di Luca Baiada

Comincia con la prostituzione e finisce con l’ubriachezza, la fantasia di sangue, l’incoscienza. In mezzo ci sono un negoziante bigotto, una suicida che non ha mai fatto altro che suicidarsi e una tirannicida che ha buone ragioni. Ma anche un opportunista e una fioraia sfinita, un pittore e un operaio. Le donne muoiono o sono morenti o sfatte; gli uomini sono inetti o repellenti. Tutti, tranne l’artista Roux, un malato col coraggio del desiderio.

Un personaggio è assente, presupposto; fa parlare di sé senza comparire: Carlo Stevo, scrittore antifascista. Che tipo di intellettuale immaginava, Marguerite Yourcenar? Sentiva già sotto le dita l’Opera al nero? L’assenza di Stevo mi spinge a spiegarmi, a mostrare il mio biglietto d’ingresso.

Il romanzo è Moneta del sogno (Denier du Rêve), pubblicato nel 1934 e riscritto nel 1958-1959[1]. La riscrittura è un enigma. C’è una prefazione dell’autrice, nel 1959, e non si sa se voglia spiegare o depistare. Per giustificarsi, per costruire l’unico alibi possibile: quello concesso a chi scrive.

Arrivo al libro sapendo che parla di Matteotti, poi scopro che anche questa è un’assenza: Matteotti, come Mussolini, non è mai nominato. Un cenno all’assassinio del socialista è sulla bocca più disgustosa, quella di una spia. I nomi del tiranno e del suo irriducibile avversario non ci sono, ma su tutta la storia incombe il clima fetido della capitale negli anni stabili della dittatura. Nel 1959 qualcosa di quel clima è ancora lì, in Italia, e si vedrà nel gabinetto Tambroni. Ma è nel 1933, l’anno di Hitler, che il fascismo galleggia denso, prima delle avventure. Le colonne della società sono lì da anni: leggi fascistissime e Concordato.

Faccio fatica, a leggere Moneta del sogno. Non capisco, mi turba. L’intreccio mi sgomenta, i salti temporali mi indispettiscono, mi sento di colpo afflitto da analfabetismo mentale. Anche quell’Italia pittoresca e arcaica, vista nel suo lato meschino, rancoroso, putrefatto, mi disturba. Mi fa l’effetto di un disvelamento previsto. Come quando sentiamo raccontare un segreto che conoscevamo già; solo, non volevamo fosse detto a voce alta.

In parte l’autrice ammette l’ambiguità, quando nella prefazione dichiara l’intenzione di «scegliere personaggi che a prima vista potrebbero parere evasi da una Commedia o piuttosto da una Tragedia dell’arte moderna»; la commedia dell’arte dev’essere stata presente, a chi ha visto arrivare sulla scena europea Benito Mussolini: le smorfie, l’andatura da burattino gonfiato, il roteare d’occhi. Ma la Yourcenar fa un discorso più profondo: «Lo scivolare verso il mito o l’allegoria [tendeva] a confondere in un tutto unico la Roma dell’anno XI del fascismo e la città dove si annoda e snoda eternamente l’avventura umana».

Cioè, il carattere universale della cultura italiana, unito alla modernità del fascismo, rende universale proprio la dittatura. Una primogenitura negativa – ritrattazione e prostituzione del Risorgimento: il primato morale degli italiani diventato passo dell’oca, Gioberti col grugno di Starace – per una nuova Santa Alleanza del gagliardetto, del manganello e dell’aspersorio. Il fascismo è un Congresso di Vienna tardivo, coi congressisti lerci, incarogniti e inseparabili, come in L’angelo sterminatore di Buñuel. Ci tiene, la Yourcenar, alla scelta di quel periodo: l’Italia fascista senza ancora l’alleanza con Berlino, senza l’impero, senza le leggi razziali.

Marcella, che prepara l’attentato contro il dittatore, ha qualcosa di assurdo, di arcaico; per l’autrice, che umanamente si immedesima poco in lei, conviene lasciare al gesto «il suo aspetto di protesta quasi individuale, tragicamente isolata, e alla sua ideologia quella traccia di dottrine anarchiche che hanno così profondamente segnato un tempo la dissidenza italiana». Eppure la scrittrice si è resa conto della posta in gioco, per l’Europa; almeno nel 1959 ha capito, se nota il clima letterario della prima pubblicazione:

Tanti scrittori in visita nella penisola si appagavano ancora d’incantarsi una volta di più al tradizionale pittoresco italiano o si felicitavano di vedere i treni partire in orario (almeno in teoria), senza pensare di domandarsi verso quale stazione finale procedevano.

Anche così non riesco a superare l’idea che la Yourcenar menta, per qualche strategia narrativa, quando sempre nella prefazione del 1959 scrive: «Ho tentato di accrescere in più d’un punto la parte del realismo, altrove, quella della poesia, il che, alla fine, è o dovrebbe essere la stessa cosa». In Moneta del sogno non c’è un realismo prevedibile, semmai un iperrealismo, e non c’è neppure poesia. E poi, via: realismo e poesia non sono la stessa cosa e lo sa benissimo.

Un vero protagonista non c’è. Non l’attentatrice, non il dittatore. Con le pallottole – si è visto a luglio in Pennsylvania – l’attenzione si fissa su chi prende la mira e su chi è benedetto da un graffio, ma niente cura il male della folla. Non è centrale nessuno dei personaggi che si inseguono e si sovrappongono, vicini anche quando le loro storie hanno poco in comune. Insomma il protagonista c’è ma non va nominato. Ci fa troppa paura. È il contesto, l’ambiente italiano. E la moneta non conta, e non conta neppure il sogno, che nel titolo si affaccia: non è un libro da sogni, tutti hanno un incubo da svegli. Le storie devono intrecciarsi perché il falso comunitarismo del regime risalta meglio se ci sono parentele, coincidenze, pretesti.

Attraverso Carlo Stevo, l’antifascista, due unioni si intrecciano. Carlo è sposato con Vanna, figlia di un fascista per ordine, ma ha una relazione austera e cospirativa con Marcella, sposata con Alessandro, che per convenienza si è messo una maschera da fascista e ora non se la toglie più. Marcella è figlia di un anarchico, amico d’infanzia di Mussolini, che ha perso il posto per volere del dittatore.

La relazione fra Marcella e Carlo è un pozzo di echi. L’ombra di Matteotti doveva aver toccato la sensibilità della Yourcenar. Stevo è arrestato al ritorno da Vienna; e in realtà, al ritorno da un viaggio a Vienna Matteotti fu ucciso. E poi, Marcella e Stevo sono descritti così:

Lei aveva significato il Popolo per il solitario uscito da una di quelle buone famiglie della borghesia liberale che magari hanno inventato l’idea stessa di popolo, ma a cui un residuo d’usi, pregiudizi e timori impedisce quasi sempre la frequentazione della massa.

Parole che con qualche forzatura potrebbero valere per il socialista, figlio di possidenti, e per la moglie Velia Titta, figlia di un artigiano.

Il rapporto fra Stevo e Marcella: «Nel magazzino di grano, tra i sacchi pieni del segreto delle semenze, s’erano tenuti conciliaboli in cui covava, sotto quella Roma ridiventata imperiale, tutto il puro fanatismo delle giovani sette perseguitate». L’intuito della Yourcenar: gli antifascisti sotto la dittatura sono un cristianesimo primitivo e risoluto; appunto, semi impregnati di segreto. Ci si rende conto di questo considerando la fase in cui il semenzaio è più fertile: la Resistenza romana, quando molti semi muoiono perché altri diano frutto. Il gappismo romano, falcidiato dalla repressione, dalle delazioni, dalle retate, ha per sfondo la città insidiosa e magnifica; il Foro di Traiano, per esempio. Il lungo itinerario di Bentivegna col carretto della spazzatura, il 23 marzo 1944, per raggiungere via Rasella, è una passeggiata romana: Stendhal a mano armata.

Ancora qualcosa di Matteotti nella relazione fra i due:

Mentre il senso della giustizia, del diritto, una specie di bontà indignata, aveva condotto Carlo all’odio per il nuovo padrone in cui s’incarnava la ragion di Stato, era stato, al contrario, l’odio che a poco a poco aveva guidato quella donna [Marcella], sorella di tutti i vinti, a coltivare in sé le emozioni della bontà.

In Stevo c’è l’eco del diritto, e il grande polesano era un giurista. Matteotti fra le righe.

L’angoscia di questo decentramento narrativo, col suo dono spaesato e col suo furto di certezze, non lascia scampo: confrontarsi con una storia che non è storia, che rifluisce in se stessa. La bontà indignata di Stevo è un riassunto del caduto socialista, del «santo di Fratta», invidiabile dai migliori studiosi. Eppure preferisco pensare che la scrittrice non abbia lasciato di proposito questi segni, e invece che siano stati i frammenti della storia italiana, come per magnetismo, a prendere il loro posto mentre si parlava d’altro. Sarebbe forse la prima volta, che le cose abitano il tempo al punto da riconoscervi i loro indirizzi anche quando il vento, l’incuria, la polvere credono di averli cancellati?

Alla profondità umana non si arriva per caso. A casa di Marcella, cioè di suo padre l’anarchico, c’erano i libri dei poeti dell’Ottocento. E a rimproverarglielo è suo marito Alessandro. Tra i fascisti, Alessandro è di quelli non per convinzione ma per convenienza: «Il regime per lui non era altro che un fatto con cui ci si arrangia, ma che non si onora». Però, lui nel regime ci si trova così bene! e lo rivendica con un cinismo inconfondibile; è quello che sentiamo di nuovo, adesso, in voci senza vergogna:

«Ci son dottrine che si tradiscono come donne che si abbandonano: hanno sempre torto. Dovevo compromettere una posizione faticosamente conquistata per correre in aiuto a una banda di fanatici come tuo padre o di sognatori come Carlo Stevo? Una delle lezioni dell’esperienza è che chi perde si merita la sconfitta».

Il carrierista paragona l’appartenenza politica e la donna: luoghi, particelle catastali, piazzeforti vendibili o espugnabili o consegnabili. Di tutt’altra natura, Marcella. Quando viene a sapere che Carlo ha tradito, riflette:

«Non ti biasimo. Poco m’importa a causa di quali brutalità o di quali promesse. Il loro peggiore delitto: prenderci, trovare il modo di forzarci a piegarci o a parer averlo fatto, industriarsi perché nessuno risulti più puro. Ragione di più perché io agisca senza indugi. Per rivalsa, per espiazione… Per il Partito, per te, per me stessa… Siamo tutti arnesi più o meno solidi. Non si può rimproverare a un arnese d’essersi spezzato».

Per un fascista chi perde è colpevole. Per la cospiratrice – morale calda e formidabile – neanche chi tradisce è del tutto un perdente.

A tastare la convinzione dell’attentatrice è Massimo Iacovleff, una spia del regime, che le ricorda i suoi veri motivi per uccidere Mussolini. E qui si affaccia ancora Matteotti:

«Il tuo odio… Oh, lo so, non è che te ne manchino le ragioni: tuo padre […] e Carlo, e l’altro che un giorno si fece ammazzare sulle rive del Tevere (lo sai, chi voglio dire) e che neppure lui è stato vendicato. E anche quando fosse solo per farla finita con quelle scritte imbrattate sui muri, alte come la menzogna, per ridurre al silenzio quella voce che distribuisce alla folla una zuppa grossolana… Ma è falso… Tu vuoi ammazzare Cesare, ma soprattutto Alessandro, e me, e te stessa… Fare piazza pulita… Uscire dall’incubo… Sparare come a teatro perché nel fumo dello sparo la scena si dissolva… E finirla con tutta questa gente che non esiste. […] Siamo tutti dei pezzi di stoffa lacerati, degli stracci stinti, dei miscugli di compromessi. Il discepolo più amato non è quello che dorme nei quadri sulla spalla del Maestro, ma quello che si è impiccato con in tasca trenta denari. O, forse, no: quei due ne fanno solo uno: era lo stesso uomo».

Iacovleff indica i veri motivi, dicevo, o li costruisce? E poi, vuole davvero impedirle di sparare? Forse in alto si vuole un attentato pilotato, all’insaputa di chi lo compie.

La spia suggerisce depistaggi morali plausibili anche per chi legge: i bersagli sarebbero Giulio Cesare o il marito di Marcella o altri. L’autrice mima l’inganno per smascherarlo: è tipico della falsa introspezione fascista, carica di convulsioni mentali e morale contorta, frammentare la persona e disorientarla facendo le viste di volerla emancipare (in fondo è così Sei personaggi in cerca d’autore, del fascista Pirandello). Per la spia la gente non esiste, tutti sono stracci. È probabile che questo fosse l’orizzonte anche di chi pose la bomba alla stazione di Bologna nel 1980, considerando che ancor oggi le vittime sono offese da menzogne.

Quel Giulio Cesare, però, ha un altro senso: per sparare a Mussolini, Marcella ha rubato una pistola ad Alessandro e vuole pagargliela per non sentirsi in debito; gli porge il denaro dicendo: «Dare a Cesare…» (il romanzo avrà una trasposizione teatrale, Rendre à César, appunto). Le parole di Gesù servono a staccare l’arma dallo spazio di Alessandro, profano, per portarla nel perimetro sacro della violenza politica. Ben diverso, questo, dalle chiacchiere con cui la spia mischia Giuda e Giovanni. Eppure quelle chiacchiere hanno una fascinazione che invita chi legge al dubbio. Il cenno ai trenta denari, naturalmente, si discosta dal Vangelo: Giuda si impicca dopo essersi liberato da quel prezzo – non dal senso di colpa.

Il punto suggestivo riguarda, invece, la moneta che attraversa tutto il libro. Proviamo ad assecondarlo. La moneta del sogno è sorella delle altre ventinove, cioè viene dai trenta denari: è quella che ha attraversato il deserto del silenzio, oppure che è rimasta indietro e che per questo ha qualcosa da aggiungere. Il trentesimo, di quei denari, non finì nel tesoro del tempio, nell’acquisto del campo, e rimase addosso a Giuda, ad appesantire il corpo, a stringere il cappio. Allora, ciò che unisce l’intreccio di storie è il di più della colpa, cioè la tessitura di un quadro di squalifica delle persone che le spinge ad accettare l’autorità, ad aver voglia di un padrone, di uno che distribuisce una zuppa grossolana. Proprio così. Neanche la Yourcenar dalla prosa veggente poteva alludere, con quel distribuire la zuppa, al fatto che se nel 1922 era andato al governo un giornalista, cento anni dopo vi si sarebbe seduta una diplomata di un istituto professionale alberghiero e gastronomico, dove si insegna a lavorare col mestolo. Un libro che conta sul caso non può diffidare delle coincidenze; almeno, non più di chi lo legge molti anni dopo.

Fallito l’attentato, la notte copre due persone agli estremi della società. Ecco il dittatore, illeso:

Cesare dormiva, dimenticando di essere Cesare. Si svegliò, rientrò nel suo personaggio e nella sua gloria, guardò l’ora, esultò per aver mostrato nel corso dell’incidente della vigilia il sangue freddo che si addice a un uomo di Stato. «Ardeati, nata Ardeati» [il cognome di Marcella], pensò, ruminando quel nome che si era fatto dire qualche ora prima, «la figlia del vecchio Giacomo…» E rivide a una distanza smisurata la cucina dell’appartamento di Cesena, una discussione sui reciproci meriti di Marx e di Engels, il caffè che la madre Ardeati serviva all’epoca in cui il caffè era per lui una spezia rara. «Quel che c’era di meglio in loro, l’ho amalgamato nel mio programma», si disse. «Quei chiacchieroni non avrebbero mai saputo governare un popolo». E si girò sul cuscino, l’anima in pace, sicuro di avere in tutto e per tutto l’approvazione della gente d’ordine.

Ed ecco Oreste, operaio, stritolato dalla vita. In una fiaschetteria – ce n’è qualcuna vera, a Roma, ancora nel 2024 – si ubriaca e fantastica su sua suocera:

Voluttuosamente, s’immaginò mentre strangolava la vecchia, inventò particolari precisi, degustò tutta la delizia che avrebbe provato a impadronirsi sotto i suoi occhi del sacchetto di pelle in cui lei nascondeva il tesoro che, invece, sarebbe spettato a Attilia [sua moglie] e ai loro figli. Ma simili atti di giustizia conducono sempre solo in galera, i giudici non capiscono mai quanto si sia stati maltrattati dapprima da coloro che si ammazza.

Una sbornia in cui c’è qualcosa di Baudelaire, del Vino dell’assassino.

Ma se davvero si può parlare di caso, in tutto questo, è casuale la compresenza di alcuni personaggi in una chiesa romana? Le litanie della Madonna si susseguono. Dicono «casa d’oro» e Rosalia, che vende candele, pensa alla casa perduta, in Sicilia. Marcella entra, ha la pistola e riflette:

«Non vacillare. Presto sarò morta, è la sola cosa sicura. Che cosa dicono? Regina dei cieli… Regina Coeli: questo nome di prigione… Sarà là che domani… Mio Dio, fa’ che muoia subito. Fa’ che la mia morte non sia inutile. Fa’ che la mia mano non tremi, fa’ che lui muoia. Ma guarda, è buffo. Mi sono messa a pregare senza saperlo».

In chiesa dicono anche «torre d’avorio» e c’è il grande pittore Clément Roux:

Abbassò la testa per seguire la spirale di quelle parole che lentamente sprofondavano in lui, urtando infine la resistenza di un ricordo. Dorato, liscio e nudo. Quella ragazzetta sulla spiaggia, una sera, possibile che lui avesse già circa vent’anni? Torre d’avorio… C’è al mondo un’espressione più evocatrice dell’architettura di un giovane corpo?

Un anno dopo la riedizione di Moneta del sogno, una ragazzetta sulla spiaggia renderà indimenticabile l’ultima scena della Dolce vita di Fellini.

Proprio lui, Roux, così malmesso che lo scambiano per un mendicante, riscatta la vita. Vaga per Roma e commenta fra sé gli sventramenti degli antichi rioni:

«Le rovine troppo pulite, tirate a filo. Troppo demolite, troppo ricostruite. Ai miei tempi queste viuzze zigzaganti in pieno passato che ti portavano al monumento di sorpresa… Hanno sostituito tutto con queste belle arterie per autobus, e, nel caso peggiore, per carri armati. La Parigi di Haussmann. Il luna-park delle Rovine, l’Esposizione Permanente della Romanità».

E Roux parla a Iacovleff, la spia, che ascolta distratto. Siamo nel luogo che diventerà un simbolo del buon vivere: alla Fontana di Trevi. Three Coins in the Fountain, il film di Negulesco, arriva nel 1953. Esiste già l’uso di gettare monete per un voto del ritorno, e il pittore si adegua. Voto falso o sincero? Il proposito del ritorno serve a chiudere con un passato, non a fare in modo che si ripresenti: sprechiamo qualcosa per fare un dono senza volto, per non dire a noi stessi che non vogliamo voltarci indietro. E c’è una perla gettata via, in un pensiero di Roux offerto a chi non ne è degno; la raccogliamo noi:

«Ci son pure delle cose buone… delle cose che si vorrebbe. […] Delle cose talmente belle da stupirsi che ci siano. Pezzi, frammenti. Parigi tutta grigia, Roma dorata. […] Corpi di donna… Non le modelle, con il loro nudo a un tanto all’ora. Né il nudo insipido delle puttane né il nudo a teatro così tinto che non si vede neppure più la pelle. […] Ma di tanto in tanto… La carne intravista sotto la veste come un dolce segreto in questo duro mondo. Il corpo sotto la stoffa. L’anima sotto il corpo. L’anima del corpo. Così, molto tempo fa, su una spiaggia, in un posto deserto, in Sicilia, una ragazzina tutta nuda… Dodici o tredici anni… Nella luce frizzante del primo mattino. Con una camicia che si è tolta, quando mi ha visto, per suo piacere, suppongo. Innocente e non innocente. Eccola, la piccola Venere uscente dalle acque. […] Non l’ho neppure dipinta, perché i nudi fatti del ricordo… Ma l’ho messa qua e là, un poco dappertutto, una certa maniera di mostrare la luce che gioca su un corpo. Queste son le cose che aiutano nell’ora della morte».

In questo nascondiglio giace un segreto di tutto il libro.

 

 

[1] Marguerite Yourcenar, Denier du rêve, Grasset 1934; poi, in nuova versione, Plon 1959. La prima edizione italiana è Moneta del sogno, Bompiani 1984, traduzione di Oreste Del Buono. Qui ho tratto le citazioni dalla ristampa Bompiani 1986. Nei discorsi dei personaggi ho tolto i puntini di sospensione che mi sembravano in eccesso.