di Gioacchino Toni
Marianna Zanetta, Itako. Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 258, € 20,00
Il volume dell’antropologa Marianna Zanetta conduce nel Nordest del Giappone ove ancora oggi sopravvive la tradizione delle itako, donne non vedenti che comunicano con i defunti. Lontana dal’idillio dei ciliegi a cui spesso viene ridotto l’universo nipponico in Occidente, quella presentata dalla studiosa è una realtà contemporanea contraddittoria in cui «la quotidianità agricola domina sulle vite delle persone. Dove le donne vivono (ancora) una realtà faticosa, dove la disabilità è fonte di discriminazioni trasversali e dove la storia locale e quella nazionale si incontrano e si scontrano molto più di quanto ci immaginiamo».
È in un tale contesto che è possibile scoprire, a partire dalle itako, realtà accomunate da una comunicazione costante con i defunti, in cui ancora oggi si guarda alla morte con occhi profondamente diversi rispetto a quelli occidentali contemporanei, un panorama religioso sfaccettato che può insegnare qualcosa ad un Occidente sempre più restio a confrontarsi con la morte.
Prima di affrontare questo universo giapponese Zanetta passa in rassegna tematiche come la morte, il kegare (impurità), la purezza e la questione di genere, il microcosmo della famiglia come cuore della vita e dei legami in cui si specchiano le trasformazioni sociali che si incontreranno nel viaggio alla scoperta delle itako, viaggio che induce a domandarsi le ragioni per cui in un Giappone contemporaneo così avveniristico permanga la necessità di un contatto diretto con la morte, con i propri antenati e con i membri perduti della propria comunità. In particolare, sostiene l’autrice, indagare la famiglia, a cui è strettamente connesso l’immaginario della morte, significa indagare le trasformazioni moderne e contemporanee della società giapponese, segnate, nel corso del Novecento, dalla sconfitta bellica, dalla crescita economica, dalla repentina urbanizzazione e da «un’apparente americanizzazione dello stile di vita».
Nonostante la marcata trasformazione che ha toccato la famiglia giapponese, fattasi, come altrove, sempre più nuclearizzata, in essa sembra permanere quel tradizionale legame, en, tra i suoi membri vivi e quelli defunti. «Un legame consolatorio e asfittico allo stesso tempo, carico dell’ambiguità che in Giappone ritroviamo spesso quando parliamo di relazioni, di vicinanza, di sfera privata e di ruoli sanciti da una lunga tradizione dal forte sapore confuciano».
Per quanto sia indispensabile conoscere i meccanismi culturali e sociali entro cui si collocano le itako, occorre però tenere ben presente, puntualizza Zanetta, che queste donne «hanno un margine individuale di creatività e di agency» che nessuno studio serio di carattere antropologico può permettersi di sottostimare. Quando si parla di itako, si parla di donne di donne, di attrici sociali che, nonostante la posizione di inferiorità in cui si sono trovate a vivere, sono riuscite a sviluppare e a conquistare un ruolo tutt’altro che marginale nella sfera religiosa.
L’universo religioso nipponico è più complesso rispetto a come viene solitamente tratteggiato dagli occidentali; in Giappone le religioni istituzionali si mescolano a dimensioni più popolari di esperienza religiosa e la mancanza di una richiesta di adesione assoluta ed esclusiva consente agli individui di adattare le varie fedi ai diversi contesti sociali, ai momenti della vita e alle diverse inclinazioni personali e familiari. Contrariamente al luogo comune occidentale che, alla luce del loro attingere da una molteplicità di fedi differenti, vuole i giapponesi come “non religiosi”, occorre prendere atto di come invece la religione e la ritualità occupino «una parte importante della cultura quotidiana giapponese, soprattutto quando si tratta di affrontare i grandi temi collettivi e i drammi comunitari della morte e della separazione».
«Le itako sono praticanti religiose (il termine giapponese è minkan fusha) delle tradizioni popolari che scelgono questo mestiere a causa di una cecità congenita o conseguente a una malattia in giovane età»; si tratta dunque di una scelta dettata innanzitutto dalla mancanza di alternative. Non conformi alle figure sciamaniche tratteggiate dalla catalogazione operata da Mircea Eliade (Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, 1951), a fianco di altre praticanti vedenti, che si occupano però soltanto di divinazione, invocazioni dei kami e rituali di cura, si ha notizia della presenza di queste mediatrici con il mondo degli spiriti nell’area di Tōhoku, ove assumono nomi diversi diversi in base alle località, a partire almeno dal periodo Edo (1600-1868).
Collocate al di fuori dalle istituzioni, insieme a criminali e artisti, risulta difficile quantificare la loro presenza nei secoli passati pur risultando presenti in tutto il territorio nipponico, soprattutto nel Nordest. Il loro numero si è notevolmente ridotto negli ultimi decenni; mentre ancora a metà del secolo scorso nelle grandi festività pubbliche si poteva assistere alla presenza di una ventina di sciamane, negli anni Dieci del nuovo millennio a tali riti se ne potevano incontrare davvero poche. Ciò è indubbiamente dovuto, oltre che al calo dei casi di cecità determinato dallo sviluppo della medicina, anche ad un più facile inserimento sociale delle donne non vedenti.
Oltre ai tanti riferimenti desunti dallo studio delle tradizioni locali, l’antropologa riporta quanto appreso dall’incontro diretto con alcune di queste donne, così da avere un racconto in soggettiva circa la loro storia ed il loro comunicare con il mondo dei defunti, per tentare di capire «cosa significhi nascere con pochi – pochissimi – privilegi, cosa vuol dire avere un fisico che non corrisponde alla norma, avere un futuro scritto da altri. E cosa vuol dire riscoprire in questo cammino una possibilità di azione, di libero arbitrio: possiamo quasi azzardare, di potere. Proprio in quella promessa di vicinanza, di accompagnamento sicuro in un mondo carico di pericoli per riscoprire, in cima alla montagna o nelle profondità della terra, che dietro la morte e la perdita si nasconde la concretezza – e forse anche la bellezza – di un legame costante e imperituro».
Con il suo libro Zanetta mostra come «un altro modo di guardare alla morte e ai morti» sia ancora oggi possibile, come, indagato nelle sue «esperienze di margine», il Giappone si riveli un paese molto più sfaccettato, sfumato, duro e complesso rispetto agli stereotipi occidentali soliti a ridurlo all’incanto dei ciliegi in fiore o alla deriva kitsch che si vuole dettata da un inesorabile processo di americanizzazione. Impossibile riassumere in poche righe il complesso universo indagato dall’antropologa; vale la pena lasciarsi da lei accompagnare in questo viaggio tra le itako che, nel Nord del Giappone, sanno ancora oggi comunicare con i defunti.