di Franco Pezzini

(qui la prima parte)

Il leoncino d’inverno

Worcester, agosto. “Di Giovanni il Re tra un millennio e più / ancor si parlerà / non certo per le sue virtù / né per la sua bontà…”: niente, questa canzoncina dal Robin Hood di Walt Disney, 1973, continua a tornarmi in mente mentre attraversiamo il vivace centro città pieno di negozi e turisti.

“La mamma ha sempre preferito Riccardo” geme nel cartone animato il principe Giovanni (doppiato in originale da Peter Ustinov), prima di succhiarsi il pollice di fronte al serpentino consigliere Sir Biss (doppiato da Terry-Thomas) e al lupo obeso sceriffo di Nottingham, tra una vessazione e l’altra a una variegata popolazione animale del medioevo britannico. Giovanni vi figura come un leone spelacchiato e privo di criniera, mentre il legittimo re Riccardo Cuordileone ne vanta naturalmente una fluente e un’espressione regale. Siamo un po’ in zona Libro della giungla.

La mamma citata – che non incontriamo – è naturalmente Eleonora d’Aquitania (1122-1204): divertente vedere il cartone di Disney a confronto con il meraviglioso Il leone d’inverno (The Lion in Winter) di Anthony Harvey, 1968, tratto dall’omonima opera teatrale di James Goldman, 1966. Lì lo scambio teso tra il personaggio del titolo, il vitalistico ed egocentrico Enrico II Plantageneto (un grandioso Peter O’Toole), appunto la moglie Eleonora (Katharine Hepburn, realmente regale) e i figli ribelli Riccardo, Goffredo e Giovanni, vedrà uscire lei pienamente vincitrice. Il film, che vanta una sceneggiatura di classe, un’ottima fotografia e un cast scintillante (Anthony Hopkins è Riccardo, futuro Cuordileone, dai rovelli freudiani e dalle tormentate ambiguità sessuali; John Castle è Goffredo; Nigel Terry incarna un Giovanni spiacevole e codardo; Timothy Dalton porta la corona di Filippo Augusto di Francia; l’affascinante Jane Merrow è Alais, amante di Enrico; Nigel Stock è Guglielmo il Maresciallo) mostra tutte le fragilità e le divisioni del casato dei Plantageneti, che avranno conseguenze drammatiche alla malinconica fine del regno di Enrico per esplodere molto più tardi e paradigmaticamente nel sistematico massacro delle Due Rose.

La cultura popolare, tramite le riscritture della storia di Robin Hood (ma anche nell’Ivanhoe di Scott), ci ha abituati a contrapporre al buon re Riccardo il cattivo Giovanni. Ma da un lato non c’è alcuna certezza che Robin Hood sia mai vissuto (cfr. qui e qui) e comunque se vada collocato tra i regni di Riccardo (1189-1199) e Giovanni (1199-1216), e non per esempio sotto Edoardo I (1272-1307) come in effetti emergerebbe da una delle ballate; e d’altro canto un’ampia rilettura ha riguardato le figure dei due re, buono e cattivo. Sicuramente cavalleresco e gran guerriero il primo, ma Cuordileone anche in tutti i sensi più spiacevoli: feroce per indole, brutale antisemita, pronto a tradire il proprio padre… Memorabile il ritratto febbricitante – a suo modo cavalleresco ma ottuso, crudele e avido – che ne offre Richard Harris nel bellissimo, malinconico Robin e Marian (Robin and Marian) di Richard Lester, 1976: dove a interpretare un Robin Hood maturo e crepuscolare è nientemeno che Sean Connery. Che sarà interprete dello stesso Riccardo nel deludente Robin Hood – Principe dei ladri (Robin Hood: Prince of Thieves) di Kevin Reynolds, 1991: quasi a ricordare ai vari pallidi Kevin Costner & Co., che il vero Robin Hood resta lui.

Mentre il malfamato Giovanni – che si era fatto strada verso la corona alla morte (precoce e di causa discussa) di un altro personaggino inquieto, il fratello ribelle e irreligioso Goffredo – vanta, pare, qualche virtù non disprezzabile. Per esempio è un uomo di cultura: ama musica e letteratura, istituisce una biblioteca. Sa essere – quando vuole – umanamente simpatico. Ma soprattutto risulterà alla fine il portatore, sia pure non spontaneo, di uno dei primissimi e importanti esempi di carta costituzionale, la Magna Carta del 1215. Oltre a prefigurare negli scontri con la Chiesa – per tutto un filone anticattolico culminato nel The Life and Death of King John di Shakespeare (1587-1598) – se non proprio un proto-protestante, almeno una sorta di nevrotico anticipatore dello scisma anglicano.

Poi certo, dell’uomo Giovanni normalmente non si parla bene. Destinato forse in origine alla carriera ecclesiastica, si troverà insieme danneggiato (sul piano psicologico) e favorito (su quello della carriera) dalle cospirazioni incrociate nell’ambito della sua irrequieta famiglia. Non è un gigante (m. 1,68 di altezza), ma un fisico robusto poi ingrossato (“corpo potente, un torace a botte”) e di pelo rosso scuro, anche se diverrà calvo con gli anni: più il Paul Giamatti di Ironclad (2011) che lo Ian Holm di Robin e Marian. Quanto al suo viso, è ovale con gli occhi a mandorla e bocca sensuale, se le descrizioni d’epoca non peccano di manierismo nel descrivere un bon vivant amante dell’ozio, della tavola, del sesso (due mogli, una pletora di amanti) e della buona compagnia. Gli piace il gioco d’azzardo (specialmente il backgammon), è un gran cacciatore, sviluppa una competenza in materia di pietre preziose di cui si procura una bella collezione, ama sfoggiare abiti vistosi e frequenterebbe il vino anche di cattiva qualità. Talora presentato come brillante, spiritoso, generoso, ospitale, sembra mostrare in altri momenti tratti da nevrotico ipersensibile, geloso e soggetto a crisi di rabbia. È un melanconico capace di alternare a cupe apatie accessi di esaltazione sopra le righe: astuto, tecnicamente preparato sul piano giuridico ed economico, risulta però disastroso nei rapporti umani, ai vari livelli a cui deve coltivarli. Ma diciamo che in casa plantageneta non alberga Maria Montessori.

Prediletto dal padre, dopo la guerra tra Enrico e Riccardo – subentrato al primo sul trono – riceve dal fratello vincitore una serie di benefici rilasciando promesse tranquillizzanti: per tre anni sarebbe rimasto fuori dall’Inghilterra. Ma poi invece eccolo tornare sull’isola, soppiantare gli incaricati di Riccardo partito per la crociata e cercare di assicurarsi il trono con la falsa notizia della morte di lui, in realtà prigioniero del duca d’Austria. Tutto questo lo sa chiunque abbia frequentato le storie di Robin Hood.

Giovanni insomma come furbetto del quartierino, a dirla alla moderna. Fuggito in Francia senza attendere il ritorno dell’indignato Cuordileone che lo disereda e gli confisca i beni, riesce però a succedergli quando il celebrato fratello si fa ammazzare banalmente sotto le mura di un castello francese. In scontro con l’erede del defunto fratello Goffredo, Arturo I di Bretagna, non trova di meglio che farlo sparire (pare in realtà che, ebrius et daemonio plenus, lo assassini di persona: quanto a una dama che anni dopo lo accuserà dell’omicidio, Giovanni la lascerà morire di fame col figlio nel castello di Windsor). Persi parte dei domini francesi, tutela le comunità ebraiche, imponendo però loro tassazioni esosissime; si scontra con il papa finendo umiliato; trova accordi sui fronti di Scozia e Galles, ma viene sconfitto in Francia, e costretto dai baroni a firmare la Magna carta – poi annullata con bolla pontificia da Innocenzo III per i legami un po’ equivoci tra sovranità del sovrano e della Chiesa – vede i ribelli offrire il trono al figlio di Filippo Augusto di Francia, Luigi poi VIII di Francia detto il Leone (in una storia dove i leoni si sprecano). Questi sbarca, viene incoronato a Londra: così Giovanni cerca di reagire, facendo tesoro delle titubanze dell’avversario, ma nell’ottobre 1816, in piena guerra coi baroni, mentre si trova al castello di Newark, nello stesso Nottinghamshire di Robin Hood, a stroncarlo è infine una brutta dissenteria. Una morte triste (“le tristi storie delle morti dei re”) e miserabile, nella solitudine delle proprie feci. Per inciso anche Luigi il Leone morirà di dissenteria, ma in Francia, nel 1226.

Comunque sulle tracce di Giovanni mi trovo qui a Worcester (città graziosa, vivace – immagino – soprattutto d’estate), per visitarne la tomba nella cattedrale: una tomba un tantino agitata, il che giustifica l’indagine. Come sintetizza un testo vittoriano, Curiosities of Indo European Tradition And Folk-lore di Walter K. Kelly (1863),

 

Si dice che il re Giovanni d’Inghilterra sia andato in giro come un lupo mannaro dopo la sua morte. Un’antica cronaca normanna afferma che i monaci di Worcester furono costretti dagli spaventosi rumori provenienti dalla sua tomba, a dissotterrare il suo corpo e gettarlo fuori dalla terra consacrata. “Così il fosco presagio del suo soprannome Senza Terra si realizzò completamente, poiché perse durante la propria vita quasi tutti i domini sotto la sua sovranità, e anche dopo la morte non poté mantenere il pacifico possesso della sua tomba”.

 

Arrivando all’edificio sacro, mi sembra di essere uno di quegli eruditi di Montague Rhodes James che in grazia dei loro interessi per antiche cappellanie e tombe sfuggite finiscono col cacciarsi nei guai. Apprendo che la cattedrale è aperta quel giorno solo fino alle 13 (non contavo di visitarla la notte), ma constato con preoccupazione che in un’ampia parte resta occupata per l’organizzazione di un concerto. Molto bello, ma non sono lì per quello. Con sollievo, mi sento però rispondere che la tomba di Giovanni è nella parte libera, e vi punto direttamente. Trovandomi, con un velo di commozione, al cospetto di un personaggio che mi insegue fin da bambino.

La leggenda che il lussurioso e infido Giovanni possa essersi infine mutato in lupo è stato collegata con un dato specifico della sua carriera, la signoria sull’Irlanda e il soggiorno – peraltro non felice – sull’isola. In Irlanda leggende piuttosto radicate considerano lupi mannari tutti i discendenti dei pagani di Ossory colpiti dall’apposita maledizione di san Patrizio e del santo abate Natalis: il birichino Giovanni che probabilmente rimorchiava signorine locali avrebbe insomma avuto ampio modo di farsi infettare – e questo, a detta dei beninformati, potrebbe spiegare alcune caratteristiche del suo profilo. Ma la leggenda parla di una mutazione in lupo dopo la morte, con conseguenti uscite in pelliccia dalla tomba, in un edificio sacro dove per inciso si commemora il ricordo di San (guarda caso) Wulfstan, vescovo della città. D’altra parte lupi (e leoni, e lonze per sovrapprezzo) fanno parte, ci insegna il padre Dante, del triste bestiario delle anime sgarrupate.

Che secondo vox populi alcune figure particolarmente odiate conoscessero una simile metamorfosi post mortem è documentato da occorrenze anche più recenti: l’odiato Michael Leicht, borgomastro di Ansbach in Media Franconia, nel 1685, sarebbe similmente uscito dalla tomba terrorizzando la cittadinanza in forma di lupo – e in prosieguo si proporrà di vedere in questi revenant-lupi altrettanti vampiri (o piuttosto sanguisugae o bloodsucker, creature pre-vampyr del medioevo inglese). In realtà non occorre, come attestano antiche testimonianze di nessi tra il lupo – animale infero associato agli dei d’oltretomba, che bazzica per cimiteri e sbrana cadaveri malamente tumulati – e il corpo morto: la trasformazione in un lupo che salta fuori dalla tomba, attestano leggende altomedievali, interesserebbe già l’eretico Pietro capo dei Fundagiagiti (metà V sec.) di ambito bogomilo. Del resto il nesso tra canide – già compagno della pre-Ecate neolitica – e cadavere si riscontra anche in senso opposto, del dormire più pacificamente: del famoso pirata Khayr al-Dīn Barbarossa, morto di febbre gialla nel 1546, si racconta che tornasse fuori a più riprese dalla sua tomba presso Istanbul, “finché uno stregone non trovò il rimedio, facendolo sotterrare in compagnia di un cane nero” evidentemente psicopompo (Vezio Melegari, Pirati, corsari e filibustieri, 1964). In fondo Cerbero – ipostasi della pluralità uggiolante dei cani della dea – non era deputato a impedire l’ingresso, quanto la fuga dei morti: ma quel che rileva è anzitutto la costellazione mitica, non tanto come i singoli elementi vengono gestiti.

Ci si può immaginare che dopo l’ennesimo evento spiacevole nella cattedrale (a parte gli “spaventosi rumori”, quante comparsate del lupo ci sarebbero state?), il successore Enrico III – sul trono 1216-1272, che dovrà fronteggiare i soliti baroni, i Francesi, i Gallesi, per sovrapprezzo i Mori in Terrasanta, ma era un tipo tranquillo, d’animo semplice e amante delle belle arti – avrà pensato qualcosa come “oh, no, di nuovo papà…”. Ma in fondo lo sapeva: apparteneva anche lui ai Plantageneti (da planta genistae, la pianta di ginestra), la stirpe del diavolo in cui i figli tradivano i padri, questi li combattevano e poi gli uni e gli altri morivano male. In fondo lo sapeva: ma a lui, tranquillo e bonario, andò meglio, perché anche un destino non è mai ferreamente fissato. Si guadagnerà persino un ruolo nel Purgatorio dantesco.

Mentre suo padre… beh, abbiamo visto come la vecchia leggenda e il profilo del cattivaccio permettano di recuperare un lascito assai arcaico, sepolto al fondo della nostra cultura: e se non è il sepolcro che ho davanti, massiccio e chiuso, la tomba da cui un lupo potesse uscirsene (possiamo immaginare si trattasse di una prima sepoltura non ancora definitiva, poco dopo la tumulazione) fa un certo effetto la vertigine di tempo, credenze e paure che esala da un monumento del genere. In una cattedrale peraltro di grande bellezza e dal sentore di pace. Riposa, Giovanni.

[2-continua]