Marlen Haushofer, Noi e la morte di Stella, tr. di Eusebio Trabucchi, L’Orma Editore, pp. 96, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub

di Anna da Re

«Due giorni per scrivere quello che devo scrivere». Queste le prime parole di Anna all’inizio del romanzo Noi e la morte di Stella. Che buffo, penso, dopo aver letto Bébi, Il primo amore di Sándor Márai, eccomi di nuovo di fronte a un libro in cui il protagonista scrive per capire, per conoscere. Non tanto quello che è successo fuori, quanto quello che è successo dentro, in quel mondo interiore a cui si ha accesso solo attraverso la riflessione, il silenzio, lo sguardo rivolto verso di sé. In poche pagine molto dense e precise, in cui nessuna parola è inutile o va sprecata, Anna – la protagonista del romanzo – analizza i fatti e le conseguenze, e poi le sue scelte, le sue reazioni. L’irreparabile è successo, la morte di Stella, come ci dice il titolo. E anche il distacco dall’amato figlio Wolfgang. Anna ha lasciato andare via il marito e i figli per il weekend, ha detto alla donna di servizio di non venire. Guarda dalla finestra, e un uccellino che pigola disperato, troppo piccolo per volare via, la distrae dal suo compito. Ma lei ritorna, ostinatamente, a raccontare cosa è successo, a mettere gli accadimenti in sequenza. Ogni tanto torna alla finestra, a guardare il giardino, come ha fatto milioni di volte. L’uccellino pigola sempre più debolmente, la madre lo ha abbandonato, il suo destino è segnato.

I fatti sono semplici: Stella, figlia di un’amica, è venuta a stare da Anna e la sua famiglia per seguire un corso. Il marito Richard, un dongiovanni abile e senza scrupoli, ha fatto innamorare la ragazza e poi l’ha lasciata. E la ragazza è finita sotto un camion, un incidente, ufficialmente. Ma tutti sanno che c’era un’intenzione, che non c’è stato nulla di casuale. Anna e anche il marito, e i figli, soprattutto il figlio maggiore Wolfgang, hanno visto la disperazione di Stella, non possono credere alla disgrazia. Ora Anna vorrebbe solo dimenticare, vorrebbe riprendere le vecchie abitudini, guardare il giardino dalla finestra, accudire i figli, dormire con il marito che le tiene una mano sulla spalla, ogni notte quando torna, indipendentemente da dove torna, da quale amante sia stato. Vorrebbe ritornare al silenzio, all’accettazione passiva del rapporto con il marito, alle piccole felicità con la figlia Annette, e soprattutto alla confidenza e alla complicità con il figlio Wolfgang. Non che Anna non sappia che c’è qualcosa di esagerato e anche un po’ malato nel suo attaccamento al figlio ormai adolescente. Né che non sappia che il distacco, la separazione che si è creata tra lei e il figlio ci sarebbero stati anche se Stella non fosse mai arrivata da loro, non avesse mai avuto una relazione con suo marito, non si fosse buttata sotto un camion.

Ma il dolore per quel distacco è per Anna superiore alla colpa per la morte di Stella. O a qualsiasi sentimento possa provare. Nello stesso tempo c’è un giudizio morale, che Anna non può evitare, una sorta di sentenza su chi sia il vero mandante della morte di Stella. Il marito di Anna, Richard, che lei descrive minuziosamente, nelle sue qualità e nei suoi difetti. Il marito che la ama perché le appartiene. Che ha successo in tutto quello che fa e che sembra non pagare mai per i suoi misfatti. Anna è complice di quell’uomo da cui, nonostante tutto, non è capace di staccarsi. Non ci sarà mai un’ammissione di colpa da parte di lui, e nemmeno da parte sua, anche se sa benissimo di essere altrettanto colpevole. E l’ipocrisia borghese, l’apparenza da famiglia felice, sarà un ulteriore passo nel nascondere le responsabilità. Allora si può solo dimenticare. Guardando il giardino dalla finestra, dove il pigolio è cessato per sempre, l’uccellino non ce l’ha fatta, sembra quasi una rappresentazione simbolica del percorso di Anna, che ha scritto, ha raccontato, è stata precisa e chirurgica, ma non è servito a niente.

C’è, nella dipendenza di Anna dal marito, una rassegnazione profonda e immodificabile. Che fa pensare, una volta che ci si è staccati dalla storia, alle situazioni di dipendenza dagli uomini in cui spesso si trovano le donne. Alcune di queste dipendenze sembrano non potersi modificare o correggere; se anche le donne in questione ci provano e sembra che ci riescano per un certo tempo, poi ci ricadono. Sono dipendenze che sembrano incomprensibili. Come se avessero una componente ancestrale, così radicata e così ingombrante che ci si può solo arrendere. Forse sono semplicemente dipendenze.

Il linguaggio essenziale in cui il romanzo è scritto nasconde spesso la ricchezza interiore della protagonista. La precisione dei dettagli e delle circostanze nasconde invece il disordine e il caos del mondo; anche di quello interiore. E il minimalismo del romanzo nasconde la grande portata dei temi affrontati. In questi due livelli, quello che balza agli occhi e quello che emerge a lettura ultimata, sta il lascito di questo piccolo libro. Amaro e un po’ inquietante. Di cui rimangono delle tracce e dei segni, non immediatamente chiari. E che lascia la porta aperta, per le molte considerazioni che verranno via via in mente.

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