di Fabio Ciabatti
Enrique Dussel, Marx e la modernità. Conferenze di La Paz, Castelvecchi 2024, € 17,50, pp. 147.
Un Marx che critica l’economia politica da un punto di vista etico e cioè dal punto di vista della materialità della vita, della soggettività corporea del lavoratore inteso come non essere del capitale. Una critica che parte dall’esteriorità, da ciò che la totalità del capitale esclude. È questa l’interpretazione di Marx per certi versi spiazzante, ma sempre sorretta da una solida conoscenza dei testi che ci presenta Enrique Dussel, studioso argentino scomparso lo scorso anno. Uno studioso che, partendo dalla teologia della liberazione, negli anni Novanta si dichiara discepolo di Marx per rifiutare l’idea, oramai comune, che il rivoluzionario tedesco sia da considerare un “cane morto”.
Marx e la modernità, recentemente tradotto in italiano da Antonino Infranca, è un testo formato dalla trascrizione di un ciclo di conferenze tenute a La Paz da Dussel nel 1995 e può essere letto come una introduzione sufficientemente completa all’opera del pensatore sudamericano. La provenienza geografica è essenziale perché la valorizzazione dell’esteriorità cui abbiamo accennato nasce proprio dal punto di osservazione rappresentato dalla periferia dell’impero.
Una collocazione che si vede a partire dalla critica del tradizionale concetto di modernità. In breve,
la Modernità non si è allargata dall’Europa. Questa è l’idea sostanzialista della Modernità: prima c’è una sostanza e dopo si espande. No, il Sistema-Mondo si origina incorporando una periferia che lo costituisce.1
Questa sostanza, secondo la narrazione convenzionale, avrebbe avuto un’evoluzione con diversi stadi storico-geografici che rileverebbe la sua intrinseca forza espansiva: Rinascimento, riforma protestante, illuminismo, Rivoluzione francese, parlamentarismo inglese e, nel frattempo, diffusione a livello mondiale. In realtà, sostiene Dussel, l’Europa è sempre stata una periferia, perfino durante l’impero romano. Diventa centro di un nuovo ordine globale solo con la conquista delle Americhe, avvenuta per caso mentre la Spagna cercava una via verso l’India, vero centro del Sistema Mondo dell’epoca. Questa conquista dà un grande vantaggio agli stati del Vecchio Continente rispetto a tutte le altre potenze extraeuropee del periodo consentendo la nascita della prima modernità, quella della Spagna, un Paese tutt’altro che medioevale con l’inquisizione che costituisce non una rimanenza del passato, ma una progredita burocrazia. Abbiamo poi la seconda modernità, quella olandese, nella coscienza comune la Modernità in quanto tale, che produce una “semplificazione materializzante della realtà” finalizzata a far prosperare il capitalismo mercantile in una misura che la Spagna non era riuscita a fare. Con l’espansione a livello globale delle Compagnie delle Indie olandesi la crescita del tasso di profitto diventa il parametro per giudicare tutto: la storia, l’economia e la politica.
E con questo arriviamo a Marx. Ma si tratta, come anticipato, di un Marx letto attraverso il concetto di “esteriorità” o, per essere meno filosofici, per mezzo della figura del “povero”. Una lettura spesso accusata di negare la centralità della lotta di classe nel pensiero del rivoluzionario tedesco. A questa osservazione Dussel risponde che
oggi essere sfruttati è un privilegio (avere un salario e produrre plusvalore) perché la maggioranza non lo è. La maggioranza è esclusa [..] Perché l’umanità sta per essere marginalizzata dal capitalismo, perché il capitalismo non gli può dare più lavoro.2
Ma c’è di più. La “povertà assoluta”, per dirla con il Marx dei Grundrisse, è il presupposto necessario del lavoro salariato. Bisogna precisare che il concetto di povertà non corrisponde a quello di indigenza. Il contadino che possiede un piccolo appezzamento in grado di procurargli i beni di consumo appena necessari alla sua sopravvivenza rientra certamente nella condizione di povertà. Ma la povertà assoluta è un’altra cosa: è la “totale esclusione dalla ricchezza materiale” per mezzo della separazione dai mezzi di produzione, in primis la terra. Si tratta della condizione che costringe gli esseri umani a vendersi sul mercato del lavoro; la condizione che consente al capitale di sussumere la soggettività umana e di trasformarla in lavoratore salariato, vale a dire lavoro vivo che produce valore e plusvalore per il capitale stesso.
Ma cos’è il valore? Il valore è oggettivazione di vita umana, di lavoro vivo. A sua volta, “Il lavoro vivo è il non capitale. Prima di vendersi è un povero, ma è la fonte creatrice di ogni ricchezza”.3 La povertà assoluta, dunque, è al tempo stesso esclusione da ogni ricchezza e possibilità generale di ogni ricchezza. Qui secondo Dussel si può comprendere il rovesciamento compiuto da Marx nei confronti di Hegel il quale parte dall’essere e di lì dispiega tutte le categorie. Apparentemente Marx segue lo stesso procedimento perché parte dal valore come essere del capitale per dispiegare concettualmente la totalità del capitale stesso. Ma il valore non è in grado di autoriprodursi perché a tal fine ha bisogno del lavoratore, del non essere del capitale, che costituisce la fonte del valore stesso. Dunque, secondo Dussel, il vero punto di partenza di Marx è il non essere. Il capitale nasce soltanto nel momento in cui sussume il suo non essere: sussumere significa, appunto, portare dentro ciò che sta fuori. Usando le parole dello stesso Marx, il capitale porta dentro di sé “una materialità non separata dalla persona”.
Detto altrimenti, il capitale pretende di essere esso stesso la fonte del profitto e dunque di avere la capacità di autoriprodursi, di riprodurre il proprio essere. Ma questo è solo il feticismo cui soggiace l’economia. Smascherare questa apparenza significa, secondo Dussel, riportare la produzione di valore e plusvalore alla sua fonte, il lavoro vivo che è, appunto, il non essere del capitale. Il tasso di profitto, sostiene Dussel, è una categoria economica. Ma questo deve essere ricondotto al tasso di sfruttamento (o tasso del plusvalore) che, invece, è una categoria con risvolti antropologici e etici. La vera ossessione di Marx, sostiene Dussel, è quella di riportare il profitto in tutte le sue forme (industriale, commerciale, finanziario) alla sua fonte, il plusvalore, vale a dire all’appropriazione di lavoro vivo senza corrispettivo alcuno. In breve allo sfruttamento. Il capitalismo, come i sistemi che lo hanno preceduto, va dunque considerato non tanto un “modo di produzione”, ma un “modo di appropriazione” del lavoro. Quest’ultimo nel processo produttivo derealizza sé stesso. Il capitale sfruttando il lavoro si appropria senza corrispettivo della vita umana. Il capitale è perciò sottrazione di vita umana.
Da questi brevi accenni possiamo capire che, secondo il filosofo argentino, l’economia è un pensiero formale, autoreferenziale perché considera il capitale come fondamento della sua autovalorizzazione senza alcun riferimento alla fonte del valore, il lavoro vivo, perdendo così il suo contenuto materiale. Se un popolo ha bisogno di qualcosa, ma la produzione di questo qualcosa non porta alla creazione di plusvalore per il capitale esso semplicemente non viene prodotto. “La morte del popolo non è un fattore economico”, chiosa Dussel.4 In questo modo la Modernità rivela la sua natura dualistica “perché uccide i corpi, mentre il capitale è in buona salute”.5 All’opposto quella di Marx è una critica etica che può essere portata avanti grazie al concetto di valore il quale, a sua volta, consente di scoprire il concetto di plusvalore, vale a dire di sfruttamento. Insomma, di fronte al formalismo dell’economia, attraverso Marx è possibile affermare il principio materiale di ogni etica: “È valido ciò che faccio se riproduce la vita. Se uccide non è valido, è cattivo. La vita è il criterio materiale”.6 L’economia, invece, si occupa soltanto della riproduzione del capitale, noncurante delle distruzioni che questa finisce per comportare per la vita umana e per la natura.
L’indifferenza dell’economia capitalistica nei confronti della riproduzione della vita è particolarmente evidente nei paesi periferici nell’ambito del mercato mondiale. Seguendo la Teoria della Dipendenza, Dussel sostiene la subordinazione nei confronti del centro capitalistico altro non è altro che “Trasferimento di plusvalore dal paese meno sviluppato a quello più sviluppato”.7 Ciò avviene attraverso diversi meccanismi, ma quello fondamentale è costituito dalla concorrenza che determina un livellamento dei prezzi sul mercato mondiale tra le merci dei capitali più sviluppati e quelle dei capitali meno sviluppati. Questi ultimi, in conseguenza di una componente tecnologica minore, producono con maggiori prezzi di costo. Allo stesso tempo, per l’utilizzo di maggiori quantità di lavoro vivo a parità di investimento, assorbono una maggiore quantità di valore che viene appropriato dai capitali più sviluppati. Da ciò deriva che un “capitale periferico che sta continuamente trasferendo parte del suo plusvalore non può accumulare”8 e dunque sussumere i poveri facendoli diventare lavoratori salariati. Di conseguenza “quasi il 50% del popolo latinoamericano, se non di più, è costituito da poveri, non sono neanche classe”.9
Entra qui in gioco la differenza tra classe e popolo. Quest’ultimo è costituito da diversi soggetti collettivi che hanno differenti livelli di esteriorità rispetto al capitale. Il livello più esterno è costituito dalle nazionalità indigene che possono riprodursi senza la necessità di avere rapporti stabili con il capitale. A livello intermedio abbiamo la grande massa di poveri che sopravvivono ai margini dell’economia capitalistica. La vicinanza maggiore al capitale ce l’ha il lavoro salariato, la classe in senso proprio, che però mantiene un certo grado di esteriorità perché anche un operaio “può essere padre di famiglia, membro di un club di calcio, di un club di ballo e di molte altre cose”10 che non sono semplice funzione del sistema cui è sussunto in quanto lavoratore.
Più in generale, gramscianamente, “Popolo è il blocco sociale degli oppressi in uno Stato”, vale a dire “classi, etnie emarginate e altri settori sociali oppressi”11 che si contrappongono al “blocco storico al potere”, vale a dire la borghesia nazionale industriale, commerciale e finanziaria, la borghesia del capitale transnazionale e altri gruppi sociali vicini al potere statale.
Popolo è la categoria storica che attraversa una formazione sociale. Allora, c’è coscienza di popolo, che non è coscienza di classe.
La coscienza di popolo è l’autocoscienza che hanno gli oppressi dei loro eroi, della loro storia (dei loro fatti che non dimenticano).12
In questa memoria
ci può stare un eroe inca che ha lottato contro gli spagnoli, uno schiavo che ha lottato durante l’emancipazione e può, adesso, essere una sindacalista (ma quell’oppresso inca non era un operaio, non aveva nulla a che vedere con la classe e neanche era un contadino coloniale).13
Tutto ciò è importante, secondo Dussel, perché
ciò che rimane, dopo la rivoluzione, non è più la classe operaia, bensì un popolo, che transita verso un nuovo tipo di formazione sociale e, pertanto, la classe operaia, dovrebbe dissolversi in un’altra cosa. È scomparso l’operaio, ma ciò che è rimasto è il popolo.14
Dussel riconosce che Marx non ha visto la dinamica che trasforma il popolo in un soggetto storico, ma sostiene che, in questo ambito, “è facile sviluppare una critica dalle sue stesse categorie”.15 La domanda che ci si può porre legittimamente è se la categoria di “popolo” sia davvero sufficiente per pensare e praticare la transizione verso un nuovo tipo di formazione sociale. Oggi, a differenza di quanto si poteva immaginare negli anni Novanta, stiamo assistendo al rafforzamento di alcuni capitalismi un tempo periferici che hanno saputo sfruttare a loro vantaggio le dinamiche della cosiddetta globalizzazione. In questo contesto appellarsi al popolo può costituire un mezzo per cementare un’alleanza interclassista finalizzata a consolidare una traiettoria di sviluppo che, per quanto differente dai percorsi storicamente seguiti dal centro, rimane di natura capitalistica.
Ciò detto ci si può porre un’ulteriore domanda, tutt’altro che retorica: è davvero il popolo il tipo di soggetto collettivo destinato a permanere in un processo rivoluzionario? L’ottimismo di Dussel rispetto alla soggettività popolare fa da contraltare alla veloce liquidazione della soggettività di classe. Una questione che può essere messa in relazione a un altro problema: l’utilizzo da parte del pensatore argentino del concetto di “modo di appropriazione” al posto del più tradizionale “modo di produzione”. Detto in modo forse troppo semplice, la liquidazione del primo sembra un processo più semplice della trasformazione del secondo che richiederebbe, quantomeno, l’attivo contributo di una soggettività interna al processo produttivo. Anche se si tratta di una soggettività destinata nel corso di questa transizione a negare sé stessa perché il novum possa sorgere.
Questi brevi accenni non hanno certo l’intento di disconoscere l’importanza della riflessione di Dussel. Il pensatore argentino, ponendo l’accento sull’esteriorità senza negare la centralità dei rapporti sociali di produzione capitalistici, ci aiuta a mettere a tema la questione della transizione verso un mondo postcapitalistico in una congiuntura storica che vede l’Occidente sviluppato perdere la sua centralità e le stesse formazioni capitalistiche avanzate creare al loro interno sacche sempre più ampie di esclusione. Una congiuntura che ci obbliga a pensare alle possibili soggettività anticapitalistiche in modo più complesso e articolato di quanto abbiano immaginato i classici del marxismo e forse lo stesso Marx.
Da questo punto di vista la prassi e la teoria (o forse sarebbe meglio dire le prassi e le teorie) devono fare ancora molta strada facendosi largo tra le macerie prodotte dagli attuali rapporti sociali di produzione. Come sostiene Marx letto da Dussel, infatti, il “gran potere civilizzatore del capitale” dopo aver rotto tutti i limiti si trasforma in un “grande feticcio” e come un “Moloch” esige “i sacrifici della Terra e dell’umanità”. Insomma, vale la pena riflettere su quanto il pensatore argentino afferma alla fine del suo ciclo di conferenze di La Paz: “è molto utile, almeno, passare per Marx, e dopo lasciarlo; ma dopo averlo lasciato non si può essere più ingenui”.16