo sul terreno, boots on the ground, un numero elevatissimo di soldati con il rischio di perdite enormi e difficilmente sopportabili dalle opinioni pubbliche coinvolte.

Ecco allora che la combinazione di Kalašnikov Ak-47 e droni o aereo a guida remota MQ-I Predator, come quello rappresentato sulla copertina del libro, possono diventare egualmente importanti sul campo di battaglia moderno, finendo anche col limitare l’efficacia delle forze corazzate e della stessa aviazione militare tradizionale.

Per il resto, tecnologie e potenza delle reti in termini di Giga e diffusione, controllo dallo spazio e dall’alto delle mosse del nemico, possono contribuire ulteriormente al successo o meno delle campagne militari. Anche se, in ambienti più ristretti di confronto militare, l’uso dei pizzini da parte dei responsabili politici e militari (Osama Bin Laden o Yahya Sinwar ad esempio) possono mettere al sicuro sia la persone fisiche che le reti di trasmissione degli ordini dei comandanti.

Così un‘eccessiva fiducia nell’uso dei telefonini ha tradito molti generali ed alti ufficiali russi e pure i loro contingenti, esponendoli a micidiali e precisi attacchi, di cui anche la guerra mediorientale è altrettanto stata teatro. Teatri di guerra in cui, per ora, la tecnologia statunitense sembra mantenere ancora una certa superiorità, non comprovata però da effettive conquiste territoriali per le quali sarebbe necessario, lo si ricorda ancora una volta, impiegare un numero enorme di soldati ed aumentare il rischio di un confronto armato con la Russia (o con la Cina).

Per questo motivo il generale americano si sofferma in chiusura sulle possibili evoluzioni delle guerre di domani, in cui il tentativo di evita e confronti di caratter enucleare potrebbe comunque portare a scenari altrettanto paurosi. In cui accanto all’omicidio mirato dei responsabili della ricerca nucleare o tecnologica. Si affianca una maggiore attenzione per la guerra asimmetrica e ibrida.

Citando l’esperto in controinsurrezione David Kilcullen, Petraeus sottolinea ancora come l’azione decisiva possa avvenire altrove, in un ambito che non si considera di guerra guerreggiata:

per mezzo della manipolazione del trasferimento tecnologico, l’influenza della guerra cibernetica esercitata da attori civili, il controllo di risorse minerarie fondamentali5, o l’acquisto di beni immobili strategici. Simultaneamente, ai margini, la Cina6 ha fatto progressi rapidi e significativi in ambiti (come le telecomunicazioni cellulari a 5G, le operazioni cibernetiche , le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, la robotica, il potenziamento dell’azione umana, il calcolo quantistico, la guerra politica genomica e biotecnologica, oltre alla manipolazione finanziaria) che vanno oltre la comprensione di chi in Occidente si occupa di guerra, e quindi trovano scarsa competizione militare diretta7.

Al di là dell’allarme, sicuramente strumentale, lanciato da Kilcullen e sottolineato da Petraeus, di sicuro ed evidente rimane il fatto che ormai nessuna attività di ricerca scientifica e tecnologica, economica o “criminale” sfugge ad una possibile applicazione di stampo bellico. Anche se l’attitudine a tradire anche gli alleati rimane una costante sullo sfondo, come Petraeus dimostra nelle pagine dedicate al conflitto per le isole Falkland tra Gran Bretagna e Argentina, in cui la vittoria del contingente militare aereo-navale inglese, piuttosto ridotto e a migliaia di chilometri di distanza dalla madre patria, fu reso possibile non solo dallo scoramento delle truppe di terra argentine, ma anche, e forse soprattutto, dal contributo e dall’aiuto ricevuto in termini di intelligence e sorveglianza dal cielo con gli aerei Awacs forniti dagli Stati Uniti e dalla loro intelligence. Stati Uniti che pure avevano in precedenza sostenuto il regime sanguinario dei colonnelli argentini, ma che pure preferivano mantenere intatta l’immagine del domino anglo-americano di quella parte del mondo, pur apparentemente così poco importante sotto tutti i punti di vista.

L’impiego di tecnologie avanzate non elimina però ancora la necessità di mantenere un grande numero di uomini e donne sotto le armi, poiché come si sottolinea ancora nel libro:

In modo un po’ paradossale, i sistemi senza pèilota controllati da remoto richiedono una gestione umana significativa. L’aviazione americana valuta che per un’unica orbita senza interruzione di un solo Predator UAV sia necessario un equipaggio di 168 militari addetti all’efficientamento di armi, carburante, riparazioni a terra e n volo verso e dall’obiettivo, oltre che per elaborare, sfruttare, analizzare, immagazzinare e diffonder l’intelligence che raccoglie. Il Reaper 180 e il Global Hawk, veicoli senza pilota più grandi, richiedono ben 300 persone per orbita. «Il primo problema di pilotaggio dell’aeronautica statunitense è di pilotare le nostre piattaforme senza pilota» afferma uno dei suoi generali8.

Si assiste così ad una crescita esponenziale della spesa militare e del personale coinvolto nelle attività militari, magari pur vestendo abiti civili, vista anche l’importanza che cibernetica e IA assumeranno sempre più nella conduzione delle guerre future.

Grazie alla capacità di computer sempre più sofisticati di valutare grandi quantità di dati, è probabile che gli assassinii guidati da intelligenza artificiale diventeranno molto comuni nel corso di questo secolo […] per usare le parole di Henry Kissinger, l’intelligenza artificiale aumenta la facoltà degli stati di «attivare macchine e sistemi che impiegano rapidamente la logica e un comportamento emergente e in sviluppo per attaccare, difendere, controllare e diffondere la disinformazione» ma anche per «individuarsi e neutralizzarsi a vicenda». […] L’AI è già stata utilizzata nella guerra russo-ucraina in vasti settori, come il software per il riconoscimento facciale, l’ottimizzazione delle catene di rifornimento militari e la produzione di video deepfake, e possiamo essere certi che continuerà a progredire in questo e altri campi9.

A delineare e suggerire il panorama futuro più allarmante è stato però Peter Warren Singer che, capacità, autonomie e ee nel suo libro Wired War, ha scritto:

Le guerre del futuro avranno una vasta gamma di robot diversi per misure, design e intelligenza. I piani, le strategie e le tattiche impiegati in questi futuri conflitti saranno costruiti partendo da nuove dottrine che si stanno appena creando e che coinvolgeranno praticamente tutto, dalle ammiraglie robotizzate e gli sciami di droni autonomi a combattenti a tavolino che gestiranno la guerra a distanza […] In queste battaglie le macchine assumeranno ruoli più significativi, non solo eseguendo missioni, ma pianificandole. […] Le nostre creazioni robotiche stanno generando nuove dimensioni e nuove dinamiche per le guerre e le politiche umane che stiamo appena cominciando a immaginare10.

Affermazioni che hanno fatto sì che lo storico militare Max Boot sia giunto a chiedersi se «un giorno le guerre saranno combattute con macchine tipo Terminator?»11, Riflessione che, per chi conosca la saga fantascientifica basata sulla ribellione delle macchine guidate dalla rete Skynet, pur non abolendo la possibilità dell’uso dell’arma nucleare, contribuisce a delineare un futuro sempre più fosco e labirintico per le guerre in corso e a venire e per la specie umana.


  1. Mentre anche per l’arruolamento volontario si parla apertamente di crisi, proprio a partire dagli Stati uniti. Cfr. D. Bartoccini, Gli Stati uniti non trovano soldati. Cosa sta succedendo?, “il Giornale”, 31 agosto 2024.  

  2. N. Keegan, Il volto della battaglia, il Saggiatore, Milano 2005.  

  3. D. Petraeus, A. Roberts, L’arte della guerra contemporanea. Dalla caduta del nazismo al conflitto in Ucraina, UTET 2024, p. 476.  

  4. C. Guasco, Guerra, Ucraina in grave difficoltà: 19mila soldati hanno già disertato (e il morale crolla), “Il Messaggero”, 8 settembre 2024.  

  5. Si pensi soltanto a quello delle “terre rare” di cui la Cina sembra detenere, insieme alla Russia, il monopolio, o quasi.  

  6. Autentica ossessione per la difesa, l’economia e le attività controinsurrezionali statunitensi. 

  7. D. Kilcullen, The Dragon and the Snakes. How the Rest Learned to Fight the West, Oxford University Press, New Yok 2020, p. 29, Ora citato in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., pp. 516-517.  

  8. Ibidem, p. 520.  

  9. Ivi, p. 518.  

  10. P. W. Singer, Wired War. The Robotic Revolution and Conflict in the 21st Century, Penguin, Nee York 2009, p. 430, ora in D. Petraeus, A. Roberts, op. cit., p. 519.  

  11. Cit, in Petraeus, Roberts, op. cit., p.519.