di Chiara de Stefano

Non l’aveva mai detto a nessuno, ma esclusi i matrimoni, le comunioni e le festività, la donna aveva stabilito un codice cromatico per decidere cosa avrebbe fatto quel giorno. Se vestiva d’ocra o verde significava che sarebbe rimasta a casa: c’era sempre qualcosa da fare in quel formicaio di pietra; se invece indossava l’azzurro o il rosso sarebbe uscita per solo un’ora: la spesa doveva pur trascinarla qualcuno. Così quella mattina aprì, come sempre, il covo di vipere davanti al letto. I serpenti di cotone, riposti uno accanto all’altro, erano stipati come cadaveri. Prese un abito color pitone e andò in bagno. Prima di chiudere la porta davanti a sé, fissò l’uomo nel suo letto, ancora prigioniero dei dolci demoni del sonno. Accese la luce e vide la sua immagine riflessa nello specchio. Appoggiò il dito su quel vetro algido e iniziò a tracciare i contorni del viso. Al suo flebile  tocco, lasciava dietro un’impronta opaca di pelle e sudore. Così si vide prima nella cornice di carne trasparente e poi in quella di ossa inverse. Poi prese la cuffia per la doccia e se la mise intorno  al volto. Si vestì mentre sentiva l’aria mancarle e si tolse quel velo di plastica solo quando vide la sua faccia diventare di un rosa che si vede solo nei giocattoli per bambine.

Sputò nel lavandino, attese qualche istante e aprì la porta.

Buongiorno, le disse l’uomo, sei già sveglia. Sì, rispose, credo proprio che oggi rimarrò a casa.

Lui aprì le tende e si avvicinò alla donna. L’iridescenza del mattino, nella sua diafana deformità, bruciava le loro squame. I drappi ruvidi sporgevano dietro di loro e la stoffa delle loro labbra si sfregò in una corda avvitata di baci. Poi l’uomo le disse che se non fosse andato via, avrebbe fatto tardi al lavoro e fece per avvicinarsi alla porta. Lei indugiò, chiedendogli di aspettare e poi frugò nell’armadio come un ladro cieco. Prese due cravatte, una azzurra e una rossa e gliele porse, invitandolo a scegliere. Lui la guardò negli occhi perforandole il cranio, prese quella azzurra, a detta sua, in tinta col suo abito e la indossò. Ti ho sposato anche perché hai buon gusto. E poi quelle tue guance rosa, mi fanno impazzire! Senza pensarci, lei si toccò la fede, le fece fare un giro su se stessa con il pollice e gli sorrise senza alcuna sporgenza canina. Lui non la vide nemmeno, perché si era già precipitato per le scale, poi disse che l’amava e chiuse la porta dietro di sé. La donna rimase per qualche istante a fissare la porta dalle fattezze sepolcrali. Si schiuse dalla pietra e portò il suo becco iridato di rosso e di fragole verso la finestra sul giardino.

Erano sposati da dieci anni, ma nessun frutto aveva saputo germogliare nel suo ventre senza marcire o farsi divorare dai vermi. La donna antropofaga fissò il marito dietro la tenda, lo vide sfilarsi la cravatta con un’espressione di disgusto e  gettarla nella borsa che aveva intorno al collo. L’uomo era un vento perpetuo e i suoi operai, che lo stavano aspettando, degli arbusti selvatici da sradicare al bisogno. Non c’era corda che suonasse la sua aria. Le membra della donna andavano avanti e indietro, come merci su un nastro destinate al consumo. L’amore, sempre irrequieto, si guarda intorno senza trovare mai niente, dà per avere finché vede che può avere di più.

Seguì con lo sguardo l’auto dell’uomo che divenne una pallottola e sparì dietro al sentiero. Presto sarebbe stato compresso sul viso dei suoi dipendenti, già piegati dai desideri di gente come lui. Bisognava riempire quelle tiepide case pastello di oggetti indispensabili, come statuette di ceramica da riporre sui caminetti.

La donna piegò le sue zampe da gazzella e si accasciò sulla poltrona scarlatta. Sollevò un tiepido grido che soffocò tra le assi lucide del pavimento. Davanti a lei, solo un televisore, regalo di nozze di sua madre. Esitò ad accenderlo. La vanità le fece guardare il suo riflesso deforme in quello specchio grigio.

Prese il cuscino dietro la schiena e se lo portò al viso, facendosi divorare da quel velluto con le fauci. Novantotto, novantanove, cento… contò e poi lo tolse via. Si specchiò di nuovo e si vide dello stesso colore della poltrona. Se stessimo tutti in apnea, nessuno potrebbe più parlare. Provava un ridicolo vezzo a svegliare quella bestia carnicina a comando. Se ne stava lì, ripiegata su se stessa come un gomitolo lanoso di budella avvinghiata agli stinchi, sempre pronta a salire e a battere mille cucchiai d’argento sul suo volto di aghi e spine. Col viso ancora traforato e il fiato corto, prese il telecomando e accese la tv. Il suo riflesso era svanito per dare spazio ad una pubblicità di materassi dai contorni verdi e la scritta OFFERTA a caratteri cubitali. C’era un uomo di mezza età in giacca e cravatta che indicava un letto e una ragazza in lingerie che fingeva di dormirci sopra. Lesse in alto a destra che a breve  sarebbe iniziato un film, quindi non cambiò canale. Dietro di lei, un piccolo insetto intraprendeva la sua lunga marcia sull’insormontabile collina che era la spalla della donna. Le cadde il telecomando e si chinò per recuperarlo. Nel frattempo, sullo schermo, era comparso uno scarafaggio dalle lunghe antenne e dalle vertebre incassate come bare dopo una strage.

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Si rialzò e si rimise comoda. L’insetto cadde sul tappeto senza alcun rumore.

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All’improvviso, la chioma della donna si scompigliò e le si rizzò in testa. Pareva un’antenna senza cavi. Sentì il capo lievitare e spingere verso l’alto, le ciocche cadere a terra in morbide masse sabbiose.

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Le sue zanne fuoriuscirono dal palato e le bucarono il mento, mentre la saliva le scorreva agli angoli delle labbra e si impastava col rossetto.

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Il suo braccio diafano fece un giro di trecentosessanta gradi e atterrò con il palmo della mano sulla gamba che nel frattempo si era squarciata come un cielo estivo ad un temporale improvviso. Le dita pescarono nella carne lacerata e le unghie si spezzarono nelle vene aperte, rimanendovi impigliate. Quelle terminazioni viola sembravano delle cassette delle lettere traboccanti di angoli di carta. La spalla le si accartocciò e le cadde nella cassa toracica. Sentì il tonfo delle ossa e il respiro che si faceva sempre più corto. Avrebbe voluto ammirarsi il viso roseo.

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Dei grappoli di plasma vermiglio le pendevano dagli occhi e le mandarono le palpebre all’indietro.

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Il vestito, ormai intriso di sangue, perse il suo color pitone.

La donna non riuscì a cambiare canale, ma aveva un vestito rosso adesso. Fece per uscire. Aveva una certa fame.