di Gioacchino Toni

Di Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg ci si è già occupati su “Carmilla”; le riflessioni che seguono si focalizzano sul ruolo assegnato all’arte performativa sul corpo in un’opera che, rispetto ad altre del regista, mostra uno scenario in cui la mutazione è già in corso e non è stata innescata da un evento specifico, solitamente, nei film del canadese, riconducibile a qualche esperimento medico-scientifico, bensì viene presentata come il risultato di un lungo processo di artificializzazione dell’essere umano e dell’intero Pianeta.

A confrontarsi con la mutazione, in questo caso, non è l’ambito scientifico, bensì l’arte performativa sul corpo destinata a rivelare la sua sostanziale impotenza. Il mondo prospettato dal film si è privato dell’esperienza del dolore ma, lungi dal trovare soddisfacente questo stato di anestetizzazione fisica e mentale, gli esseri umani sembrano volerne riconquistarne l’esperienza in forma spettacolarizzata, mettendola letteralmente in scena attraverso pratiche artistiche performative, così da poterne trarre godimento.

“La chirurgia è il nuovo sesso”, viene più volte sostenuto nel film, ed è attraverso l’azione spettacolarizzata del bisturi che i personaggi intendono godere di quella “bellezza interiore” a cui già aveva fatto esplicito riferimento Inseparabili (Dead Ringers, 1988). La chirurgia diviene dunque un gesto artistico attraverso cui esporre allo sguardo le viscere del corpo aperto, una sorta di proiezione nel futuro dello spettacolo del teatro anatomico europeo inaugurato nel XVI secolo alla luce di quel che è, nel frattempo, divenuto il corpo umano.

Nonostante l’insistenza con cui i monitor che contornano le performance dichiarano che “il corpo è realtà”, l’evento, nella sua cruda fisicità, viene morbosamente ripreso dal pubblico che vi assiste attraverso strumenti digitali rafforzandone la spettacolarizzazione e suggerendo, inoltre, come anche la carne viva lacerata e sanguinolenta ormai necessiti di una qualche forma di mediazione digitale per ottenere il suo statuto di realtà. L’atto fisico, insomma, palesa la sua insufficienza in un mondo ipertrofico mediatizzato da tempo abituato a cercare il suo statuto di realtà nell’immagine.

Nonostante il suo agire sul corpo, l’esperienza artistica mediatizzata raggela e diserotizza l’esperienza sensibile in favore del simulacro. Nel momento in cui l’esperienza dell’artificiale tende a farsi egemone, sostituendo quella del concreto naturale, l’arte sembra proporre una nuova possibilità di godere dei segni ricostituendo le condizioni dell’esperienza erotica nel mondo simulato. I tatuaggi che riscrivevano l’epidermide, e con essa l’identità, dei protagonisti di La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007), qua impattano le viscere e l’estasi procurata della sigaretta spenta sul petto in Videodrome (1983) e dagli incidenti stradali in Crash (1996), pare essersi evoluta nel piacere alienato e masochista del “nuovo sesso” chirurgico.

Le pratiche artistiche che Cronenberg prospetta per il futuro distopico del film si inseriscono all’interno di un processo che, in Occidente, ha preso il via sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, quando, in un contesto percepito come sempre più omologante, impositivo e desesibilizzante, all’interno di un generale moto di ribellione si sono sviluppate pratiche artistiche performative incentrare sul corpo e votate all’autodeterminazione e alla denuncia dello stato di assuefazione alla sofferenza.

Si può dire che la pratica artistica performativa sul corpo che Cronenberg proietta nel futuro abbia conosciuto alcuni momenti storici principali, per quanto dai confini sfumati1.

Un primo momento, che può essere definito di riappropriazione, proprio degli anni Sessanta, in cui la performance sul corpo è intesa come atto liberatorio nei confronti delle imposizioni sociali, di riconquista di un rapporto libero con la propria fisicità.

Un secondo momento, decisamente più nichilista, tendente a mettere in scena quell’idea disperata di mancanza di futuro propria della fine degli anni Settanta, per cui le azioni sul corpo assumono tratti autolesionisti attraverso cui diversi performer intendono scuotere un’opinione pubblica anestetizzata dal filtro addomesticante dei mass media.

Un terzo momento, che contraddistingue gli ultimi decenni del Novecento, in cui i performer agiscono sul corpo piegando la mutazione ai loro desideri, dunque appropriandosene.

Un quarto momento, che prende il via con il nuovo Millennio, in uno scenario caratterizzato da un’evoluzione tecnologica e da un importante mutamento di immaginario, in cui l’arte performativa si trova a fare i conti con la compresenza di due distinte tipologie di corpo. Un corpo glorioso, soprattutto, sebbene non solo, occidentale, esposto e vetrinizzato – rimodellato, tra le altre cose, da oltre venti milioni di interventi di chirurgia estetica all’anno – in cui, paradossalmente, il desiderio di individualità tende a trasformarsi in patetica replica del modello di riferimento, ed uno fragile, reso invisibile, nascosto e affogato nell’indistinzione di una massa di migranti, esuli, profughi, bombardati, infettati, sottoproletari delle periferie urbane e del mondo, una massa indistinta e priva di ogni forma di individualità, un plurale che non ha più l’uno come unità di misura, una massa asoggettuale, oncologica, priva di volontà, scopo e interesse, se non di contagiare gli umani viventi, i soggetti, le individualità autocoscienti capaci di autorappresentarsi2.

Negli anni Ottanta e Novanta la pratica performativa, anziché combattere i mutamenti del corpo imposti dalla civiltà contemporanea, sembrerebbe accettare la sfida della mutazione agendo sulla carne al di fuori dei canoni estetici normativi, ricorrendo alle nuove tecnologie come a strumenti di liberazione contro l’idea che esista un ideale corpo perfetto e prestazionale a cui uniformarsi. Il corpo del performer non è più soltanto elemento di scandalo e nemmeno di recupero di un antico stato di natura andato perduto, ma diviene, piuttosto, un corpo sottoposto ad una mutazione autodetermianta, ribelle ai limiti che la cultura gli impone, un corpo dunque modificabile a piacimento in ossequio a un’identità altrettanto mutante del soggetto: agire sul corpo diviene un tutt’uno con l’agire sull’identità, sulla sua mutevolezza.

I primi decenni del nuovo millennio, caratterizzati come sono dalla svolta social-digitale tecno-neoliberista, vedono un corpo sempre più derealizzato, ridotto a riflesso spettacolarizzato sugli schermi o rimosso nell’indistinzione massificata dei soccombenti. Un corpo sempre più preso, anche sotto un’inedita ed insistita spinta mediatica, dall’ossessione per l’identità sessuale su cui hanno indubbiamente un peso importante le nuove tecnologie della visione e della comunicazione nel loro permettere uno sguardo e un immaginario sul proprio corpo distaccati, esterni, in terza persona3. In una realtà in cui reale e immaginario si ibridano producendo incessantemente nuove identità di cui è sempre più difficile avere il controllo, in cui percependosi alla deriva senza salvagente facilmente si reagisce scompostamente aggrappandosi ad identitarismi anacronistici e disfunzionali4, l’arte, anche la più radicale, fatica a ritagliarsi spazi di reale autonomia liberatoria.

Le pratiche performative messe in scena nel film si inseriscono, dunque, nel solco delle eterogenee sperimentazioni inaugurate da artisti come Gina Pane, Vito Acconci, Chris Burden e dal gruppo dei Wiener Aktionismus, sviluppate, successivamente, da performer come Orlan, Marcel.Lì Antúnez Roca e Stelarc. In Crimes ot the Future sono diversi i riferimenti a questi artisti: a Stelarc, che a partire da metà degli anni Novanta ha lavorato all’impianto su un braccio di un terzo orecchio realizzato con materiale biocompatibile in uso nella chirurgia plastica e vascolarizzato con i suoi tessuti e vasi sanguigni, si richiama il performer del film dal corpo disseminato di orecchi che, con bocca ed occhi serrati da punti di sutura, invita il suo pubblico a smettere di guardare e parlare per concentrarsi piuttosto sull’ascolto; ad Orlan rinviano le istallazioni sottocutanee che increspano e rimodellano la fronte di Caprice (Léa Seydoux) e, soprattutto, l’idea di rendere pubblico l’intervento chirurgico sul corpo nel suo svolgersi; il sodalizio tra Saul e Caprice, inoltre, richiama quello di celebri coppie di performer come Marina Abramović/Ulay e Sheree Rose/Bob Flanagan.

Nell’azione autodeterminata sul corpo non finalizzata al suo adeguamento a qualche modello di bellezza ma ad assecondare la mutazione, bella o brutta, mortifera o vitale che sia, è possibile cogliere un tentativo di sopperire all’impotenza dell’umano nei confronti della trasformazione che sente gravare sul corpo e sull’identità. L’arte, però, pare suggerire il film, sembra ormai offrire un riscatto meramente palliativo da quella deriva a cui la tecnoscienza moderna inestricabilmente legata allo sfruttamento umano e della natura ha condotto il mondo. In fin dei conti, l’arte, al pari dei film del resto, in un tale contesto non può che concorrere a quel processo di spettacolarizzazione dalle cui immagini mistificanti invita a trarre voyeuristico appagamento.

I nuovi organi prodotti dal corpo di Saul Tenser (Viggo Mortensen) potrebbero rivelarsi ostili al corpo umano conosciuto a causa delle accelerazioni evolutive inedite e incontrollabili che determinano, se da un lato questi nuovi organi vengono sottoposti al controllo biopolitico della catalogazione archivistica del National Organ Registry come forma di disciplinamento per eccellenza, dall’altro vengono convertiti a spettacolarizzata forma d’arte attraverso pubbliche performance di artisti come Saul e Caprice: due diverse modalità per esorcizzare ciò che non si conosce, che in questo caso significa sé stessi, in balia, come si è, di una mutazione in atto nei cui confronti si è di fatto sostanzialmente impotenti.

Se l’armamentario tecnologico, con tutta la sua inquietante utensileria chirurgica, così come i corpi dilaniati da esso derivati o permessi presentati da Crimes of the Future sono già in buona parte apparsi in opere predenti di Cronenberg, in quest’ultimo film il canadese sembra voler insistere sulla strada tracciata da Crash nel mostrare lo stato di sostanziale impotenza con cui i personaggi si confrontano con la mutazione, giungendo a suggerirci un futuro in cui, insieme al dolore, è ormai scomparsa anche la paura per la deriva a cui gli individui sembrano destinati.

Il film si apre con l’omicidio di un bambino, Brecken (Sotiris Siozos), “Il primo a essere naturalmente innaturale”, e si conclude con la sua autopsia ridotta a spettacolo, sancendo così una sostanziale equivalenza tra la volontà chi intende porre fine ad un futuro orientato all’artificializzazione dell’umano, come la madre Djuna (Lihi Kornowski) – “Nel mio utero avevo una cosa, non un figlio” –, e quella di chi accetta il processo, come il padre, Lang Dotrice (Scott Speedman) che fa parte di un’organizzazione composta da esseri umani mutati tenuti a nutrirsi di plastica, del materiale simbolo di quel consumismo smodato incurante delle scorie tossiche lasciate dietro di sé che ha letteralmente cambiato il mondo e con esso gli umani. Il figlioletto, nato già del tutto mutato, apre la strada a una nuova generazione di esseri dotati della Nuova Carne. In fin dei conti, ad accettare la mutazione è la stessa coppia di performer che cerca in essa un ultimo simulacro di godimento, in un contesto di generale infelicità in cui davvero nulla sembra più aver senso.

Saul, dall’espressione e dal corpo esausti come il mondo in cui vive, è mostrato come personaggio liminale, infiltrato per conto degli apparati di potere che tentano di esercitare, senza nemmeno crederci troppo, un controllo biopolitico sull’umanità e al tempo stesso agente di quel mondo che dovrebbe sorvegliare, nel tentativo di “disegnare la mappa del caos interiore”, sospeso tra l’asportazione dei nuovi organi che produce, salvaguardando uno status di umanità che non vuole abbandonare, e l’accettazione della mutazione, della Nuova Carne definitivamente ibridata con l’artificiale.

Se il corpo viene inteso come disperata realtà ultima a cui aggrapparsi, esso è ormai una realtà incredibilmente distante dalla natura umana premoderna; su di esso si sono accumulati secoli di artificializzazione, gli organi non umani che in esso compaiono derivano da un’era che si è consegnata ad un’idea di sviluppo tecno-scientifico governata dal più cieco e cinico sfruttamento umano e naturale, condotto come se non ci dovesse essere un domani.

Saul è costretto a ricorrere ad una sedia-protesi dalle inquietanti fattezze scheletriche per poter deglutire il cibo, passa le notti in un particolare giaciglio capace di captarne e regolare i dolori che ancora prova. Il suo corpo sembra essere un ultimo presidio del sentire in un mondo in cui il corpo non ha più significato, svuotato come è del senso dell’umano. Nelle ultime sequenze, il protagonista compie un gesto potenzialmente sacrificale: decide di cibarsi di una sintetica “candy bar” nella consapevolezza che questa può condurre alla morte nel caso non abbia sviluppato un adatto sistema digestivo.

L’occhio dello strumento di ripresa che Caprice porta al dito di una mano osserva voyeuristicamente l’atto con cui Saul accetta di verificare fino a che punto la mutazione ha agito sul suo corpo confrontandosi così con essa, anziché rimuoverla come ha fatto fino a quel momento. L’assunzione della barretta sintetica determina la sospensione dei movimenti della sedia, sino ad allora necessari per deglutire il cibo, segnalando dunque la compatibilità del suo apparato digerente con il cibo artificiale. Nell’immagine, divenuta in bianco e nero, di questo ultimo atto, Saul guarda in macchina mentre una lacrima gli solca il viso suggerendo la presenza in lui di un barlume di umanità insieme alla presa d’atto dello stato di impotenza a cui è giunto.

Per quanto si manifestino nel futuro, i crimini a cui sembra alludere il film si sono computi nel passato e ormai non resta che prenderne atto. I crimini contro l’umanità si sono compiuti. L’umanità è inesorabilmente e definitivamente compromessa, condannata. It’s the capitalism baby, the capitalism… and there’s nothing you can do about it. Nothing!


Processi di ibridazione serie completa


  1. Cfr.: Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Genova, 1996; id. Slittamenti della performance, Volume 1, anni 1960-2000, Postmedia books, Milano, 2020; Francesca Alfano Miglietti (FAM), Identità Mutanti. Contaminazioni tra corpi e macchine, carne e tecnologia nelle arti contemporanee, shake edizioni, Milano, 2023. 

  2. Sulla rappresentazione metaforica nella figura dello Zombie di tale massa indistinta si veda in particolare Rocco Ronchi, Zombie outbreak, La filosofia e i morti-viventi, Textus, L’Aquila, 2015 [su “Carmilla” 1 e 2]. Sulle modalità con cui le immagini massmediatiche di migranti e terroristi contribuiscano a rafforzare paura e terrore non di rado attingendo da un’iconografia del contagio e da un immaginario epidemiologico costruito sulle figure dello zombie e del clone si veda, ad esempio,  Massimiliano Coviello e Giacomo Tagliani, Le intensità variabili del terrore: migranti e terroristi nel mediascape contemporaneo, in “Fata Morgana”, n. 38, 2018 [su “Carmilla”]

  3. Cfr. Francesca Alfano Miglietti (FAM), Identità Mutanti. cit. 

  4. Franco Bifo Berardi, Mutazione e cyberpunk. Immaginazione e tecnologia, Rogas, Roma, 2019 (Prima edizione Costa & Nolan, Genova, 1993.